Le Carte Parlanti

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Mundimago

mercoledì 21 gennaio 2009

GAZA - OPPRESSI - OPPRESSORI

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Sono trascorse due settimane dal mio ultimo affacciarmi a questa finestra di dialogo con i lettori di MicroMega. Troppo per un blog; mi rendo conto. Ma avendo sostenuto il dialogo con Furio Colombo sul tema della guerra a Gaza, non mi sono sentito di scrivere altro. Del resto qualcosa d’altro ho scritto, in merito, un paio di appelli, e un articolo, in altra sede. Ma, diranno i frequentatori di questo spazio che abbiano la curiosità di leggermi, potevi cambiare argomento. No. Non potevo. Da quando la guerra ha avuto inizio, personalmente, non ho avuto altro pensiero. Ma proprio mentre scrivo Olmert annuncia che sono stati “raggiunti e superati” gli obiettivi dell’attacco e accetta uno straccio di tregua (di ritiro delle truppe non vuol sentir parlare): gli obiettivi? 1200 morti? Di cui oltre metà civili? Oltre un terzo bambini? Erano questi gli obiettivi? I razzi di Hamas continuano a piovere sul territorio del Sud Israele e si rivelano fasulle le motivazioni anche di questa ennesima tappa di un conflitto dilemmatico, che non offre possibilità di soluzione.
Malgrado l’embargo delle notizie (su cui si è protestato assai poco: ai giornalisti stranieri è stato impedito di entrare a Gaza, e chi ci è riuscito ha pagato prezzi altissimi. Ma come? Non è Israele “l’unica democrazia del Medio Oriente”?); malgrado la censura sulle immagini degli effetti sulle persone colpite con “nuove armi”, ovviamente vietate, e ovviamente impiegate dall’esercito israeliano, immagini che pudicamente i nostri giornali omettono, forse per non turbare le nostre anime candide; malgrado la posizione platealmente filoisraeliana di quasi tutta la nostra stampa; abbiamo abbastanza elementi per sapere nei termini generali, se ci sforziamo un pochino, cosa accade laggiù. E per emettere dei giudizi argomentati e motivati.
E non starò a ribadire il mio pensiero, se non per sommi capi: la nascita dello Stato di Israele ha prodotto la catastrofe (la Nakba) del popolo palestinese. E i festeggiamenti che in molti Paesi dell’area euro-occidentale si sono compiuti lungo il 2008 per “celebrare” lo Stato israeliano, hanno colpevolmente “dimenticato” che cosa abbia significato per gli “altri”, i Palestinesi, appunto, quel fatto, nel 1948. E che centinaia di migliaia di persone, intere famiglie, sono state scacciate con la forza, sovente facendo ricorso a mezzi i più violenti e brutali che si possano immaginare, e da allora – i sopravvissuti e i discendenti dei morti – chiedono invano di rientrare. A quella tragedia si aggiunse la successiva, di vent’anni dopo. Con la “guerra dei Sei Giorni”, Israele raddoppiò i propri territori a scapito di quelli ottenuti vent’anni prima, creando altri profughi senza speranza, accrescendo l’umiliazione non soltanto dei Palestinesi ma dell’intera “nazione araba”. E crebbe, naturalmente, lo stillicidio di oppressione contro i Palestinesi, cui si è risposto con il terrorismo. A cui i governi di Tel Aviv replicavano con la politica del terrore generalizzato, con l’apartheid, con le “uccisioni mirate”, con quella oscena vergogna che è il Muro; e infine, il lungo, mostruoso blocco di Gaza, che non ha placato la furia dei dirigenti israeliani: ci voleva un attacco, ci voleva un’altra guerra. E guerra è stata.
Davanti a ciò, i nostri commentatori, così forbiti, così “esperti”, così telegenici, e sovente così ben remunerati, dimenticano o fingono di dimenticare che tutto ciò ha prodotto una situazione di intollerabile discriminazione, di crescente oppressione, e infine di vera persecuzione dei Palestinesi da parte del governo israeliano.
Naturalmente se ci si arrischia a dire questo, a scriverlo, è “fare il gioco del terrorismo”, è delegittimare lo Stato d’Israele, è non riconoscere le sue ragioni di sicurezza, ecc. Anzi, i cani da guardia del “diritto di Israele”, si spingono ben oltre. E scatta il noto cortocircuito per cui, se ti azzardi a porre sotto accusa le politiche ormai genocidarie di Israele verso i Palestinesi, senza tanti complimenti vieni equiparato a chi nega la Shoa, a chi addirittura pensa che Hitler “aveva ragione a volerli sterminare…”, come purtroppo si è sentito anche dire in questi giorni, in una ovvia ventata di odio contro Israele, per il massacro del popolo di Gaza che sta perpetrando, nell’accondiscendenza benevola o nel silenzio imbarazzato e impotente dell’Occidente.
Insomma, si viene bollati con uno dei più infamanti marchi che la storia ci abbia consegnati: il marchio dell’antisemitismo.
E se da una parte offende il vero e proprio uso politico dell’Olocausto ebraico che viene fatto da Israele e dai suoi tanti avamposti; se è inaccettabile il ricatto morale per cui le vittime di un tempo hanno conseguito con il loro sangue innocente l’impunità per ogni crimine che potessero compiere in futuro; se appare angosciosa sul piano etico la trasformazione dei perseguitati in perscutori…: quello che, personalmete, più mi turba è la disinformazione costruita in modo da equiparare gli uni e gli altri. L’equidistanza. Qualcuno parla di equivicinanza, con le migliori intenzioni. Io non concordo. Non si può essere ipocriti, non si può porre sullo stesso piano il sangue di migliaia di persone con i tre-quattro morti israeliani… E chi la Resistenza l’ha fatta contro i nazifascisti, qui in Italia, o chi l’ha studiata, ciò dovrebbe ben sapere. Non si può far valer la vita di un soldato di Israele prigioniero altrettanto di quella di centinaia e centinaia di libanesi o palestinesi o siriani. E, al di là delle cifre, e delle modalità, non si possono, non si debbono equiparare oppressori e oppressi.
Ma non mi indignano tanto i politici e i generali di Israele. Mi indignano soprattutto i nostri commentatori, i nostri sedicenti analisti. Che insistono sul terrorismo di Hamas (che ha vinto libere elezioni, e che è stata cacciata da un golpe con la complicità israeliana), per i suoi razzi, che nella loro rozzezza e anche nella loro inefficacia, politica prima che militare, non sono che un tentativo di dire basta al genocidio in atto da un biennio, da quando Gaza è stata blindata dall’esercito d’Israele. Non si può dire: con Hamas non si tratta perché non riconosce lo Stato d’Israele. Dimenticando di aggiungere che Israele pretende il riconoscimento di “Stato etnicamente ebraico”. E dove si parla di etnos, dove si parla di purezza, dove si parla di territorio che “appartiene da sempre” a questi o quelli (si è arrivati a decretare, dopo l’illegale annessione di Gerusalemme Est, che quella che è una delle culle dell’umanità, uno straordinario crogiuolo di popoli, civiltà, lingue, religioni, è “la capitale unica eterna e indivisibile” di Israele). Ma chi scrive sui grandi giornali, chi discetta nei talk show, chi si avvolge nelle bandiere con la Stella di Davide condannando chi le brucia (due gesti perfettamente sinonimi, nella loro simmetria demenziale), forse avrebbe il dovere, prima di “dire la sua”, di studiare la complessa storia e geografia di quella terra che qualcuno si ostina, tra speranza e abitudine, paradossalmente, a chiamare “santa”. E che invece è il cuore nero di una tensione distruggitrice infinita. Che non potrà letteralmente aver fine, se Israele non sconfigge la miopia della sua classe dirigente, e non esce da quel “vicolo cieco” di cui parlava il grande Edward Said.
Chi, provvisto di un minimo di conoscenze storiche, abbia modo di discorrere di questi problemi, rifletta su un fatto: che ogni potere politico o statuale nato dalla guerra, e nutritosi di guerra, è condannato a morire di guerra. Se tale è lo scopo della leadership israeliana, la fine dello Stato nato nel 1948 è già scritta. È soltanto questione di tempo. Vi meditino gli israeliani (e i loro amici italiani, europei e statunitensi). È questo che essi desiderano? Se tale è l’obiettivo, esso sarà presto o tardi “raggiunto e superato”.

Angelo d'Orsi

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