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sabato 25 luglio 2009

Golpe in Honduras, Zelaya sulla via del ritorno

Golpe in Honduras, Zelaya sulla via del ritorno

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Da Misna. Dal Nicaragua, in testa a un corteo di automobili, accompagnato dal presidente Ortega e da ministri nicaraguensi e venezuelani, in un viaggio che gli Stati uniti hanno definito «poco prudente», il presidente Zelaya riprova a tornare in Honduras. Dove lo accoglieranno migliaia di manifestanti già diretti verso il confine

In testa a un lungo corteo di automobili, accompagnato dal presidente nicaraguense Daniel Ortega, dal ministro degli Esteri venezuelano Nicolás Maduro e da Edén Pastora, il ‘Comandante Zero’ della rivoluzione sandinista, il presidente deposto honduregno Manuel Zelaya, ha intrapreso da Managua il viaggio verso il confine del suo paese, nel secondo tentativo di rientrare in patria dopo quello fallito del 5 luglio.
Si rincorrono, da più parti, appelli al ripristino dell’ordine costituzionale nel timore che le tensioni latenti sfocino in violenza. Anche una nutrita schiera di giornalisti, riferiscono fonti di stampa sudamericane, partecipa al viaggio che il segretario generale dell’Organizzazione degli stati americani [Osa] José Miguel Insulza ha giudicato «affrettato», e gli Stati uniti «poco prudente»; dall’altro lato del confine, il governo «de facto» ha imposto il coprifuoco notturno dalle 18 alle 6 lungo le zone di frontiera – non è ancora chiaro da dove Zelaya ha intenzione di rientrare – mentre i sostenitori del presidente si sono mobilitati per accoglierlo.
In un duro comunicato, il ministero della Difesa di Tegucigalpa ha avvertito che le forze armate «non potranno essere ritenute responsabili per la sicurezza di persone che per fomentare la violenza nel paese sono a rischio di essere attaccate, anche dai loro stessi compagni, con il solo proposito di trasformarli in martiri»; Zelaya da parte sua ha rivendicato il suo ruolo di comandante in capo dell’esercito e rivolto un appello ai militari, che il 28 giugno lo hanno arrestato ed espulso dal paese, esortandoli «a consegnare i loro fucili e sottomettersi all’autorità che il popolo ha scelto». Nelle ultime ore diversi dirigenti latinoamericani hanno ribadito il rischio di una guerra civile, se il governo «de facto» non accetterà la proposta del mediatore, il presidente del Costa Rica e Nobel per la pace 1987 Oscar Arias, che include il ritorno alla presidenza di Zelaya.
Secondo il presidente della Bolivia, Evo Morales, la situazione «può sfociare nella lotta armata per la superbia dei golpisti e della destra honduregna». «Se l’impero volesse» ha aggiunto Morales, Zelaya potrebbe rientrare «con la protezione degli oltre 1000 militari americani di stanza in Honduras».
Dal Paraguay, la presidente cilena Michelle Bachelet ha chiesto che le parti in causa «facciano il possibile per evitare una nuova tragedia per l’Honduras»; i ministri degli Esteri del Brasile, Celso Amorim, e del Messico, Patricia Espinosa, hanno chiesto che aumenti la pressione internazionale sul governo «de facto», nuovamente esortato, anche da Insulza, ad accogliere la proposta di Arias. Nella sua ultima Riflessione, intitolata ironicamente «Un Premio Nobel per la signora Clinton», Fidel Castro critica la mediazione di Arias, definita «la geniale idea yanqui» per «cercare di prendere tempo, consolidare il golpe e demoralizzare gli organismi internazionali che appoggiano Zelaya». Per Castro, dopo aver ignorato l’ammonimento a rinunciare al potere rivoltogli dall’Osa – che ha peraltro sospeso l’Honduras – «i golpisti si stanno già muovendo nelle sfere oligarchiche dell’America Latina, alcune delle quali, da alte posizioni statali, non arrossiscono più parlando delle loro simpatie per il golpe mentre l’imperialismo pesca nel fiume torbido dell’America Latina. Esattamente quello che desideravano, con l’iniziativa di pace, gli Stati uniti mentre acceleravano i negoziati per circondare di basi militari la patria di Bolivar».
Il commento sembra diretto in particolare al presidente della Colombia, Alvaro Uribe, che sta negoziando con la Casa Bianca l’utilizzo di basi militari da parte degli statunitensi – una questione che sta sollevando dubbi e critiche in diversi paesi della regione – e che nei giorni scorsi ha espresso pubblicamente «simpatia» per il presidente «de facto» Roberto Micheletti.

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