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sabato 26 settembre 2009

promesse tradite dei G20

Le promesse tradite dei 20 "grandi"


“Mi spiegate per quale motivo non posso camminare nella mia città?”. Una signora di una certa età si rivolge in maniera più desolata che arrabbiata a un giovane agente in tenuta antisommossa, dietro una delle griglie di metallo che bloccano quasi tutte le strade del centro. In una Pittsburgh militarizzata oltre ogni immaginazione si è svolto il vertice del G20, l’ultimo di una lunga serie di incontri internazionali organizzati quest’anno per cercare delle soluzioni alle peggiore crisi finanziaria degli ultimi decenni.
Una sensazione di rabbia mista a incredulità che ha rapidamente sostituito, tra gli abitanti, l’orgoglio dei giorni scorsi, nel vedere la piccola Pittsburgh diventare per due giorni il centro del mondo. Da capitale dell’acciaio, simbolo del degrado e della crisi dell’industria pesante americana, la città della Pennsylvania ha saputo trasformarsi e rinascere, puntando sulle nuove tecnologie e sul polo informatico. Una città “verde”, scelta come emblema dell’immagine e delle speranze che i paesi del G20 vorrebbero dare nel prossimo futuro.
Le questioni nell’agenda del vertice erano diverse: da una parte la necessità di dare nuove regole alla finanza per evitare il ripetersi di una crisi di tale ampiezza, dall’altra la questione delle risorse per rilanciare le economie nazionali, e quelle dei Paesi più poveri in particolare. Un ulteriore aspetto fondamentale è quello della governance, ovvero dell’assetto e del potere delle diverse istituzioni internazionali nello scenario post-crisi. A questa agenda, già molto ampia, si somma la questione dei cambiamenti climatici a meno di tre mesi dal cruciale appuntamento di Copenhagen, per non parlare delle notizie dell’ultima ora sul nucleare iraniano.
Sulla partita della regolamentazione finanziaria, negli ultimi giorni Francia e Germania hanno provato a dare un’accelerazione. Nicolas Sarkozy è arrivato a minacciare l’abbandono del vertice se non si fosse trovato un modo di porre un limite ai bonus dei banchieri. In maniera ancora più sorprendente, lo stesso presidente francese e il cancelliere tedesco Angela Merkel hanno riaperto il dibattito sulla proposta di una tassa sulle transazioni finanziarie. Un’imposta che permetterebbe di frenare le attività speculative più dannose e di reperire preziose risorse economiche per rilanciare le economie più deboli. Più in generale uno strumento che permetterebbe di dare alla sfera politica degli strumenti efficaci per frenare lo strapotere della finanza e la speculazione. Una proposta che si è però scontrata, una volta di più, con le potentissime lobby della City di Londra e di Wall Street.
Persino sul capitolo dei derivati non regolamentati – over the counter – da tutti additati come uno degli strumenti che maggiormente contribuiscono al formarsi di bolle speculative, i leader del G20 si limitano a “ritenere opportuno” che entro fine 2012 tali strumenti vengano trattati su piattaforme elettroniche, che permettono maggiore controllo e trasparenza. Il Financial Stability Board viene incaricato di svolgere uno studio sul funzionamento dei mercati dei derivati.
Non va molto meglio riguardo le risorse da destinare alla ripresa. I Paesi del G20 confermano le misure di stimolo e non parlano ancora di una “exit strategy” dai sostegni pubblici, che dovrà comunque avvenire il “prima possibile”. Qui risiede però uno dei problemi centrali dell’attuale situazione economica. Le maggiori potenze del mondo possono affrontare enormi piani di stimolo e di sostegno alle proprie economie. I paesi del sud, e quelli più deboli in particolare, non hanno le risorse per farlo.
Il G20 aveva incaricato il Fondo Monetario Internazionale, già durante l’ultimo vertice di Londra, di stanziare buona parte di tali risorse per i paesi più poveri. Diverse reti della società civile internazionale hanno però segnalato che queste risorse sono del tutto insufficienti.
In questa situazione, gli stati più poveri sono costretti a emettere obbligazioni, indebitandosi. In una situazione di grave incertezza dei mercati, i titoli di stato delle economie più deboli sono considerati ad alto rischio. Queste nazioni devono allora garantire altissimi tassi di interesse per riuscire a piazzare i propri titoli sui mercati finanziari. Secondo una ricerca della rete europea Eurodad, il tasso di interesse sui titoli di stato per le economie emergenti è passato da una media del 6,4% prima della crisi, all’11,7% attuale.
Tutti i comunicati dei vertici internazionali riconoscono che la responsabilità della crisi è dei grandi attori della finanza mondiale, e che gli impatti più gravi ricadono sui Paesi più poveri. Nei fatti, al contrario questi ultimi sono costretti a indebitarsi proprio con i mercati finanziari. In pratica i grandi attori finanziari potrebbero uscire dalla crisi in buona parte grazie alle risorse dei Paesi più poveri, per i quali si profila una nuova crisi del debito estero.
E’ una situazione a dire poco paradossale, che solleva il tema più generale dietro l’incontro del G20: il futuro assetto della governance internazionale e il peso delle diverse agenzie. Il vertice di Pittsburgh ha definitivamente confermato che lo stesso G20 si è auto-nominato gestore dell’economia mondiale. Dei compiti di primo piano vengono affidati al Fmi, all’Ocse, al Financial Stability Board. Tutte istituzioni, al pari del G20, dominate dalle nazioni più ricche e nel quale le piccole economie del sud sono assenti o comunque del tutto escluse da qualunque ruolo decisionale. Non bastano nel testo finale alcune vaghe dichiarazioni circa la necessità di allargare questi organi e di garantire una maggiore partecipazione al loro interno per legittimare il “nuovo club dei ricchi” a decidere per conto dell’intero pianeta.
Il vertice di Pittsburgh è stato con ogni probabilità molto più importante nella forma che nella sostanza. Nella forma si è trattato di una tappa fondamentale per riscrivere i rapporti di forza del mondo. Ha segnato il definitivo ingresso ai tavoli che contano delle nuove potenze del sud, e il probabile tramonto del “vecchio” G8, ma ha contemporaneamente escluso la maggioranza dei Paesi del pianeta da ogni dibattito sul futuro dell’economia e del ruolo delle istituzioni internazionali.
Nella sostanza, rispetto all’emergenza di riformare alla base la finanza internazionale, il risultato è davvero deludente. Il rischio concreto è che con il passare dei mesi si chiuda la finestra di opportunità per rimettere in discussione un sistema rivelatosi assolutamente insostenibile. Già oggi assistiamo alla ripresa del business as usual: il mondo bancario e finanziario rialza la testa, riprendono con ancora più vigore le attività di lobby che mirano a scongiurare qualunque forma di controllo o di regole, si ricomincia a speculare sui derivati e a concludere operazioni spregiudicate sui mercati. Tutto questo come se nulla fosse successo, nell’attesa del prossimo vertice o forse della prossima crisi.
Partendo da Pittsburgh, la sensazione è che la montagna del G20 abbia partorito un topolino piccolo piccolo. Intanto gli squali della finanza esultano, più affamati che mai.

Andrea Baranes
CRBM / ManiTese

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