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Mundimago

mercoledì 30 settembre 2009

Wto: il parcheggio della globalizzazione


Wto: il parcheggio della globalizzazione

Monica Di Sisto Fair

A Ginevra, l'Organizzazione mondiale del commercio ha organizzato un Public forum di due giorni per spiegare le proprie, stanche ricette per uscire dalla crisi. Il direttore Pascal Lamy non può nascondere lo smacco. E la contestazione guarda già alla ministeriale di novembre.

La Wto ha vinto: l’Organizzazione mondiale del commercio, infatti, si è aggiudicata la maggioranza nel referendum popolare voluto da chi contestava la sua decisione di allargare il proprio quartier generale a Ginevra, a discapito di una belle fetta del parco che circonda il lago Lemano. L’Organizzazione, in realtà, non aggiungerà più di qualche ufficio alla struttura esistente, ma realizzerà un agognato parcheggio all’altezza dei suoi molti altolocati dipendenti e frequentatori. E’ con la baldanza di chi sa che dall’indomani – i lavori sono già avanzati – e con il sostegno della popolazione, arriverà al lavoro con grande comodità, che il Direttore generale, Pascal Lamy, ha aperto le porte della Wto a lobbisti, associazioni, sindacalisti, uomini d’affari ed esperti vari per il Public Forum 2009, una tre giorni [28-30 settembre] nella quale si vuole discutere senza rete sui nodi più spinosi dei negoziati sulle liberalizzazioni in corso ormai da svariati anni.
«La Wto non predica trasparenza e apertura al dialogo solo la domenica, ma le pratica anche al lunedì» ha ironizzato Lamy accogliendo le diverse centinaia di partecipanti, e assicurando gli astanti pochi secondi dopo che «la famiglia della Wto, dai membri agli staff, vuole così raccogliere nel miglior modo possibile le preoccupazioni e aspettative su come lavorare meglio in futuro».
E di preoccupazione, tra le eleganti sale di Rue Lausanne, se ne respira parecchia: nel primo quadrimestre del 2009 gli scambi commerciali sono scesi del 30 per cento rispetto allo stesso periodo del 2008 in area Ocse, cioè per i Paesi più ricchi, e ci si aspetta che a fine 2009 il dato sarà per tutto il mondo – Cina e India comprese, che continuano a crescere anche se più lentamente – di un secco -10 per cento. Tutta quella forza, quella fiducia nelle meravigliose sorti della globalizzazione sembra archiviata. Anzi: i padiglioni di legno e mosaici dove gli esperti si sono confrontati a microfoni aperti con il pubblico sembrano quasi un residuato del passato a confronto con la realtà: il mondo produttivo si sta rilocalizzando.
Sebastien Miradot dell’Ocse lo ha detto a chiare note: le filiere globali si sono dimostrate più sensibili delle altre alla crisi del credito e alle speculazioni. Il risultato? Molte multinazionali stanno riportando in patria – meglio, nei quartier generali nei paradisi fiscali – baracca e burattini. Crescono i costi dei trasporti e del petrolio, le filiere più corte sono più flessibili e più facili a subire cambiamenti, i consumatori diventano sempre più «nazionalisti e ambientalisti»? Bene, meglio scegliere un Paese solo – o pochi – dove si pagano poche tasse e ci sia un governo stabile, e concentrare tutto lì. I Paesi emergenti, almeno, stanno facendo questo. Bo Meng, altro esperto Ocse, mostra una mappa sulla quale costruisce una ragnatela: ogni filo rappresenta le principali filiere che collegano i più grandi Paesi produttori. Gli Stati Uniti, flagellati dalla crisi, ne contano ben trenta, la Cina solo 11 e per questo, spiega Meng, è risultata meno dipendente dagli shock esterni, più flessibile.
Nonostante i proclami di fiducia nella progressiva globalizzazione, echeggiati anche al G20 di pittsburg con grande clamore, il vertice dei ministri al Commercio prevista per fine novembre, dove per l’ennesima volta si dichiara di voler rilanciare l’economia con le liberalizzazioni nonostante siano state motori della crisi in corso, si annuncia in tono dimesso. Lamy, preoccupato di chiudere il mandato di direttore generale senza riuscire, per la seconda volta, a portare a compimento il ciclo di negoziati «dello sviluppo» lanciati a Doha nel lontano 2001, ha fissato per i ministri una serrata tabella di incontri con altrettanti compiti a casa: percentuali di tariffe da tagliare, definizione precisa di che cosa si è disposti a liberalizzare [acqua? Riso? Farina? Servizi bancari? Prodotti industriali?] ed entro quando. Nei corridoi della Wto a Ginevra, però, tutti sembrano molto cauti sul fatto che si arrivi davvero a un risultato concreto.
Il Doha Round potrebbe essere, così, il primo ospite eccellente del nuovo parcheggio di rue Lausanne, immobilizzato a vita dai gravi danni che ha provocato. Per questo le associazioni svizzere stanno lavorando intensamente alle proposte di mobilitazione: una grande manifestazione per il 28 novembre, una giornata di dibattito e lobby popolare sui delegati in arrivo il 29 novembre, e poi, dal 30, un pranzo contadino al giorno per i negoziatori, presidio permanente della sovranità alimentare, e un «lobby tour» per raccontare come funzionano i negoziati a partire dai poteri forti tanto visibili in città: le sedi ecomostruose, i bar che frequentano, i ristoranti dove abbordano i negoziatori. Da Ginevra, in carovana, si partirà per Copenhagen, per partecipare al vertice sul clima: avete scialacquato le nostre ricchezze, non svenderete il nostro futuro, è lo slogan su cui stanno lavorando. E’ una battaglia decisiva, nessuno può mancare.

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