Le Carte Parlanti

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Mundimago

domenica 29 novembre 2009

Wto a Ginevra, dieci anni dopo Seattle

Wto a Ginevra, dieci anni dopo Seattle

Il 30 novembre a Ginevra, la Wto si riunisce per tentare di rilanciare il negoziato sulla ulteriore liberalizzazione del commercio mondiale. In tutto il mondo, azioni di protesta contro il summit. Pensando al vertice di Copenhagen sui cambiamenti climatici.

Sul sito ufficiale della Organizzazione mondiale del commercio, Wto, c’è un link alla campagna «Seal the deal» [fate l’accordo]. Una «mobilitazione telematica» per sostenere il vertice Onu di Copenhagen sui cambiamenti climatici. Il link è in fondo alla pagina, dopo tutta la retorica della Wto sui benefici del commercio internazionale che più libero non si può e dopo i documenti sulla prossima riunione ministeriale, prevista dal 30 novembre al 2 dicembre a Ginevra, nel quartier generale della Wto.
Il link rimanda a un sito che nella grafica allude a quelli dei movimenti sociali che dieci anni fa, a Seattle, contribuirono in modo determinante al fallimento del round di negoziati che avrebbe dovuto sancire l’inizio di una nuova era per la Wto e per il commercio mondiale. C’è perfino la silhouette di una persona con il pugno alzato, evidentemente a protestare contro qualcosa o qualcuno. Marketing politico, dai verti della Wto, secondo una tecnica di «greenwashing» di cui ormai nemmeno le multinazionali più feroci possono fare a meno. E’, appunto, solo marketing. Perché nel summit della Wto, a Ginevra, il clima entrerà di striscio, come uno dei «fattori» da tenere presente per i futuri scenari del business globale, quando non come una delle nuove opportunità di affari.
A Ginevra, sfruttando l’alibi della tempesta perfetta della crisi finanziaria ed economica mondiale, i negoziatori della Wto cercheranno di rimettere in modo il cosiddetto Doha development round, cioè l’insieme delle nuove – e più liberiste – regole del commercio mondiale che aveva mosso i primi passi a Seattle, per arenarsi poi nella conferenza di Doha, in Qatar, nel 2001. Dal vertice di dieci anni fa, la Wto ha collezionato solo fallimenti: Doha, appunto, e poi Cancun, in Messico, nel 2003 e Hong Kong due anni più tardi. Agricoltura, brevetti, investimenti diretti esteri rimangono gli ostacoli che il negoziato dovrebbe superare, senza però che i paesi più «pesanti» nella Wto abbiamo smussato le proprie posizioni, tutte orientate a garantirsi quanto più spazio nei mercati emergenti proteggendo quelli «interni» dalla presenza di merci, beni, servizi provenienti da «fuori». E’ cambiata, invece, rispetto a dieci anni fa la forza contrattuale di alcuni paesi del sud del mondo, India e Cina innanzi tutto, ma anche Brasile, Sudafrica, Indonesia, Messico, Corea del sud, Australia, e via elencando fino a comporre l’elenco dei 20 paesi più importanti, quelli che si sono riuniti pochi mesi fa a Pittsburgh, negli Usa, peraltro senza grandi risultati.
Ricordare la ministeriale di dieci anni fa, però, non serve a celebrare un anniversario. Serve semmai a rilanciare la protesta contro l’idea di mondo delineata dagli accordi che la Wto ancora cerca di imporre, nonostante l’evidenza del fallimento: crisi climatica, aumento della fame, instabilità economica, erosione dei diritti ovunque. E’ questo lo spirito delle iniziative che si preparano in tutto il mondo, con modi, accenti, stili diversi. E’ questo anche lo spirito della manifestazione di protesta prevista a Ginevra domani, 28 novembre, due giorni prima dell’inizio del summit della Wto. «Una cosa è chiara: al centro dell’agenda della ministeriale della Wto che si aprirà lunedì, per l’ennesima volta non ci saranno i diritti di tutti ma gli interessi di pochissimi – scrivono in un comunicato gli attivisti riuniti nella Casa delle associazioni, a Ginevra – Ma se qualcuno pensava che tenendo bassa la comunicazione su questo vertice, noi li avremmo persi di vista, a gli avremmo permesso di andare avanti ‘business as usual’, si sbagliava di grosso».
Così come si sbaglia chi pensa che basti un link sul sito per nascondere le responsabilità della Wto [e dei governi dei paesi ricchi in essa] per il disastro ecologico di cui si discuterà a Copenhagen a partire dal 7 dicembre.

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sabato 28 novembre 2009

Roma. Blitz contro la legge Carfagna

Roma. Blitz a palazzo Grazioli contro la legge Carfagna

«Vergogna! Vergogna! No alla legge Carfagna». Blitz di un gruppo di studentesse e precarie in via del Plebiscito. Più di una cinquantina di ragazze con ombrello rosso in mano hanno improvvisato un sit-in davanti all’ingresso principale di palazzo Grazioli, residenza-ufficio di Silvio Berlusconi. Protestano contro il governo e chiedono il ritiro della proposta di legge Carfagna che «vuole apparentemente essere un intervento punitivo contro lo sfruttamento della prostituzione ma in realtà, invece che punire gli sfruttatori, colpisce solo le prostitute di strada e i loro clienti con l’arresto, additandole tra i nemici pubblici numero uno». Le manifestanti hanno esposto uno striscione rosso con la scritta «Non c’è casa più chiusa di questa».
Le dimostranti sono riuscite ad arrivare proprio sotto il portone. Subito sono intervenute le forze dell’ordine a presidiare l’ingresso. Quando un funzionario della polizia le ha invitate ad allontanarsi ci sono stati momenti di tensione.
Le studentesse e precarie in solidarietà con le sex workers, si legge in un volantino distribuito ai giornalisti, se la prendono anche con la Commissione salute del senato che ha votato un documento che «pone il veto alla commercializzazione della pillola abortiva, al centro del più ampio dibattito sulla libertà di scelta». Le manifestanti hanno anche chiesto «verità e giustizia» sul caso Brenda. Terminato il blitz sono state rafforzate le misure di sicurezza intorno alla presidenza del premier.

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giovedì 26 novembre 2009

Niente arresti per Cosentino, polemiche sulla giustizia

Niente arresti per Cosentino, polemiche sulla giustizia

La giunta per le autorizzazioni a procedere della camera ha respinto la richiesta di arresti per il sottosegretario del Pdl accusato di collusioni con la camorra. Intanto si discute della proposta di Fini sulla giustizia: fare una riforma organica partendo dalla bozza di Luciano Violante.

Se un uomo politco con responsabilità di governo riceve la notizia di essere indagato per collusioni con la mafia si deve dimettere dalle sue funzioni? Se si guarda da qusto punto di vista il dibattito che accompagna la vicenda del deputato del Pdl Nicola Cosentino, non è difficile comprendere che non si sta discutendo [solo] della sorte dell’uomo forte della destra campana, ma si sta ragionando del possibile destino di SIlvio Berlusconi. Se l’avviso di garanzia per le rivelazioni del pentito di mafia Gaetano Spatuzza circa il passaggio che ha portato dalla fine della prima repubblica all’ascesa di Forza Italia dovessero trovare dei riscontri e quindi raggiungere il presidente del consiglio cosa accadrebbe? Ecco di cosa si discute in questi giorni. Basta sostituire il nome del premier a quello del deputato campano accusato di collusioni con la camorra dalla procura di Napoli per averne un’idea.
Oggi la giunta per le autorizzazioni della camera ha negato l’arresto richiesto dalla Procura di Napoli per il sottosegretario all’economia berlusconiano. La decisione definitiva spetta all’aula, in cui il parere della giunta verrà esaminato tra due settimane. Nel pomeriggio, intanto, l’assemblea del senato discute le mozioni di sfiducia con cui Pd e Idv chiedono le dimissioni di Cosentino dal governo. La decisione di respingere la richiesta di arresto è stata presa con undici voti a favore [quelli del Pdl e del deputato Udc Domenico Zinzi], sei contrari [Pd, Idv e l’Udc Pierluigi Mantini] e un astenuto [il radicale eletto nel Pd Maurizio Turco]. «La casta si è nuovamente autoassolta, è una vergogna per tutti i cittadini italiani», attacca il leader dell’Idv, Antonio Di Pietro. Per il relatore Nino Lo Presti del Pdl invece c’è un «fumus persecutionis oggettivo» nei confronti del sottosegretario all’economia. La pensa diversamente il presidente della giunta, Pierluigi Castagnetti del Pd, che spiega: «Durante il dibattito sono emersi elementi di solidità e di gravità degli indizi a carico di Cosentino che hanno indotto il giudice per le indagini preliminari ad assumere questo tipo di provvedimento». Il vicepresidente dei deputati Udc, Michele Vietti, spiega che «i due componenti della giunta dell’Udc hanno ricevuto il mandato di votare secondo coscienza» e infatti si sono divisi, uno a favore e uno contro. Vietti ricorda pure che l’Udc alla camera «ha chiesto con una propria mozione le dimissioni del sottosegretario dal governo per manifesta incompatibilità». Mozioni che, insieme a quelle del Pd e dell’Idv, verranno probabilmente calendarizzate in Aula a Montecitorio domani dalla conferenza dei capigruppo fissata per le 11.30, dunque dopo il voto del senato. Da discutere nel Pdl resta ancora la questione della candidatura di Cosentino alle Regionali in Campania: il nodo verrà sciolto probabilmente domani nel corso dell’ufficio di presidenza del partito ma gran parte della vecchia An continua a ritenere inopportuna una corsa del sottosegretario alla presidenza della Regione. Oggi la finiana Flavia Perina ha ribadito che «Cosentino non fa bene a insistere nel candidarsi alla guida della regione Campania. In tutto il centrodestra è opinione diffusa che sarebbe più utile un passo indietro di Nicola Cosentino, che alla fine credo ci sarà».
Intanto si discute della proposta di Fini sulla giustizia: fare una riforma organica partendo dalla bozza di Luciano Violante.


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martedì 24 novembre 2009

USA E CINA CONTRO COPENHAGEN





USA E CINA CONTRO COPENHAGEN. INONDIAMOLI DI MAIL!

Cari cyberattivisti,
i presidenti del Governo americano e cinese - Barack Obama e Hu Jintao - hanno recentemente affermato di voler ridurre il vertice di Copenaghen a un mero accordo politico senza impegni concreti. Perciò, insieme a Legambiente e Wwf, abbiamo invitato tutti cittadini a mobilitarsi contro questo accordo al ribasso sul clima per ridurre la portata delle decisioni da prendere nel prossimo vertice sul Clima. Vogliamo che Obama e Jintao cambino idea!

Il summit deve rimanere la sede di un accordo concreto sul clima, con la sottoscrizione di obiettivi quantificati e di impegni finanziari precisi. Questa occasione non può essere rimandata a data da definire, perché l’innalzamento della temperatura del pianeta ha già raggiunto il livello di guardia e molti Paesi già ne patiscono pesantemente le conseguenze.

Inondiamo di e-mail le sedi delle rappresentanze statunitensi e cinesi, scriviamogli su facebook, facciamogli capire che ai cittadini l’accordo “politico” Usa-Cina non piace perché rimanderà ancora gli impegni concreti. Occorre, invece, che venga raggiunto un accordo “vincolante” su tutte le parti del nuovo trattato salva-clima che deve dare un futuro al Protocollo di Kyoto, in scadenza nel 2012.

Ambasciata Usa a Roma: uscitizensrome@state.gov
Ambasciata cinese a Roma: chinaemb_it@mfa.gov.cn
Facebook ufficiale Casa Bianca http://www.facebook.com/WhiteHouse

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lunedì 23 novembre 2009

Manifestazione No Ponte il 19 dicembre

Lancio della manifestazione No Ponte il 19 dicembre


«La questione del Ponte è certamente calabrese e siciliana, ma riteniamo che debba essere considerata di interesse nazionale e internazionale: un contenitore di lotte per l’ambiente e contro la politica speculare», dice la Rete No Ponte per lanciare la manifestazione «Fermare i cantieri del Ponte e lottare per le vere priorità», il 19 dicembre a Villa San Giovanni [Reggio Calabria]. La presentazione dell’iniziativa c’è stata questa mattina, in una conferenza stampa alla Casa delle culture a Roma, affinché il 19 ci siano non solo le realtà calabresi e siciliane che hanno fatto propria la piattaforma, ma anche tutte quelle che in Italia si battono per la difesa del proprio territorio. Le ragioni del movimento calabrese e siciliano contro la costruzione del ponte sullo Stretto non sono solo «tecniche», ma si concentrano anche sulla speculazione finanziaria e la logica dello sfruttamento sfrenato e distruttivo del territorio. Fatti ormai evidenti a tutti dopo le vicende calabresi: mare e terra usati dalla ‘ndrangheta per seppellire rifiuti tossici e nucleari. www.retenoponte.it



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No al carbone nel parco del Delta

No al carbone nel parco del Delta

Francesco Casoni

Il ministero dell'ambiente ha detto sì, ora manca la firma del ministro Scajola. Ma a combattere il carbone dell'Enel, nel Delta del Po, con gli ambientalisti ci sono anche le categorie economiche, che insieme ricorrono al Tar. Silenzio invece dall'Emilia Romagna, patria del segretario del Pd Bersani, noto sostenitore del combustibile fossile.

E’ l’ora dei ricorsi al Tar contro la riconversione a carbone della centrale Enel di Porto Tolle, nel cuore del parco naturale del Delta del Po, che ha ricevuto il via libera del ministero dell’ambiente e attende il decreto del ministro dello sviluppo economico Claudio Scajola.
A tentare l’ultima resistenza è un manipolo di associazioni, comitati cittadini, pescatori e operatori turistici. L’idea di un camino fumante in mezzo al Delta non piace agli ambientalisti, ma preoccupa anche Rosolina, il più importante centro balneare della provincia di Rovigo. Così tra i promotori del ricorso al Tar del Lazio, depositato la settimana scorsa dall’avvocato Matteo Ceruti, ci sono l’Assagaime, associazione di agenzie immobiliari e turistiche con un migliaio di appartamenti a Rosolina, il Consorzio operatori balneari, in rappresentanza di una decina di stabilimenti, i villaggi Club Srl e Rosapineta Sud e anche i Consorzi pescatori Delta Nord e Po di Maistra, oltre ai «soliti» Greenpeace, Italia Nostra, Wwf e Comitato cittadini liberi di Porto Tolle. Insomma, ci sono anche le categorie produttive, che evidentemente sognano per il Delta uno sviluppo economico basato sulle peculiarità del territorio e non sulle dubbie ricadute economiche della centrale.
Ventisette i punti toccati dal ricorso, a partire dall’emendamento inserito dal Governo nel «decreto incentivi», una vera e propria norma ad hoc sul carbone, pensata per aggirare la legge del Parco del Delta del Po. Peccato però che lo stesso presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in una lettera inizialmente riservata, abbia espresso dubbi sulla legittimità costituzionale e sulla pertinenza dell’emendamento, ma anche sulla sua sostenibilità economica: se a regime la centrale emetterà oltre 10 milioni di tonnellate l’anno di anidride carbonica, per rispettare i limiti del trattato di Kyoto l’Italia dovrà comprare quote da altri paesi «virtuosi» oppure pagare multe salate. Tra i punti deboli dell’iter che ha autorizzato la riconversione, l’avvocato Ceruti rileva l’esclusione della Regione Emilia Romagna e quella ancora più clamorosa dell’Ente parco del Delta del Po. Un capitolo a parte va poi dedicato ai pareri ignorati, da quello dell’Arpa Veneto che imponeva limiti alle emissioni più rigorosi di quelli autorizzati, a quello della soprintendenza di Verona, secondo cui l’impianto non è armonizzabile in alcun modo con il paesaggio del Delta. E, ancora, la mancanza di un confronto con la soluzione a metano, la scarsa considerazione dell’impatto sull’ambiente di una zona umida unica al mondo e l’assenza di valutazioni sull’apporto di polveri e metalli pesanti nel bacino padano.
Dopo il Tar, resta ancora possibile fare ricorso al capo dello Stato entro metà dicembre, soluzione già annunciata dal Comune di Rosolina. Non si hanno notizie, invece, dal versante emiliano. La Regione Emilia Romagna avrebbe dovuto curare il ricorso di alcuni comuni del ferrarese interessati dalle ricadute e della stessa Provincia di Ferrara. Ma non se n’è fatto nulla. Scelta politica? Non è un mistero che il segretario nazionale del Pd, l’emiliano Pier Luigi Bersani, sia un sostenitore del carbone. Del resto anche nella politica rodigina pare ormai prevalere il pensiero unico sulla centrale. L’amministrazione provinciale di centrosinistra per anni ha avuto una posizione ambigua Poi, per renderla chiara, al ballottaggio di giugno ha sbattuto la porta in faccia alle liste civiche dei comitati per l’ambiente, alleandosi invece con una civica guidata da un ex Fiamma Tricolore. Vinte di nuovo le elezioni, oggi il dibattito sul carbone è solo sulle ricadute economiche. Ed è caldo. Forse perché il prossimo anno si vota per le regionali e perché molti si stanno accorgendo che per l’economia locale i guadagni saranno molto più modesti di quanto promesso.
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venerdì 20 novembre 2009

Sabato 21, le donne si riprendono la notte


Sabato 21, le donne si riprendono la notte

Sarah Di Nella

Sabato 21 a Roma ci sarà un corteo notturno contro la violenza di genere. Apre la settimana di mobilitazione sulla violenza maschile contro le donne.

Una ragazza che fa sport, parrucca bionda in testa, tuta da ginnastica di ordinanza e pesi in mano, inveisce: «Siete flaccide, un due tre». A farle da ombra, la sagoma di un militare. Di fronte alle facce sbigottite dei passanti che si fermano, spiega il suo personaggio: «Questa è una ragazza che fa footing, la mattina presto e la sera tardi, e ha paura. Ha l’esigenza di avere un militare appresso». Su un cartello troneggia una famosa frase del premier Berlusconi: «Un soldato per ogni bella ragazza». Sono una ventina le donne di movimenti e collettivi femministi, per il diritto all’abitare, lgbtq, studenteschi, arrivate in piazza dei Cinquecento per presentare Take back the night, la manifestazione notturna di sabato 21 novembre a Roma. Sotto la citazione del premier, hanno aggiunto: «Sicure che basti?».

Due manichini sorreggono uno striscione, attorno una galleria di personaggi: casalinghe armate di ferro da stiro, una studentessa serba con il velo in testa e il computer in mano intenta a leggere un libro. Spiega che lei vorrebbe studiare da sola, ma non c’è modo di cacciare via il militare che ha alle spalle. «Meglio sola che male accompagnata», recita il suo cartello. Un anziano signore si avvicina, legge uno striscione sul quale c’è scritto «Solidarietà a Horus, contro ogni sgombero». E chiede: «E chi è sto Horus?».

Dal megafono si ricorda che «la violenza contro le donne avviene in famiglia ed è spesso opera dei partner. Lo stupratore non è un clandestino, è chi ci sta vicino». I dati parlano chiaro. Secondo un rapporto dell’Istat, solo nel 24,8 per cento dei casi l’aggressore è uno sconosciuto. E tra i 16 e i 50 anni, la prima causa di morte tra le donne non è né la malattia né gli incidenti stradali, ma la violenza. Basta ricordare che un omicidio su quattro avviene in casa. A questo va aggiunto anche che il 39 per cento delle donne hanno subito violenza psicologica dal proprio partner. L’appello ricorda infatti come «nell’immaginario comune, la notte è sempre stata associata all’insicurezza, alla violenza, alla paura e all’idea del pericolo fuori casa. Ma noi non ci caschiamo». «Siamo pronte – spiegano le organizzatrici – a uscire nelle strade a ridosso del 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza sulle donne, per ribadire che non sono telecamere ed emarginazione, detenzione ed espulsione dei migranti e delle migranti a darci sicurezza, ma la nostra libertà e autodeterminazione dentro e fuori casa».
Due poliziotti si avvicinano per chiedere cosa sta succedendo. «E’ un volantinaggio creativo», gli viene risposto. «Sembra pacifico», convengono i due. «Noi la gente non la picchiamo», conferma la «sportiva». I due si allontanano.

Nella piccola folla, c’è anche Leila Daianis, presidentessa dell’associazione di persone transessuali Libellula. Insieme a Fernanda Guess farà una performance in piazza dell’Immacolata, a San Lorenzo. «Durante la manifestazione – spiega Leila Daianis – ci saranno tappe in diverse piazze tematiche, con performance artistiche e musicali. Noi ci saremo per denunciare la violenza fisica, psicologica e morale che subiscono le donne transessuali. È in atto in Italia un vero e proprio accanimento politico e mediatico contro le persone transessuali. I media ci descrivono sistematicamente seguendo lo stereotipo che ci vuole tutte prostitute e criminali. Noi lottiamo a livello informativo e culturale per capovolgere questo stereotipo che ci sta decisamente stretto. Lo facciamo attraverso il teatro, la letteratura, la poesia. Perché al movimento transgender serve più consapevolezza sull’uso del linguaggio. Ma stiamo anche lavorando su progetti di servizi alle persone transessuali».
Alla manifestazione che apre la settimana di mobilitazione contro la violenza maschile sulle donne, parteciperanno anche le artiste Giulia Anania, Eli Natali, Bianca Giovannini, Banda Jorona e Honeybird, con mini-live. L’appuntamento per «riprendersi la notte» è sabato 21 novembre alle 18,30 in piazza Vittorio a Roma. Il corteo, che passerà anche per la stazione Termini, si concluderà in piazzale del Verano.


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giovedì 19 novembre 2009

NO VENDITA BENI CONFISCATI ALLA MAFIA



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NO ALLA VENDITA DEI BENI CONFISCATI
Firma l'appello: Niente regali alle mafie, i beni confiscati sono cosa nostra
Tredici anni fa, oltre un milione di cittadini firmarono la petizione che chiedeva al Parlamento di approvare la legge per l'uso sociale dei beni confiscati alle mafie. Un appello raccolto da tutte le forze politiche, che votarono all'unanimità le legge 109/96. Si coronava, così, il sogno di chi, a cominciare da Pio La Torre, aveva pagato con la propria vita l'impegno per sottrarre ai clan le ricchezze accumulate illegalmente.

Oggi quell 'impegno rischia di essere tradito. Un emendamento introdotto in Senato alla legge finanziaria, infatti, prevede la vendita dei beni confiscati che non si riescono a destinare entro tre o sei mesi. E' facile immaginare, grazie alle note capacità delle organizzazioni mafiose di mascherare la loro presenza, chi si farà avanti per comprare ville, case e terreni appartenuti ai boss e che rappresentavano altrettanti simboli del loro potere, costruito con la violenza, il sangue, i soprusi, fino all'intervento dello Stato.

La vendita di quei beni significherà una cosa soltanto: che lo Stato si arrende di fronte alle difficoltà del loro pieno ed effettivo riutilizzo sociale, come prevede la legge. E il ritorno di quei beni nelle disponibilità dei clan a cui erano stati sottratti, grazie al lavoro delle forze dell'ordine e della magistratura, avrà un effetto dirompente sulla stessa credibilità delle istituzioni.

Per queste ragioni chiediamo al governo e al Parlamento di ripensarci e di ritirare l'emendamento sulla vendita dei beni confiscati.
Si rafforzi, piuttosto, l'azione di chi indaga per individuare le ricchezze dei clan. S'introducano norme che facilitano il riutilizzo sociale dei beni e venga data concreta attuazione alla norma che stabilisce la confisca di beni ai corrotti. E vengano destinate innanzitutto ai familiari delle vittime di mafia e ai testimoni di giustizia i soldi e le risorse finanziarie sottratte alle mafie. Ma non vendiamo quei beni confiscati che rappresentano il segno del riscatto di un'Italia civile, onesta e coraggiosa. Perché quei beni sono davvero tutti "cosa nostra"

don Luigi Ciotti
presidente di Libera e Gruppo Abele


SITO DI RIFERIMENTO :

http://www.libera.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/1780

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mercoledì 18 novembre 2009

H1N1, Quei vaccini sono una truffa



H1N1, la denuncia del ministro polacco
"Quei vaccini sono una truffa"


ROMA - Dalla Polonia un attacco ai paesi più ricchi sulla gestione dell'influenza A/H1N1. Un intervento in parlamento firmato dal ministro della Sanità, che accusa senza mezzi termini i governi, mette in discussione gli accordi con le case farmaceutiche e conclude: "Siamo in grado di distinguere una situazione oggettiva da una truffa".

Le domande sull'efficacia del vaccino, uniti alle polemiche sui ritardi delle consegne, alimentano dubbi e incertezze non solo in Italia. In questo clima ha colpito molto l'intervento di Ewa Kopacz, titolare del ministero della Sanità polacco, che ha denunciato pubblicamente la "truffa" ai danni dei cittadini da parte delle case farmaceutiche che producono i vaccini.

In un discorso in parlamento (pubblicato integralmente sul web dove sta facendo il giro del mondo, tradotto in varie lingue) il ministro pone una serie di dubbi, almeno una ventina, sugli accordi che i "governi di paesi più ricchi del nostro, hanno stipulato con i produttori di vaccini" e su quanto è stato proposto alla Polonia. Qual è, si chiede Kopacz, "il dovere di un ministero della Sanità? Concludere accordi che facciano l'interesse dei cittadini oppure siglare accordi che facciano l'interesse delle case farmaceutiche?".

Da qui parte un attacco preciso. "So che ci sono tre vaccini disponibili oggi sul mercato, realizzati da tre produttori diversi. Ognuno di loro ha una differente quantità di sostanze attive, non è strano che siano trattati tutti alla stessa stregua? Non è dunque ragionevole che il Ministero della Salute e i suoi esperti nutrano alcuni dubbi in proposito? E' possibile che uno di questi, magari quello con una quantità inferiore di sostanze attive, sia solo acqua fresca, alla quale attribuiamo il potere di curare l'influenza?".

Il ministro cita quindi l'esempio della Germania che "ha acquistato 50 milioni di dosi, di cui solo il 10% è stato finora utilizzato" contrariamente a quanto accade normalmente "perché i tedeschi hanno una percentuale di cittadini che si vaccinano molto alta, cioè se in Polonia si vaccinano 52 persone ogni 1000 abitanti, in Germania lo fanno in 238, ovvero il 23%". Quindi si chiede: "il loro governo ha comprato il vaccino, lo ha reso disponibile gratuitamente e loro non lo vogliono? Cos'è successo?".

Quindi passa alle controindicazioni. "Ci sono siti web nei quali i produttori di vaccini sono obbligati a pubblicare gli effetti collaterali della vaccinazione. Le vaccinazioni in Europa sono iniziate il primo di ottobre 2009. Vi invito a visitare uno qualsiasi di questi siti web" prosegue, "non esiste un solo effetto collaterale: hanno inventato il farmaco perfetto. E, visto che il farmaco è così miracoloso, come mai le società che lo producono non vogliono introdurlo nel mercato libero e assumersene la completa responsabilità?".

Ewa Kovacz insiste sulla questione. "Non abbiamo risultati di test clinici, nessun elenco di ingredienti e nessuna informazione sugli effetti collaterali. I vaccini sono arrivati al quarto stadio di controllo, controlli molto brevi a dire il vero, e ancora non abbiamo queste informazioni. Inoltre, il controllo sulle persone è stato molto ridotto". Dopo aver elencato i dubbi, il ministro ribadisce il suo ruolo: "Io voglio essere molto sicura nel raccomandare questo vaccino. E' una nostra competenza: durante la fase di negoziazione dobbiamo prenderci il tempo che ci serve e utilizzarlo per scoprire quanto più possibile su questo farmaco. Poi, se la commissione sulla pandemia accetterà il vaccino, allora e solo allora lo compreremo".

Infine il confronto con l'influenza stagionale. "Ci sono 1 miliardo di persone con l'influenza stagionale ogni anno in tutto il mondo. Un milione di persone muoiono ogni anno, sempre per l'influenza stagionale, su scala mondiale. Non sono statistiche di un anno o due, ma dati raccolti in anni e anni di osservazioni. E' mai stata annunciata una pandemia a causa dell'influenza stagionale?".

Tra l'altro, l'influenza stagionale è molto più pericolosa di quella suina, ricorda Kovacz. "A quelli che mi spingono a comprare il vaccino voglio chiedere: come mai non avete gridato e sbraitato l'anno scorso, due anni fa e nel 2003 quando abbiamo avuto 1 milione e 200mila polacchi con l'influenza stagionale. In quell'occasione, per caso qualcuno in quest'aula ha gridato 'Compriamo il vaccino per tutti'? Non riesco a ricordarmene". Il ministro conclude: "Da ultimo vorrei dire una cosa. Lo Stato polacco è molto saggio, i polacchi sanno distinguere la verità dalle balle con molta precisione. Sono anche in grado di distinguere una situazione oggettiva da una truffa".

E in Italia... Oltre un milione e mezzo le persone colpite dal virus H1N1, quasi 70 i decessi, più di 160mila le persone vaccinate). Gli esperti continuano a tranquillizzare gli italiani sostenendo che la percentuale delle vittime correlate al virus H1N1 è lo 0,0038% dei malati, contro lo 0,2% dei decessi causati dalla normale influenza stagionale. A fronte della campagna vaccinale in corso, l'Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha reso noto che sono 190 le sospette reazioni avverse al vaccino (l'elenco e i dati pubblicati sul sito dell'agenzia), ma si tratta di reazioni prevedibili (ad esempio si segnala la comparsa di cefalea, febbre, dolori articolari) e, rassicura l'Aifa, "allo stato attuale non sono stati evidenziati segnali di pericolo con la somministrazione del vaccino pandemico".




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Frecce Tricolori negli Emirati



Tour promozionale delle Frecce Tricolori negli Emirati

Antonio Mazzeo

La pattuglia acrobatica dell'Aeronautica militare si esibisce a Dubai, per sostenere i contratti dell'industria bellica italiana e battezzare il trattato di cooperazione militare con gli Emirati arabi uniti, sbloccato da Franco Frattini e Ignazio La Russa.

Show a Dubai delle Frecce Tricolori, la pattuglia acrobatica dell’Aeronautica militare italiana. Dal 15 al 19 novembre si esibiranno negli Emirati Arabi Uniti «con il duplice obiettivo di rappresentare l’eccellenza italiana ed aiutare l’industria nazionale ad affermarsi in nuovi mercati», così come spiegano al Comando delle forze aeree di Roma. Una trasferta in Medio Oriente che arriva contemporaneamente alla ratifica parlamentare del trattato di cooperazione militare che estende agli emirati status e privilegi riconosciuti solo ai partner storici dell’Alleanza Atlantica.
L’accordo che snellisce e accelera le procedure di trasferimento armi da parte delle aziende pubbliche e private, fu sottoscritto il 13 dicembre 2003 dall’allora ministro della difesa Antonio Martino e dal principe ereditario di Dubai e ministro della difesa degli E.A.U., sceicco Mohamed Bin Rashid Al Maktoum. Per la ratifica si è dovuto attendere però quasi sei anni. Il merito di averlo fatto uscire dal limbo va sicuramente a Franco Frattini e ad Ignazio La Russa. Il 13 marzo 2009, furono proprio loro a presentare la proposta di legge di ratifica e a mettere in moto l’iter parlamentare per una sua rapida approvazione bipartisan. Gli emiri arabi avevano più volte lamentato l’ingiustificato ritardo italiano nel porre il suo sigillo al trattato di mutua cooperazione militare. Ciò ha determinato il pressing a tutto campo dei general manager delle industrie belliche nazionali preoccupate di lasciarsi sfuggire il migliore dei mercati a livello mondiale.
A sbloccare l’impasse, la decisione degli E.A.U. di acquistare da Alenia Aermacchi [gruppo Finmeccanica], 48 aerei bimotori «M-346», 20 dei quali per l’addestramento dei piloti di cacciabombardieri, 8 per la pattuglia acrobatica nazionale e 20 in versione da combattimento per attacchi al suolo con bombe e missili aria-terra o antinave. Una commessa da due miliardi di dollari che ha richiesto faticosissime e costosissime trattative, giunte in porto solo il 25 febbraio 2009 in occasione del salone internazionale della difesa IDEX ad Abu Dhabi. Alla grande fiera dei mercanti di morte, l’Italia aveva inviato una delegazione ufficiale di massimo livello: oltre ai dirigenti di Finmeccanica e delle aziende controllate, il sottosegretario alla difesa Guido Crosetto e il Capo di Stato maggiore delle forze armate, generale Vincenzo Camporini. La Marina ordinò pure il trasferimento ad Abu Dhabi del pattugliatore navale «Bettica», impegnato nelle acque del Golfo di Aden nella campagna internazionale anti-pirati. La volontà italiana di formalizzare il nuovo corso delle relazioni con gli Emirati Arabi veniva espresso in due incontri con le maggiori autorità locali, il primo con lo sceicco Kalifa Bin Zayed Al Nayan [presidente della federazione e comandante supremo delle forze armate] e l’altro con il generale Hamad Mohammed Thani Al-Rumaithy, capo di Stato maggiore E.A.U.. Impegno apprezzato e premiato con l’acquisto degli addestratori-cacciabombardieri leggeri.
«Desidero anzitutto ringraziare l’on. Guido Crosetto e il gen. Vincenzo Camporini per la fiducia accordataci ed il sostegno con il quale hanno contribuito al raggiungimento del successo per gli M-346», fu allora il commento del direttore generale di Finmeccanica, Giorgio Zappa. L’amministratore delegato di Alenia Aeronautica, Giovanni Bertolone, ci teneva invece a «sottolineare il ruolo avuto dall’Aeronautica Militare Italiana, a cominciare dalla definizione dei requisiti che hanno guidato il progetto del velivolo militare». Dichiarazioni che confermano inequivocabilmente la portata del flirt che lega indissolubilmente in Italia governo, forze armate e mercanti d’armi. Se c’era poi qualcuno nella Lega Nord che guardava con sospetto al trattato militare con emiri e sceicchi arabi, si è fatto da parte quando è stato raggiunto un accordo tra il sottosegretario allo sviluppo economico, Adolfo Urso, e il ministro dell’economia degli Emirati Arabii, Sultan Bin Saeed Al Monsouri, per un piano di sviluppo dei collegamenti con l’Italia delle compagnie aeree di bandiere degli Emirati che prevede il raddoppio degli scali principalmente a Milano Malpensa e Venezia.
Con la messa in moto dell’iter di approvazione del trattato, si sono moltiplicati d’incanto gli ordinativi di armamenti «made in Italy». Agusta Westland ha firmato un contratto di circa 26 milioni di dollari per la vendita alle forze aeree E.A.U. di due elicotteri bimotore AW139. Piaggio Aero Industries ha ricevuto un ordine per due aerei da trasporto «P180 Avanti II», mentre il gruppo Fincantieri è stato incaricato dalla Marina militare emiratina della costruzione di una corvetta, la cui consegna è prevista per il 2011. L’unità, pressoché simile a quelle della classe «Cigala Fulgosi» utilizzate dalla marina italiana, sarà lunga 88 metri, larga 12 e avrà un dislocamento a pieno carico di 1.650 tonnellate. Il contratto prevede pure la fornitura di supporto logistico ed addestramento all’equipaggio, mentre la Marina araba si è riservata l’opzione per una seconda corvetta. Il sistema di comando, controllo, sorveglianza radar e combattimento dell’unità navale sarà fornito da Selex Sistemi Integrati, altra società del gruppo Finmeccanica. Oto Melara fornirà a sua volta i sistemi di puntamento «Marlin Weapon Stations» da 30 mm e un cannone da 76/62 «Super Rapido» in versione Stealth. Wass, altra partecipata di Finmeccanica, realizzerà in collaborazione con Thales Underwater Systems il sistema ASW della corvetta per la lotta anti-sottomarina.
Ancora Selex Sistemi Integrati sarà impegnata nella realizzazione del sistema di combattimento delle sei corvette lanciamissili della classe «Baynunah» e dei ventiquattro pattugliatori veloci «Ghannatha» acquistati dalla Marina militare E.A.U.. Il programma «Ghannatha» comprende anche l’acquisizione dei missili antinave «Marte Mk. 2N», prodotti dalla società missilistica europea «MBDA», di cui Finmeccanica controlla il 25% del pacchetto azionario. Selex punta principalmente agli Emirati per commercializzare poi i nuovi radar navali e terrestri della famiglia «Lyra», la cui produzione sta per essere avviata negli Stati Uniti d’America congiuntamente a DRS Technologies. Nei piani dell’azienda la possibilità di fare assemblare i radar da parte della «Abu Dhabi Systems Integration [ADSI]», la joint venture creata negli emirati da Selex-Finmeccanica e dal gruppo cantieristico Abu Dhabi Ship Building [ADSB].
Le forze armate d’Italia ed Emirati Arabi non hanno certo atteso la ratifica del trattato di cooperazione per realizzare insieme complesse esercitazioni militari. Lo scorso mese d’agosto, ad esempio, i cacciabombardieri AMX del 51° Stormo di Istrana e dal 32° Stormo di Amendola hanno simulato combattimenti aerei ed eseguito veri e propri bombardamenti nei vasti poligoni desertici prossimi alla base statunitense di Nellis, Las Vegas, congiuntamente ai cacciabombardieri dell’US Air Force e ai velivoli F-16 Block 60 recentemente acquistati dagli E.A.U.. Dopo un mese di esercitazioni gli AMX sono stati trasferiti in Afghanistan per sostituire i Tornado nelle operazioni di guerra NATO.
Numerosi pure gli scambi e le missioni di alti ufficiali dei due paesi. Tra essi, in particolare, la visita al Comando dell’Aeronautica militare di Roma e al Centro sperimentale volo di Pratica di Mare di una delegazione dell’United Arab Emirates Air Force guidata dal suo Capo di Stato maggiore, generale Al Qamzi [novembre 2008]; la visita del generale Abdallah Said Jarwan Alshamsi, vicecomandante del Collegio aeronautico emiratino all’Accademia di Pozzuoli [aprile 2009]; l’incontro a Roma tra i due rispettivi Capi di Stato Maggiore, generali Camporini e Thani Al-Rumaithy [ottobre 2009]. Sempre il mese scorso il Comando scuole dell’Aeronautica militare – 3a Regione Aerea di Bari ha ospitato una delegazione della difesa aerea E.A.U. guidata dal colonnello Amid Obeid Hamid Al Mansouri. Scopo della visita, secondo il comunicato emesso dall’AMI, «l’acquisizione di conoscenze in merito ai programmi addestrativi degli istituti di formazione e scuole di volo dell’Aeronautica Militare». «In particolare – si legge nella nota – sono stati approfonditi i temi della standardizzazione volo e dell’evoluzione dei syllabus di addestramento per gli obiettivi formativi dei piloti militari di nuova generazione».
Non è difficile capire cosa si nasconda dietro questa contorsione linguistica. Con il contratto da 220 milioni di euro firmato il 10 novembre 2009 dalla Direzione generale degli armamenti aeronautici ed Alenia Aermacchi, anche l’Aeronautica italiana si doterà degli addestratori-cacciabombardieri M-346. Oltre a fornire i velivoli, la società di Finmeccanica realizzerà tutta una serie d’infrastrutture di supporto logistico nella base aerea del 61° Stormo di Galatina, Lecce, in vista della sua trasformazione entro il 2015 in «Scuola di volo europea» per le esigenze di addestramento avanzato NATO, aperta ovviamente ai partner extraeuropei come ad esempio gli Emirati Arabi o la Malesia, paesi che hanno acquistato i nuovi velivoli prodotti da Alenia Aermacchi. Nello specifico si prevede la costruzione a Galatina di «dieci hangarette per ricovero e manutenzione dei velivoli, una palazzina per gli specialisti della linea volo, un centro addestramento di 2.700 mq per il Ground Based Training System, aule didattiche per vari tipi di addestramento informatizzato, sale briefing e riunioni, ecc.». Con la ratifica del trattato militare Italia-E.A.U. si aprono pure concrete prospettive per il potenziamento infrastrutturale della base aerea di Al Bateen, utilizzata dalla task force dell’Aeronautica italiana a supporto delle operazioni di trasporto e rischieramento in Afghanistan e delle missioni NATO in Afghanistan ed in Iraq.



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lunedì 16 novembre 2009

ADESSO BASTA



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COMUNICATO STAMPA



“Adesso basta!”, Rifondazione aderisce al presidio di domani al Palazzo di Giustizia contro le leggi pro-Berlusconi. Patta (PRC): “Il 5 dicembre tutti a Roma per il No Berlusconi Day”



Milano, 16 novembre 2009. Rifondazione Comunista aderisce al presidio “Adesso basta!” organizzato per domani, martedì 17 novembre alle ore 17,30 presso il Palazzo di Giustizia di Milano, in Corso di Porta Vittoria, da un movimento che raggruppa diversi esponenti del mondo della politica milanese e lombarda per protestare contro le leggi “pro-Berlusconi” e in solidarietà coi magistrati.



“E’ ora di dire basta al nuovo tentativo di Pdl e Lega Nord di far approvare l’ennesima legge che mira solo ed unicamente a sottrarre Berlusconi ai processi nei quali è imputato. – dichiara Antonello Patta, Segretario provinciale di Rifondazione Comunista – Sono quindici anni ormai che il Paese sta subendo l’oltraggio di una produzione senza fine di leggi ad personam che garantiscono al Premier la totale immunità e impunità offendendo la più elementare idea di giustizia e ponendolo al di sopra di tutti gli altri cittadini.

Rifondazione Comunista aderisce con convinzione al presidio di domani pomeriggio contro le leggi salva-Berlusconi ed esprime solidarietà ai magistrati.

Anche e soprattutto di fronte allo scandalo della legge “salva-processi”, Rifondazione Comunista invita tutti i cittadini a partecipare al “No Berlusconi Day” del prossimo 5 dicembre a Roma, una manifestazione contro la politica del Governo e per le chiedere le dimissioni del Premier alla luce della sua manifesta indegnità morale a ricoprire l'incarico di Presidente del Consiglio.

SITO DI RIFERIMENTO

http://www.adessobasta.it/


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Obama in Cina e la crescita post-crisi


Obama in Cina e la crescita post-crisi

Raffaele Sciortino

La missione orientale del presidente statunitense indica il rapporto stretto tra l'economia statunitense e quella cinese. Soprattuto, ci aiuta a capire i nuovi equilibri della produzione globale dopo la grande crisi dello scorso autunno. Si tratta di assetti instabili e precari che legano a doppio filo la Cina e il pianeta intero.

Mentre a Berlino si notava la sua assenza, Obama stava probabilmente preparando con lo staff il suo viaggio in Asia Orientale che ha avuto inizio questa settimana. Nulla di più simbolico. La «centralità» del teatro europeo dominato dal bipolarismo – un dispositivo quasi perfetto di blocco del cambiamento sociale che alla fine è comunque saltato – è finita per sempre. La caduta del Muro ha sancito e aperto alla riunificazione del mercato mondiale, via globalizzazione neoliberista, ma il suo asse si è spostato altrove.
La crisi globale non ha fatto che confermare questo trend. Agli occhi delle élites asiatiche, e non solo delle élites, il prestigio dell’Occidente e degli Stati Uniti in particolare si è in parte volatilizzato. Vedremo inchini e sorrisi diplomatici, nel trip asiatico del nuovo presidente, ma nessun segno della facile Obamamania che ha buon corso – ma per quanto ancora? – qui da noi. Quello che si è aperto infatti, e per ora resta sotto la superficie, è uno scontro o, se vogliamo, una competizione sul «pattern di crescita» che dovrebbe sostituire il corso rivelatosi con la crisi insostenibile.
I consiglieri del Presidente sono stati limpidi nelle dichiarazioni pre-viaggio. James Steinberg, vicesegretario di Hillary Clinton e responsabile per la China Policy di Washington, in un intervento al Center for American Progress [pensatoio obamiano] ha affermato che la crescita globale post-crisi dovrà essere «equilibrata» [balanced], rigettando implicitamente sulla Cina le responsabilità per i global imbalances – il deficit commerciale e l’indebitamento statunitensi – che stanno dietro la crisi. Jeffrey Bader, responsabile del National Security Council per l’Asia Oreintale, è stato più esplicito in un discorso al Brookings Institute [think tank dei «falchi» democratici]: «la Cina ha raggiunto la prosperità eceonomica grazie al consumatore americano… non è un modello sostenibile». I colloqui a Pechino toccheranno allora il tema della moneta cinese, che per Washington è sottovalutata a scapito delle esportazioni Usa, e della necessità di ribilanciare la crescita, cinese e asiatica, sulla domanda interna e su di una maggiore apertura di quelle economie. E qualche avvertimento da parte della nuova amministrazione c’è già stato con l’aumento delle tariffe su pneumatici e tubi di acciaio cinesi. In realtà, agli occhi della classe globale che ha la sua centrale a Wall Street, il problema non è certo il flusso di import-export, reso inestricabile dalla internazionalizzazione delle catene produttive e distributive, bensì la presa sui flussi globali di valore.
Ma anche ai dirigenti di Pechino non mancano motivi di preoccupazione e scontento, principalmente verso il modo in cui Washington sta affrontando la crisi: evitando la pulizia a fondo dei bilanci delle banche e delle istituzioni finanziarie, ampliando enormemente il debito pubblico, sfuggendo al «rigore fiscale» inevitabile, facendo della tanto promessa regolazione dei mercati finanziari – come riconosce il New York Times – una mezza farsa. Insomma, la politica statunitense è capace solo di mettere una toppa al disastro della finanziarizzazione; in più gioca ora sulla caduta del dollaro stampando moneta, segnale inequivoco della tentazione di liberarsi dell’enorme debito accumulato inflazionando l’economia globale con dollari svalutati. Come a fine anni ottanta, quando a farne le spese fu il Giappone su cui venne scaricata la bolla speculativa di quel decennio. Come, in altre circostanze, nel ‘71 con lo sganciamento dollaro-oro che sancì la fine di Bretton Woods I [ma allora Mao, con una delle sue geniali manovre «tattiche», venne in soccorso dell’amministrazione Nixon, impantanata nella sconfitta in Vietnam e nel caos monetario, con il rapprochement sino-americano].
E ciò nonostante Pechino e Washington sono costrette a cooperare, sul breve e medio periodo. Washington, perché i rapporti di forza sono mutati e non può facilmente e impunemente scaricare su altri gli effetti della crisi, perché ha bisogno del credito cinese e asiatico per finanziare l’enorme debito e indirettamente le misure antirecessive, e perché solo grazie all’enorme pacchetto cinese di stimolo ha evitato per ora il double dip, la doppia caduta dell’economia. Solo a queste condizioni l’élite globale può, forse, prender tempo. Pechino, perché si trova legata a doppio filo con il mercato statunitense, perché è caduta nella «trappola del dollaro» avendone accumulato riserve ingenti [2,2 trilioni] anche per non far decollare il renminbi, e soprattutto perché non dispone a breve né a medio termine di un effettivo modello sostituivo di quello orientato sulle esportazioni e sui surplus delle partite correnti.
E’ vero che nel frattempo la Cina non è restata ferma: ha sollevato il problema di una nuova moneta mondiale di riserva e di una ristrutturazione delle istituzioni internazionali, sta diversificando rispetto al dollaro e acquistando a man bassa oro, va facendo shopping nel mondo di materie prime e altre risorse, investe e intesse nuovi legami economici e politici con America Latina, Africa, Russia, oltre che ovviamente nella regione con l’idea di un fondo monetario asiatico [la Chiang Mai Iniziative lanciata nel 2000]. Ma, appunto, la domanda globale è ancora il driver fondamentale della crescita interna e insieme, per la classe dirigente postmaoista, la conditio sine qua non della stabilità sociale [massima preoccupazione della fazione di partito Tuanpai attualmente al governo, di contro alla linea più liberista dei Taizi].
Di qui la necessità di far buon viso a cattivo gioco. Ricontrattare sì con l’amministrazione Obama maggiori spazi di manovra – anche in ambito regionale attraverso l’Asean+3, l’integrazione economica con Taiwan, il possibile nuovo corso col Giappone post elezioni, il che desta comunque preoccupazioni nei circoli statunitensi – ma senza potersi svincolare per ora dall’abbraccio con Washington e dal suo attento controllo. Dalla visuale dell’attuale amministrazione statunitense – ma certo non mancano né mancheranno prese di posizioni più dure – si tratta della linea della strategic reassurance: «un accordo fondamentale anche se tacito… siamo pronti ad accogliere l’arrivo della Cina come potenza, ma la Cina deve rassicurare il resto del mondo che il suo sviluppo e il suo crescente ruolo globale non andranno a spese della sicurezza e della prosperità di altri», nelle parole ancora di James Steinberg. Rassicurare con i comportamenti, ovviamente. Ecco allora il tentativo attuale di coinvolgimento di Pechino su un’agenda globale il cui significato di fondo, da non fraintendere, è spingere la Cina ad assumersi rischi come «attore responsabile» e partecipare così al salvataggio della controparte. Accantonata da parte nordamericana e già rifiutata da parte cinese per il rischio di eccessiva esposizione globale l’impegnativa formula del G2, e indebolitasi la metafora in qualche modo rassicurante di Chimerica, al momento resta la consapevolezza di non poter fare a meno l’uno dell’altro sapendo però che le «frizioni sui problemi di lungo periodo» sono già oggi inevitabili, come osserva il Wall Street JournalJ. Ecco allora che, alla vigilia dell’arrivo di Obama, la Banca del Popolo si dice pronta a un graduale apprezzamento della moneta cinese, il che comunque non risolverà affatto i problemi di fondo della controparte.
Questo instabile assetto globale – si va verso il multipolarismo o verso una fase tendenzialmente a-polare, incerta e disordinata? – vede dunque all’opera un paradosso assolutamente inedito: l’ascesa della Cina e il suo rafforzamento internazionale sono condizionati dalla prosecuzione della cooperazione economica con gli Stati Uniti, tramite al momento inaggirabile dell’inserimento cinese nel mercato mondiale. Con i vantaggi, fin qui indubbi, ma anche i rischi che ciò comporta, resi evidenti da una crisi globale niente affatto conclusa.
Ne è riprova l’attuale passaggio della congiuntura mondiale. Se, come sembra, la caduta ha subito un rallentamento, con qualche timido indice positivo – ancorché economico e non sociale – ciò è dovuto in gran parte al «traino» cinese, indiretto e diretto. Da un lato, il programma di stimoli di Obama è stato reso possibile dalla continuata erogazione di crediti cinesi, che permettono altresì alla Federal Reserve di tenere bassi i tassi di interesse. Dall’altro, l’ingente pacchetto di aiuti all’economia varato da Pechino ha consentito di ovviare in tempi record alla caduta eccezionale delle esportazioni con offerta di moneta e prestiti pubblici per investimenti infrastrutturali, il che sta richiamando flussi di capitale speculativo da tutto il mondo [un po’ come in Brasile]. Una boccata d’ossigeno per l’economia mondiale, dunque, ma per Pechino anche il rischio di un bubble speculativo, con il surriscaldamento dei prezzi degli assets, una caterva di bad loans di difficile solvibilità e, su tutto, il ricordo della crisi asiatica del ‘97 scaturita dall’esposizione eccessiva ai flussi di capitale globali e alle decisioni sui tassi rimaste nella mani di Washington. Di qui, a ottobre, una prima stretta sui prestiti operata dalla banca centrale cinese. Il che solleva le questioni: quanto è sostenibile, e a che costo, questo tipo di ripresa legata esclusivamente a politiche monetarie espansive? Quanto è possibile per la Cina, oggi, crescere senza una domanda globale adeguata? E, al fondo, quanto l’incremento cinese di investimenti per infrastrutture non solo accentua il suo orientamento sulle esportazioni ma aggrava anche quello che, a scala globale, si configura come eccesso di capacità produttive [rispetto non ai bisogni sociali ma alla profittabilità]? Un articolo dell’Economist di questa estate, oggi non più rintracciabile sul sito della rivista ma postato anche nei blog cinesi, recitava: «Non c’è miracolo nella miracolosa crescita cinese, e la Cina pagherà un prezzo, è solo questione di quando e in che misura». Andrebbe forse aggiunto: lo pagherà l’intera economia globale se è vero che gli interventi statali a favore delle banche ammontano a 14 trilioni di dollari facendo quasi urlare a un guru neoliberista come Martin Wolf che qui siamo al «socialismo di stato». Il rischio di bancarotta di intere compagini statali sarà la prossima grande paura della classe globale.
Certo, la crescita cinese anche oggi non è esclusivamente «congiunturale» sulla base delle precarie condizioni viste ma rimanda a robusti trend degli ultimi venti anni. Ciò non toglie che essa resta legata a doppio filo al mercato mondiale e quindi, oggi, alla necessità di una nuova ripresa dell’economia globale. E questo è stato finora possibile grazie al crearsi via via di bolle «speculative» che sono l’altra faccia della finanziarizzazione del capitalismo nella sussunzione reale. Possibile che i dirigenti cinesi non se ne siano fin qui accorti? Possibile che non sapessero che la condizione di possibilità delle esportazioni cinesi era ed è il comando finanziario e monetario di Washington sulla produzione globale? Un meccanismo economico e militare nel quale Obama, oramai ciò si fa evidente, inserirà modifiche assai parziali e quasi solo di facciata rispetto a quello che è il problema: un nuovo equilibrio globale a guida statunitense che riesca, prima o poi, a determinare quale dei vari soggetti deve bruciare la gran parte di capitale «fittizio» [in senso marxiano] necessaria per un vero rilancio del sistema.
A meno che… l’alternativa di un ampliamento del mercato interno non risulti ancora più indigesta alla borghesia cinese e asiatica, comportando un aumento secco dei salari, e della potenza, della massa di produttori fin qui a basso costo. Il che è in controtendenza con tutte le ricette finora abbozzate e non si può dare, quindi, senza lotta di classe e sconvolgimento di tutti gli assetti politici e sociali interni: sarebbe la fine per le «credenziali» acquisite dalla classe dominante cinese agli occhi delle élites occidentali. Sulla contraddizione reale tra la difficoltà di riconversione del modello di crescita della Cina e l’eventuale spinta in questa direzione dovuta alla crisi globale, alle pretese di un partner statunitense sempre più parassitario nonché alle spinte dal basso, si giocherà una partita decisiva. Ma a giocarla non saranno solo i poteri a Washington e a Pechino.




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Liberato il pacifista Turi Vaccaro

Liberato il pacifista Turi Vaccaro dopo il blitz No Dal Molin

Giulio Todescan

Questa mattina c'è stata la prima udienza del processo per direttissima del pacifista Turi Vaccaro, entrato nel cantiere del Dal Molin. Il processo è stato rinviato al 27 novembre.

Arrestato la sera di mercoledì 11 novembre al Dal Molin, portato alla caserma Ederle dai carabinieri della Setaf, e poche ore dopo rinchiuso al carcere di San Pio X. Salvatore «Turi» Vaccaro, pacifista siciliano di 56 anni, è accusato di ingresso abusivo in zona militare con possesso di «strumenti atti allo spionaggio». Questa mattina alle nove c’è stata la prima udienza del processo per direttissima: secondo l’articolo 260 del codice penale rischia da uno a cinque anni di reclusione. Una folta presenza di cittadini ha partecipato all’udienza, nella quale è stato deciso il rinvio del processo al 27 novembre. Ma già ieri cento persone si erano ritrovate sotto le finestre del carcere, portando bandiere No Dal Molin e rametti di ulivo, per chiedere l’immediata scarcerazione di Turi. Il pacifista è stato scarcerat o dopo l’udienza.

La sua colpa? Mercoledì alle 18 era entrato, passando sotto una recinzione, nel cantiere della nuova base americana, portando delle palline di argilla che avvolgevano dei semi di alberi da frutto: la sua «semina di San Martino» era una «protesta nonviolenta contro l’inizio dei lavori di questa nuova base di guerra». Era accompagnato da una donna vicentina, Agnese Priante. Dopo la semina si sono consegnati spontaneamente alle guardie; la donna è stata rilasciata mercoledì sera dalla caserma Ederle. «L’esempio di S.Martino, vescovo che abbandonò la divisa dell’esercito romano, ci è di sprone. Con metà del suo mantello donato al povero ci ricorda che ogni euro speso in armamenti è tolto ai poveri e a tutti i bisognosi» scrive Turi Vaccaro spiegando la scelta del giorno per la sua azione. Turi è un personaggio noto nel movimento pacifista italiano e non solo: è passato spesso a Vicenza, dormendo in una tenda, scalzo anche in inverno. I vicentini hanno imparato ad apprezzare la saggezza di quest’uomo barbuto e silenzioso, già studente di filosofia a Torino e animatore delle lotte pacifiste di tre decenni. Negli anni ottanta partecipò alle manifestazioni contro l’installazione dei missili Cruise a Comiso, nel 2005 si intrufolò in una base a Rotterdam, e con un martello spaccò la plancia comandi di due caccia F-16 dell’esercito Usa, azione che gli costò sei mesi di carcere e 750 mila euro di multa. Era arrivato a Vicenza l’8 novembre dopo tre mesi di cammino solitario, partito da Napoli. Durante la marcia aveva raccolto semi di alberi da frutto, che ha voluto piantare al Dal Molin con il metodo della permacultura. Ora macchinetta fotografica che si portava dietro rischia di essere considerata addirittura uno strumento di «spionaggio».
Turi era stato ospite mercoledì all’assemblea settimanale al Presidio. In quell’occasione aveva detto: «Domani entro al Dal Molin». In pochi gli avevano creduto, ma Turi è andato avanti, e il suo gesto di folle semplicità ha dato forza a molti. «Questo dimostra – dice Cinzia Bottene, consigliere comunale di Vicenza Libera – che i cittadini continuano ad assumersi la responsabilità di agire, anche attraverso azioni come questa, per difendere la città da questo scempio. Altri hanno preferito adeguarsi al realismo della politica anziché continuare a stare a fianco dei propri concittadini». La solidarietà questa volta unisce tutto il movimento: «Ha attraversato l’Italia, è arrivato a Vicenza. Ha attraversato la recinzione ed è entrato nel cantiere ‘militare’ dove si sta costruendo la base militare. Fatti concreti e poche parole – dice Germano Raniero delle Rdb Cub -. Turi sapeva che rischiava ma lo ha fatto lo stesso. Tutti siamo in debito con Turi e Agnese». La Casa per la Pace solidarizza con Turi «sottolineando il carattere del tutto nonviolento della sua azione». Il Tavolo per la consultazione ne chiede l’immediato rilascio: «Sconcerta che per un’azione compiuta in territorio italiano dei dimostranti vengano trattenuti in una base militare Usa. Riteniamo che tale misura sia sproporzionata rispetto al gesto compiuto».


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sabato 14 novembre 2009

Arrestato a Vicenza Turi Vaccaro

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Arrestato a Vicenza Turi Vaccaro- Pellegrino di Pace: piantava semi di pace nella terra della guerra
wallace
12/11/2009

Fermiamo il Fuoco Atomico solidarizza con l'attivista nonviolento dei "Ploughshares"

Turi Vaccaro, il "pellegrino di pace", dovremmo conoscerlo tutti perché nel 2005 è stato protagonista in Olanda di una storica azione pacifista: penetrato nell'officina di riparazione di Woensdrecht, ex Base NATO, aveva reso inservibili 2 aerei da combattimento F16 distruggendone i comandi a martellate.

Dopo aver concluso l'8 novembre il Cammino di Nonviolenza Napoli-Vicenza (1.900 km a piedi iniziati il 6 agosto scorso dalla città partenopea, con tappe di 20-30 km al giorno) partecipatondo alla Marcia per la Pace e la nonviolenza di Domenica, nei giornisuccessivi aveva interrogato a lungo i suoi sogni e aveva a lungo meditato per capire quale poteva essere il suo contributo personale - oggi - all'affermazione della nonviolenza.
Non sopportava l'idea che ci fosse un'altra base militare e voleva ribadire la priorità degli usi civili del territorio da consegnare alla piena responsabilità della gente comune.
L'estate di S. Martino (11 novembre) gli era sembrata simbolicamente favorevole alla sua semina e anche il Santo, patrono dei pellegrini.
Ieri pomeriggio - 11 novembre - è penetrato nella parte militare del Dal Molin insieme ad Agnese Priante del gruppo donne del Presidio Permanente.
Aveva con se un disegno solare che le aveva affidato Alice delle Piagge (Firenze) dove era passato di recente percorrendo il suo itinerario, cui Fermiamo il Fuoco Atomico ha fatto da supporto politico e logistico.

Diceva che lo aveva ricevuto proprio per favorire questa azione.
Aveva preparato i semi secondo il sistema dell' agricoltura biologica di Fukuoka. (Inserimento dei semi in palline di argilla- la stessa del Dal Molin).
Li ha seminati insieme alla sua accompagnatrice. Poi sono stati fermati dai carabinieri della SETAF.
Ora Turi è nel carcere di S.Pio X di Vicenza. L'accompagnatrice è stata rilasciata.
Turi sarà processato domani - 13 novembre - per direttissima dal Tribunale di Vicenza.

La Casa per la Pace, il Tavolo della Consultazione e il Comitato vicentino della Marcia Mondiale hanno solidarizzato con Turi sottolineando il carattere del tutto nonviolento della sua azione per la quale personalmente era disposto fin dall'inizio a pagare il prezzo eventuale di una incarcerazione.

Per quanto ci riguarda, sottolineamo come le pratiche di azione diretta rappresentino un invito simbolico a non mollare, a non rassegnarsi, a non accettare "compensazioni", ma a proseguire con la non collaborazione attiva - individuale e di massa - nei riguardi delle strutture dell'ingiustizia e della violenza organizzata, quali le basi militari di supporto ad un modello offensivo, nuclearizzato e guerrafondaio, nel contesto della NATO.

Aspettiamo e sollecitiamo l'immediato rilascio di Turi sicuri della sua disponibilità ad organizzare con noi l'attività di "Nukewatch" intorno alle ex centrali nucleari italiane che ospitano le scorie radioattive: dobbiamo monitorare ed ostacolare i pericolosi movimenti di trasporto su treni notturni (uno alla settimana) verso Sellafield - in Gran Bretagna - e ritorno, dove le suddette scorie, dopo il ritrattamento, vengono depositate temporamente accanto agli impianti. (Latina, Trino, eccetera, verranno riattivate con tecnologia EPR in seguito agli accordi Berlusconi-Sarkozy sul rilancio dell'atomo sedicente "di pace").

Milano 12 novembre 2009

Info e adesioni: Coordinamento FERMIAMO CHI SCHERZA COL FUOCO ATOMICO c/o Campagna OSM/DPN, via M. Pichi, 1 - 20143 Milano - tel. 02/58101226 http://www.osmdpn.it/
Alfonso Navarra - cell. 349-5211837

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venerdì 13 novembre 2009

Libertà e Giustizia scende in piazza

LINK:
http://www.libertaegiustizia.it/primopiano/pp_leggi_articolo.php?id=3050&id_titoli_primo_piano=6

Giustizia, torniamo in piazza
per informare


Libertà e Giustizia scende in piazza per dare ai cittadini un'informazione corretta e completa sull'ennesima legge ad personam che il Parlamento si appresta a varare sul cosiddetto processo breve. La formula è quella già sperimentata dei Cantoni animati, con distribuzione e lettura di volantini che spiegano i temi della giustizia, dell'immunità parlamentare. L'intento è quello di chiarire come al di là degli slogan pubblicitari si celino in realtà gravi vulnus al sistema della giustizia uguale per tutti e la volontà di dare un colpo decisivo all'autonomia della magistratura.
Le piazze di LeG si stanno mobilitando, in attesa dei permessi; l'obiettivo è quello di fare di sabato 28 novembre una giornata di mobilitazione sulla giustizia.
A Roma, l'appuntamento è per sabato 28, dalle 15 e 30 alle 19 e 30, in largo Argentina (lato Feltrinelli). Nel frattempo, i soci e gli amici di LeG parteciperanno a tutte le manifestazioni organizzate via via anche da altre associazioni davanti ai tribunali e nelle piazze italiane.


Processo breve, svelato il Ddl
Prescrizione dopo due anni


Anm: effetti devastanti // I 5 No di LeG // La maggioranza presenta al Senato l’atteso disegno di legge sul "processo breve". Il provvedimento, "Misure per la tutela del cittadino contro la durata indeterminata dei processi, in attuazione dell’articolo 111 della Costituzione e dell’articolo 6 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo", reca tra le altre le firme dei capigruppo e del vicecapogruppo del Pdl Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello e del presidente dei senatori leghisti Federico Bricolo. Prevede, tra l'altro, la prescrizione dei processi in corso in primo grado per i reati "inferiori nel massimo ai dieci anni di reclusione" se sono trascorsi più di due anni a partire dalla richiesta di rinvio a giudizio del pubblico ministero senza che sia stata emessa la sentenza. Il provvedimento entra in vigore il giorno dopo alla pubblicazione in Gazzetta ufficiale.

L’iniziativa, spiega Gasparri, rientra nel "decalogo sulla giustizia" che il centrodestra sta portando avanti nel corso della legislatura, che comprende fra le altre cose «nuove norme antimafia, riforma del processo civile, riforma della professione forense, intercettazioni e riforma costituzionale della giustizia».

L'articolo 2 del ddl prevede l'estinzione del processo penale per violazione dei termini di ragionevole durata fissati in due anni per il primo grado, due anni per l'appello e due anni per la Cassazione. L'estinzione dei processi con pene inferiori nel massimo a 10 anni (ma con una serie di 'paletti' ed i esclusioni) varrà in linea generale per il futuro, mentre entrerà subito in vigore per quelli in corso limitatamente al primo grado. La 'tagliola' della prescrizione, così formulata, scatterà dunque anche per i processi Mills e Mediaset in cui è imputato il premier Silvio Berlusconi. Il processo 'breve' vale però solo per gli incensurati, quindi sono esclusi chi è stato già precedentemente condannato, "anche se è intervenuta la riabilitazione", e chi è stato dichiarato "delinquente o contravventore abituale o professionale". Le nuove norme, inoltre, non si applicano ai reati di terrorismo, mafia o di grave allarme sociale (reati previsti dagli articoli 51, commi 3 bis e 3 quater, e 407, comma 2 lettera a del codice di procedura penale). Ma l'elenco delle esclusioni non finisce qui e si allunga anche ai processi relativi a delitti "consumati o tentati" di incendio, pedopornografia, sequestro di persona, atti persecutori, furto (quando ricorrano le circostanze aggravanti), furto in appartamento o scippo, delitti commessi violando le norme sulla prevenzione degli infortuni, igiene sul lavoro, circolazione stradale, immigrazione clandestina, traffico illecito di rifiuti. L'imputato può anche non avvalersi dell'estinzione del processo penale, ma in caso ciò avvenga la parte civile che si era costituita trasferirà la propria azione in sede civile con precedenza di trattazione del procedimento.

Furente la reazione di Anna Finocchiaro, capogruppo dei senatori Pd: dopo le interviste di rito con i giornalisti, ha letteralmente sbattuto il testo del disegno di legge contro il muro della sala stampa. «Il ddl non si applicherà per il furto aggravato - ha detto - così per il rom che ruba il processo rimarrà, mentre processi come Eternit, Thyssen, Cirio e Parmalat andranno al macero».
Critico anche Bersani, secondo il quale la legge sul processo breve, che dovrà fare da «scudo» a Berlusconi, «rischia» di essere incostituzionale. Se la maggioranza tenterà una forzatura in Parlamento sarà inevitabile uno «scontro».
Mentre Antonio Di Pietro annuncia che l'Italia dei valori è pronta a chiedere il referendum contro la legge sul processo breve targata Pdl. "Il 5 dicembre con la manifestazione a piazza Navona annunceremo l'impegno a raccogliere le firme per un referendum contro una legge incostituzionale, immorale e contro gli interessi degli italiani. - dice Di Pietro - La legge proposta dice che dopo 2 anni il processo non si deve fare più. Per questo migliaia di processi, tra cui quelli sui maggiori scandali italiani da Parmalat ai bond argentini, andranno tutti estinti: è la più grande amnistia mascherata della storia".


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Palermo e provincia sommerse dai rifiuti



Palermo e provincia sommerse dai rifiuti

Cassonetti stracolmi e cumuli di rifiuti per strada dati alle fiamme: è ormai l’ordinaria amministrazione a Palermo e provincia. Stamattina i sindaci e gli amministratori di 65 comuni sono scesi in piazza nel capoluogo siciliano. In testa il sindaco di Bagheria, dove in queste ore si registra la situazione più grave e dove, per motivi igienico-sanitari, da ieri sono chiuse paese le scuole. Per lunedì, i comuni si preparano alla serrata degli uffici pubblici.

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giovedì 12 novembre 2009

«Prescrizione breve» per tutti?

«Prescrizione breve» per tutti, ma non per i migranti

E’ arrivato in senato il disegno di legge sul cosiddetto «processo breve», primi firmatari il capigruppo e il vicecapogruppo del Pdl, Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello, e il presidente dei senatori leghisti Federico Bricolo. Fra i punti, la prescrizione se il processo dura più di due anni dalla richiesta di rinvio a giudizio [per i reati con massimo dieci anni di reclusione]. Questa norma, però, non si applica agli stranieri, come chiesto dalla Lega: «non si estinguono i reati previsti nel testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina della immigrazione e norme sulle condizioni dello straniero». Dura la reazione di Anna Finocchiaro, presidente dei senatori Pd: saranno chiusi migliaia di processi, non ultimi quelli Eternit, Thyssen, Cirio e Parmalat, mentre si procederà per furto aggravato contro un Rom. E’ un’amnistia mascherata, dice ancora l’opposizione.

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mercoledì 11 novembre 2009

Nuova base Usa a Panama

Dopo la Colombia, nuova base Usa a Panama

Antonio Mazzeo

Continua l'espansione delle forze armate statunitensi in America latina. Dopo l'accordo con la Colombia per sette nuove basi militari, il Pentagono piazza le sue bandierine anche a Panama. Per controllare il Canale, che dovrà essere allargato nei prossimi anni, e la regione circostante.

Procede senza sosta la controffensiva del Dipartimento della difesa degli Stati uniti in America latina. Dopo aver firmato un accordo con il governo colombiano per l’utilizzo di sette basi aeree, Washington ha ottenuto dalle autorità panamensi l’autorizzazione a reinstallare proprie unità militari in quattro stazioni navali di fondamentale importanza per il controllo del Canale di Panama e dei Carabi. Lo ha denunciato il diplomatico Julio Yao, presidente del Servicio de Paz y Justicia, durante il discorso ufficiale pronunciato il 3 novembre scorso in occasione dell’annuale festa di commemorazione del «padre dell’indipendenza» panamense, Manuel Amador Guerrero. Alla presenza del presidente Ricardo Martinelli e delle maggiori autorità civili e militari del paese, Julio Yao ha lanciato parole durissime nei confronti del governo, stigmatizzando la decisione che «viola apertamente la sovranità nazionale». «Le basi aereonavali e della polizia panamensi messe segretamente a disposizione degli Stati Uniti per lanciare possibili operazioni in tutta la regione – ha dichiarato il diplomatico – accentuano la militarizzazione di un ampio spazio territoriale e sono una franca cospirazione contro la pacifica convivenza tra i popoli e la soluzione pacifica dei conflitti».
La cessione di infrastrutture militari alle forze armate statunitensi era trapelata già a fine settembre, dopo la visita a Panama della Segretaria di stato, Hillary Clinton. Allora, il ministro alla giustizia panamense, Jose Raúl Mulino, aveva però ammesso solo la firma di un accordo di cooperazione bilaterale per rafforzare la presenza delle forze di sicurezza panamensi in due basi navali, a Bahía de Piña nella provincia del Darién, al confine con la Colombia, e a Punta Coca [Veraguas], nella parte sud-occidentale del paese. «Si tratterà esclusivamente di stazioni interforze panamensi, a disposizione dei Servizi di frontiera e aeronavali e della Polizia nazionale, per rispondere all’esigenza di maggiori controlli delle coste panamensi contro il traffico di stupefacenti», dichiarava alla stampa locale il rappresentante dell’esecutivo. Un mese dopo le basi militari sono divenute quattro e il loro uso è stato concesso alle forze armate statunitensi. «Si sono pure moltiplicate le finalità di queste installazioni militari», commenta Marco Gandásegui, docente dell’Università di Panama e ricercatore del Centro di Studi Latinoamericani [Cela] Justo Arosemena. «Accanto alla ‘lotta al traffico di droga’, compare il riferimento all’obiettivo di ‘frenare il traffico di persone illegali’ e il ‘terrorismo’, eufemismo che i funzionari nordamericani possono interpretare come vogliono».
Oltre alle due basi navali di Bahía de Piña e Punta Coca, le forze armate statunitensi potranno contare sull’utilizzo di un’infrastruttura aeronavale che sorge nell’isola di Chapera, nell’arcipelago de Las Perlas, e della base di Rambala, nella provincia di Bocas del Toro.
Con l’accordo sottoscritto con il governo panamense, le forze armate statunitensi tornano ad assumere il controllo di Panama, dieci anni dopo aver abbandonato le 14 basi e stazioni radar che detenevano nel paese dal tempo della «indipendenza» di Panama dalla Colombia, pilotata da Washington all’inizio del XX secolo in funzione del progetto del Canale interoceanico. L’articolo V del Trattato di Neutralità firmato nel 1977 dagli allora presidenti Omar Torrijos [Panama] e Jimmy Carter [Usa] aveva stabilito che Panama avrebbe riacquisito il pieno controllo del Canale a partire dell’1 gennaio 2000 e che solo le autorità di questo paese avrebbero potuto mantenere forze e installazioni militari di difesa all’interno del territorio nazionale. Nel 2002, però, un accordo tra il governo di Panama e l’ambasciatore James Baker, aveva disposto che i porti e gli aeroporti del paese centroamericano potessero essere utilizzati dalle forze armate statunitensi per esercitazioni militari o trasferimenti transitori di truppe e armamenti.
«Un accordo senza alcun fondamento costituzionale che consente pure agli Stati Uniti d’America d’invitare paesi terzi a fare ingresso nel nostro territorio con il proposito di cooperare nella guerra contro il terrorismo, il narcotraffico e altri delitti internazionali», spiega il diplomatico Julio Yao. «Secondo questo accordo, Panama è pure costretta a non poter esercitare alcuna giurisdizione sui funzionari civili e militari Usa eventualmente accusati di crimini di guerra, né può sottometterli a giudizio del Tribunale penale internazionale». Una clausola di impunità che gli Usa, che non hanno ratificato il trattato del Tpi, hanno stabilito con molti paesi.
Nell’ultimo triennio, la presenza di unità navali Usa si è fatta sempre più frequente nelle acque territoriali e nei porti panamensi, in particolare quello di Vasco Nuñez de Balboa, all’interno del Canale, confinante con una [ex] stazione di trasmissione dell’Us Navy utilizzata per le comunicazioni con i sottomarini in transito negli oceani. Panama, in particolare, è sede fissa delle operazioni della IV Flotta Usa e della Southern Partnership Station, la missione navale attivata periodicamente nei Carabi e in America latina dall’Us Southern Command [il Comando Sud delle forze armate Usa] con finalità di addestramento e cooperazione militare per la «sicurezza di teatro» e l’interdizione del narcotraffico e delle migrazioni. Dall’11 al 22 settembre scorso, il Canale di Panama ha ospitato una delle più grandi esercitazioni aeree e navali mai realizzate a livello internazionale, Panamax 2009, a cui hanno partecipato 4,500 militari, 30 navi da guerra e decine di cacciabombardieri di 20 nazioni. «Con l’esercitazione sono state sperimentate tutta una serie di risposte alla richiesta di protezione e assicurazione della libertà di transito attraverso il Canale», si legge in una nota diffusa dall’Us Southern Command, che ha pure enfatizzato l’importanza strategica di questo corridoio interoceanico per l’economia e il commercio Usa e mondiale. Corridoio di cui è previsto, peraltro, l’allargamento per adeguarne le caratteristiche alle più grandi navi che solcano oggi gli oceani.
Gli Stai Uniti rappresentano oggi il maggior partner economico di Panama; si tratta però di un rapporto fortemente sbilanciato a favore di Washington. Nel 2008 il surplus degli scambi con il paese centroamericano è stato infatti di 4,3 miliardi di dollari, l’ottavo in ordine di grandezza a livello mondiale degli Stati Uniti. La concessione delle quattro basi panamensi alle forze armate Usa viene considerata proprio in funzione del rafforzamento del controllo economico di Washington sul paese e sul Canale. Parallelamente al nuovo patto militare, la nuova amministrazione del presidente Barack Obama e il governo di Panama hanno concluso un importante accordo di libero commercio [Free trade agreement – Fta]. «Il nuovo trattato di libero commercio incoraggerà l’espansione e la diversificazione del commercio Usa con Panama eliminando le barriere doganali e facilitando la movimentazione di beni e servizi a favore delle imprese statunitensi», ha commentato James M. Roberts, ricercatore in Libertà economiche e Sviluppo del Centro per il Commercio Internazionale della ultraconservatrice Heritage Foundation. «Il Fta Usa-Panama offrirà un insieme di regole chiare e vincolanti che favoriranno stabilità e prevedibilità. Le regole dell’accordo di libero commercio per servizi, attività, investimenti, commesse governative, diritti di proprietà intellettuale e risoluzione di dispute saranno maggiori di quelle previste dagli standard dell’Organizzazione mondiale del commercio [Wto]. Il Fta garantisce un trattamento non discriminatorio per i capitali stranieri e legittima la preparazione di ulteriori trasferimenti di tecnologie e migliori pratiche tra i paesi partner».
Sempre secondo il ricercatore dell’Heritage Foundation, il nuovo accordo di libero commercio dovrebbe permettere alle imprese Usa di recuperare lo «svantaggio competitivo» nella gestione del traffico attraverso il Canale, dopo che «la società cinese con sede a Hong Kong, Hutchison Whampoa, Ltd., ha firmato accordi di affitto a lungo termine con il governo panamense per operare nei porti commerciali strategici di Cristobal sull’Atlantico e Balboa sul Pacifico». Washington punta inoltre a spostare a proprio favore l’esito negativo della gara per i lavori di ampliamento del Canale di Panama [costo stimato 5,25 miliardi di dollari], gara appena aggiudicata ad un consorzio europeo che vede capofila l’italiana Impregilo. «Assicurato il Fta, le compagnie Usa potrebbero posizionarsi meglio per i lucrativi appalti di costruzione», scrive ancora James M. Roberts. «La maggior parte delle attrezzature che saranno utilizzate per costruire il nuovo sistema di chiuse, ad esempio, potrebbero essere prodotte negli Stati Uniti».
Immancabili, infine, le considerazioni di ordine geo-strategico, finalizzate all’isolamento e alla sconfitta dei nuovi «nemici» di Washington negli scenari latinoamericani. «L’accordo di libero commercio con Panama – conclude il ricercatore – aiuterà a contrastare la crescente corrente rappresentata dal chavismo che ha fortemente circondato la Colombia e provocato l’odierna crisi in Honduras, e che minaccia di minare gli interessi emisferici degli Stati uniti»

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martedì 10 novembre 2009

La scuola di gomma non sarà abbattuta



La scuola di gomma non sarà abbattuta

Maralis

La tribù beduina dei jahaleen ha vinto il primo ricorso contro l'ordine di abbattimento emesso dalle autorità israeliane. La scuola di gomma, che da settembre ospita 60 bambini, per ora rimane al suo posto tra le dune del deserto di Gerico. La vicenda però non è chiusa.

Il Tribunale israeliano ha deciso di ignorare un ordine di demolizione nei confronti della «scuola di gomma» dei beduini della tribù jahaleen, di Gerico, e ha chiesto alle parti di trovare un accordo preservando il diritto allo studio dei bambini palestinesi. I campi dei jahaleen sono concentrati nel deserto di Giudea, quella parte di Cisgiordania compresa tra Gerusalemme est e Gerico. Sono spesso jahaleen i beduini che chiamano i turisti in sosta per le foto di rito con il cammello o l’asino e per vendere qualche souvenir.
La scuola elementare di realizzata con copertoni usati, terra e acqua [ne abbiamo parlato sul numero 26 del 2009 di Carta] è diventata un edificio simbolico contro l’occupazione militare israeliana: è stata progettata da un gruppo di architetti italiani assieme alla Ong Vento di terra, per far fronte ai divieti di costruzione in muratura in una zona C della Cisgiordania, quella sotto totale controllo israeliano. Da settembre di quest’anno ospita circa 60 bambini.
Eppure, nonostante la tecnica «ecologica» ed innovativa e il lavoro manuale di una squadra di volontari internazionali, il 23 giugno scorso l’amministrazione civile israeliana ha inviato un’ingiunzione scritta di stop ai lavori e il 23 luglio un vero e proprio ordine di demolizione. I beduini hanno fatto ricorso e il caso da mesi era nelle mani di un tribunale israeliano. L’ordine di demolizione nasce dall’intervento della municipalità di Ma’ale Adumim, la più popolosa colonia israeliana costruita oltre la Linea verde del 1967. Il territorio dei jahaleen ricade in quello dei piani di espansione di Ma’ale Adumim.
Il 9 novembre scorso, subito dopo la cerimonia di inaugurazione della scuola al campo di Al-Khan Al-Ahmar, finalmente la buona notizia: i giudici hanno deciso che le parti – le municipalità delle due colonie israliane circostanti, la società dell’autostrada che corre sotto il campo, e la cooperativa jahaleen – devono cercare un accordo. La scuola comunque non va abbattuta.
«La corte ha accettato la nostra tesi, ossia che dietro la richiesta di abbattimento apparentemente legata a motivi tecnici, si nascondeva in realtà una motivazione politica», spiega Massimo Annibale Rossi, il responsabile di Vento di Terra Onlus, che ha ideato il progetto.
L’amministrazione di Ma’ale Adumim non aveva infatti gradito la costruzione di una scuola elementare in un terreno «conteso», considerato zona C e soggetto all’amministrazione civile e militare di Israele. La società che gestisce l’autostrada locale lamentava poi la necessità di estendere una delle carreggiate, facendola passare, guardacaso, sopra al terreno destinato ai bambini. Solo pretesti, secondo l’avvocato che segue la causa in difesa dei jahaleen.
«Gli architetti di Vento di Terra sono pronti ad apportare delle piccole modifiche al progetto originario; – spiega ancora Rossi – tra le motivazioni che giustificavano l’ordine di demolizione c’era anche quella sollevata dalla società delle autostrade israeliana che lamentava la necessità di spazio». Il contenzioso prosegue ora privatamente e la Olus italiana ha deciso di «rimanere dietro le quinte. Il tavolo negoziale ora riguarda i coloni, i beduini e la società privata, ma seguiamo comunque la vicenda tramite l’avvocato che gestisce il caso», aggiunge Rossi.
Certamente la vicenda non è chiusa: ci sarà forse un appello alla Corte suprema e la municipalità di Ma’ale Adumim potrebbe trovare altri cavilli, ma si tratta di una prima notevole vittoria e di un precedente che fa notizia. Anche perché la scuola di gomma dei jahaleen aveva fatto il giro del mondo. Tra i media israeliani, il quotidiano Haaretz aveva dedicato alla storia un lungo articolo di Amira Hass, e le troupe di diverse televisioni internazionali avevano seguito la vicenda dell’intera tribù che si era messa a raccogliere copertoni usati per costruire una scuola.
La scuola è stata finanziata finora dalla cooperazione decentrata italiana e da alcuni comuni lombardi e sostenuta da alcune agenzie delle Nazioni Unite e da organizzazioni israeliane come Rabbi for Human Rights. Ma non è escluso che anche la Cooperazione governativa italiana possa impegnarsi per un finanziamento che copra parte delle spese.
La struttura è completamente smontabile e i 300 metri quadrati delle aule si reggono in piedi perfettamente senza cemento. Nei muri spessi e freschi delle aule si nascondono più di mille pneumatici: «Per costruire questa scuola non abbiamo usato cemento – spiega ancora Rossi – Non ci sono fondamenta. E’ fatta interamente di copertoni riciclati riempiti di terra e acqua, coperti ancora di terra ed infine intonacati con dell’olio usato per friggere i falafel».
E’ un edificio caldo d’inverno e fresco d’estate che non disperde energia e potrebbe essere un ottimo esempio di bioarchitettura da replicare anche a Gaza dove i materiali da costruzione non entrano. Forse per questo è un progetto che fa paura.




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Eutelia. Raid squadristico contro il presidio

Ex Eutelia. Raid squadristico contro il presidio degli operai

Emiliano Viccaro

Quindici vigilantes, comandati dall'ex amministratore delegato, si spacciano per poliziotti e fanno irruzione nello stabilimento presidiato dai lavoratori in lotta contro il piano di licenziamenti. Una troupe di giornalisti Rai riprende la scena e chiama la polizia. Sindacati e sinistra denunciano "l'aggressione squadristica" e chiedono l'intervento del governo.

Una cosa del genere non si era mai vista. O meglio, si era vista a cavallo del “biennio rosso” e i primi anni venti, durante la nascita del fascismo, quando le milizie in camicia nera davano man forte agli industriali rompendo i picchetti degli scioperi operai. Questa mattina, all’alba, una quindicina di vigilantes, comandati da Samuele Landi, ex amministratore delegato della società informatica Agile [ex Eutelia], hanno fatto irruzione nella sede del gruppo presidiato dai lavoratori, nel quartiere Tiburtino. Obiettivo del raid, interrompere l’occupazione dei locali da parte dei dipendenti da tre mesi non ricevono lo stipendio e in mobilitazione permanente contro i tagli e i licenziamenti.

La proprietà, infatti, ha avviato la procedura di licenziamento collettivo nei confronti di 1200 dipendenti in tutta Italia, 284 nella sola sede di Roma. Davanti questa decisione, i 2000 dipendenti hanno deciso di occupare le sedi di Torino, Ivrea, Pregnana Milanese, Napoli e Roma. La vicenda inizia negli anni ‘90 quando la Olivetti Solutions viene venduta prima alla multinazionale Wang e poi a Getronix. Nel 2006 la famiglia aretina Landi compra Getronix e numerose altre aziende. Dalla fusione di queste imprese viene creato il marchio Eutelia. I bilanci dell’impresa iniziano ad andare in rosso e attirano l’attenzione della guardia di finanza che apre delle indagini. A giugno 2008 viene annunciata la crisi, parte la cassa integrazione per i lavoratori e poi i contratti di solidarietà. A gennaio 2009 viene annunciata la dismissione del settore informatico. A giugno la famiglia Landi cede il ramo informatico ad Agile, piccola srl di Potenza a sua volta rilevata a da Omega spa. Da allora, crisi nera e procedimenti di mobilità.

Nella capitale il presidio è iniziato il 28 ottobre scorso con l’occupazione dei tetti dello stabilimento. Per spezzare la resistenza, questa mattina i vigilantes, armati con piedi di porco, hanno divelto le porte degli uffici, hanno svegliato i lavoratori puntando loro negli occhi le torce elettriche, spacciandosi per poliziotti, chiedendo i documenti, minacciando gli stessi lavoratori e impedendo loro di muoversi. Sfortunatamente per le guardie giurate, all’irruzione erano presenti le telecamere del programma “Crash” di Rai Educational che hanno ripreso la scena. Federico Ruffo, giornalista Rai, si è rifiutato di consegnare i documenti e ha chiamato la polizia. Gli agenti hanno identificato i componenti della falsa squadra e il proprietario dell’azienda, facendoli immediatamente uscire prima che la tensione degenerasse in uno scontro con i lavoratori. La Digos ha acquisito i nastri della registrazione per stabilire la dinamica dei fatti.

“L’attacco contro la protesta dei lavoratori mostra il volto violento dell’imprenditoria – ha detto Claudio Di Berardino, segretario generale della Cgil di Roma e Lazio – I sindacati hanno chiesto l’intervento immediato della presidenza del consiglio dei ministri affinché convochi un tavolo per risolvere, con un vero piano industriale, la vertenza Eutelia e il dramma occupazionale dei suoi dipendenti. "Siamo tornati indietro ai primi dell’800 – ha commentato Andrea Alzetta, consigliere comunale – L’ultimo episodio simile a questo risale ai tempi della rivoluzione industriale. Ritengo gravissimo questo atto di aggressione, operato con il metodo di terrore sdoganato e legittimato dal governo”.

Sulla vicenda è intervenuta anche Alessandra Tibaldi, assessore regionale al lavoro, che ha chiesto “la convocazione urgente di un tavolo di confronto nazionale sulla vertenza Eutelia. Non si può accettare l’intervento di sgombero del presidio dei lavoratori. Qualora i tempi di convocazione dovessero slittare – ha concluso Tibaldi – la Regione è pronta a convocare le parti d’intesa con il Prefetto". Oggi alle 18, sit in davanti alla Camera promosso dai giovani del Pdci, "per protestare contro un’aggressione che ricorda gli squadroni della morte sudamericani”.



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lunedì 9 novembre 2009

Crocifisso? Solo un simbolo

Crocifisso? Solo un simbolo della nostra tradizione. Come gli spaghetti.

da Renzo Butazzi

Mi sorprende che il ministro dell'istruzione , criticando la recente sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, non si sia accorta di aver degradato il significato che il crocifisso ha per i credenti a quello di una confezione di spaghetti. Maria Stella Gelmini, infatti, ha affermato che la sua presenza "in classe non significa adesione al cattolicesimo, ma è un simbolo della nostra tradizione". Proprio come potrebbe essere simbolo della nostra tradizione una confezione di spaghetti o un fiasco di vino.

Intendiamoci: personalmente troverei molto più rasserenante vedere appesi nelle aule di giustizia e in quelle scolastiche simboli meno crudeli della nostra tradizione - magari un mandolino (in omaggio alla nostra riconosciuta tradizione di "mandolinisti") o la riproduzione a colori di una pizza - piuttosto che la tragica immagine di un uomo fatto morire inchiodandolo vivo su una croce perché dava fastidio ai potenti. Caso mai potrebbe essere il simbolo di una tradizione che ammette la pena di morte, come potrebbe essere l'immagine di una sedia elettrica o di una forca

Mi sembra che il crocifisso, soprattutto a scuola, o non rappresenta niente per i ragazzi che lo guardano o deve fargli una certa paura. Fosse almeno l'immagine di San Giorgio che uccide il drago e libera la fanciulla, ma il crocifisso è l'immagine di un uomo sconfitto e suppliziato.

Mi parrebbe preferibile che la nostra tradizione avesse simboli più incoraggianti.



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venerdì 6 novembre 2009

5 dicembre: la piazza chiama


5 dicembre: la piazza chiama


La crisi economica sta determinando una sofferenza sociale sempre maggiore.
L’aumento della precarietà, la perdita di posti di lavoro, salari e pensioni con cui si fatica ad arrivare a fine mese sono il panorama comune a tutto il Paese.

Il Governo, invece di intervenire per risolvere questa situazione, la aggrava con tagli alla spesa sociale e all’istruzione, con la compressione di salari e pensioni, di cui l’attacco al contratto nazionale di lavoro è solo l’ultimo atto. Inoltre, questo Esecutivo si adopera a fomentare la guerra tra i poveri con provvedimenti razzisti e xenofobi sull’immigrazione.

Come se non bastasse, il Governo ha varato provvedimenti come lo scudo fiscale che legalizzano l’evasione fiscale e il malaffare, ha stanziato una quantità enorme di denaro per le banche, per l’acquisto di cacciabombardieri e per grandi opere inutili come il ponte sullo stretto di Messina.

Il Governo contribuisce, quindi, ad aggravare la crisi, difende i poteri forti e parallelamente si adopera per demolire la democrazia italiana portando a compimento la realizzazione del piano della P2 di Licio Gelli. Le proposte di manomissione della Carta Costituzionale si accompagnano ad una quotidiana azione di scardinamento della Costituzione materiale, al tentativo di mettere il bavaglio alla libera informazione, di limitare l’autonomia della Magistratura, di snaturare il ruolo del sindacato e di ridurre al silenzio i lavoratori.

Per contrastare quest’operazione che è allo stesso tempo antidemocratica, fascistoide e socialmente iniqua, riteniamo necessario costruire una risposta politica generale, forte e unitaria. Siamo impegnati a costruire un’opposizione di massa per ripristinare la democrazia nel Paese e nei luoghi di lavoro e che obblighi il Governo a cambiare la politica economica e sociale.

Ecco perché chiediamo le dimissioni di Berlusconi anche alla luce della sua manifesta indegnità morale a ricoprire l’incarico di Presidente del Consiglio. E proponiamo a tutte le forze di opposizione di convocare per il prossimo 5 dicembre una manifestazione unitaria contro la politica del Governo e per chiedere le dimissioni del Presidente del Consiglio.

Antonio Di Pietro
Paolo Ferrero

MESSAGGIO DI CHIARIMENTO

Cari amici,
nessuno si vuole appropriare di nulla: la manifestazione è di tutti i cittadini e la promozione è vostra.
Noi dell’Italia dei Valori parteciperemo e, per questo, ho già dato disposizioni.
La nostra vuole essere una partecipazione attiva ma ribadisco che la promozione della manifestazione è e resta della rete.
Scusate per l’equivoco.

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Rivolta nel Cie, Torino corso Brunelleschi

.Rivolta nel Cie torinese di corso Brunelleschi

http://www.autistici.org/macerie/

Nel Cie di Corso Brunelleschi a Torino ieri sera è scoppiata una rivolta. La Croce rossa si rifiutava infatti di prestare soccorso a un migrante detenuto che si era tagliato in diverse parti del corpo.

Sei ore di rabbia nel Centro di identificazione ed espulsione di corso Brunelleschi, dopo che un detenuto si è tagliato mani e polsi e che la Croce rossa si è rifiutata di intervenire.
Alle 20,00 del 4 novembre uno dei reclusi che l’altro giorno era stato trasferito da via Corelli è esploso. La lunga detenzione, il trasferimento inatteso, le condizioni di detenzione, la lontananza da sua figlia appena nata, lo portano a tagliarsi le mani e le braccia e ad ingoiare un accendino e vari altri ferri. Dice che vuole morire, accusa la polizia di averlo trasferito da Milano per punirlo di aver denunciato la situazione dei Centri tramite le radio di movimento e tramite il sito Macerie.
I suoi compagni di cella vedono subito che la situazione è abbastanza grave: il sangue è ovunque e la Croce Rossa si rifiuta di intervenire. Così chiamano i solidali che conoscono all’esterno e da subito – dai microfoni di Radio Blackout e dai siti di movimento – parte un appello a telefonare al Centro perché i responsabili chiamino l’ambulanza e lo facciano curare.
Parte un vasto giro di telefonate di protesta. Da dentro al Centro i responsabili negano, affermano che «la situazione è sotto controllo», che provvederanno… alla fine il recluso ferito viene portato in infermeria e poi riportato subito nelle gabbie.

Intorno alle 22,30 i prigionieri riferiscono entusiasti di sentire un gran baccano fuori dalle mura: «c’è una manifestazione» – dicono. Sono gli antirazzisti, veloci e rumorosi come al solito. Da quel momento in poi la situazione si scalda: i reclusi continuano a protestare rumorosamente, alle 23,00 inizia una breve sommossa, e i prigionieri delle due aree maschili danneggiano il danneggiabile. Alle 23,20 il ferito si taglia di nuovo, questa volta alla gola. Dopo un attimo di silenzio sgomento, riparte la protesta. Solo intorno alle 23,40 i responsabili del Centro chiamano un’ambulanza, che recupera il ferito e lo porta al Pronto Soccorso.
Intorno alla mezzanotte la polizia circonda le gabbie e minaccia di caricare, i reclusi si barricano dentro accumulando le panchine di cemento contro le porte. Dentro ad una delle aree, i reclusi riescono a buttare giù il muro della saletta interna. La polizia un po’ minaccia un po’ cerca di calmare la situazione: arrivano i capi dell’ufficio immigrazione e del Centro. «Se non vi rispondiamo al telefono domani mattina, vuol dire che siamo in carcere o all’ospedale»- dicono i reclusi.
Alle 0,45 il recluso ferito è in chiurgia all’ospedale Martini. Fuori dall’ospedale due volanti e la Digos, che ferma e identifica alcuni solidali.

Nello stesso tempo la polizia comincia a provare a sfondare le porte, ma non ci riesce. Arrivano i vigili del fuoco e altri rinforzi. Ci sono più o meno 50 carabinieri e 100 poliziotti. I capi dell’ufficio immigrazione parlamentano con i reclusi e intorno all’1.05 trovano un accordo: via la celere e i poliziotti armati, nelle gabbie potranno entrare soltanto i pompieri a raccogliere le macerie del muro demolito, scortati da due donne dell’ufficio immigrazione.

Alle 1,15 sembra tornata la calma. Alle 2.10, quando oramai i pompieri hanno terminato il proprio lavoro, due volanti riportano al centro il prigioniero ferito. Sei ore di rabbia, e il Cie di Torino ha un muro in meno.


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