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martedì 25 maggio 2010

Banche sempre più armate

Banche sempre più armate
di : Luca Kocci


Sono cresciute del 61 per cento in un anno le esportazioni di armamenti italiani, coperte dai grandi gruppi bancari. Li passa in rassegna l'articolo che pubblichiamo, tratto dal sito di Adista.

E’ salito al vertice della delle “banche armate” – ovvero gli istituti di credito che forniscono servizi finanziari alle industrie armiere ottenendo notevoli compensi di intermediazione – il gruppo UBI Banca [Unione Banche Italiane], nel cui Consiglio di Sorveglianza siede, non a caso, Pietro Gussalli Beretta, vicepresidente di Beretta Holding Spa, la principale azienda italiana, e una delle prime al mondo, produttrice di armi leggere: con 1 miliardo e 231 milioni di euro UBI Banca è il gruppo che – soprattutto con il Banco di Brescia e per una piccola quota con il Banco di San Giorgio – nel corso dell’anno 2009 ha movimentato più soldi per conto delle industrie italiane che hanno esportato armi all’estero. Nel 2008 l’impegno di Ubi Banca era inferiore ai 250 milioni.
“La nostra policy – spiega ad Adista Damiano Carrara, responsabile Corporate Social Responsibility di UBI Banca – non è volta ad azzerare l’impegno del gruppo nei confronti del settore che anzi consideriamo importante per la difesa dell’ordine pubblico interno e internazionale secondo i principi della Costituzione italiana, ma a regolare gli interventi secondo criteri di valutazione delle singole operazioni oggettivi e trasparenti, condivisi con varie organizzazioni sociali attente a questi temi”. “Tutte le transazioni sono state effettuate nel pieno e rigoroso rispetto di tale codice di comportamento: il 97 per cento degli importi autorizzati riguarda Paesi dell’Unione Europea, come si può leggere anche nel Bilancio sociale consultabile sul sito, e ha come oggetto la fornitura di componenti, ricambi e manutenzioni per aeromobili e di aeromobili non armati. Inoltre sono state declinate operazioni per un importo complessivo di 7,1 milioni di euro, in quanto dirette verso Paesi non ammessi dalla policy”.
Principi e informazioni che tuttavia non possono più essere verificate, come spiega Giorgio Beretta, analista della Rete Italiana Disarmo e per anni animatore della Campagna di pressione alle “banche armate” promossa dalle riviste Missione Oggi, Nigrizia e Mosaico di Pace: “Da quando, tre anni fa, il Governo ha eliminato dalla Relazione sull’import-export di armi il lungo e dettagliato elenco delle singole operazioni effettuate dagli istituti di credito, è impossibile giudicare l’operato delle singole banche. Nessuno mette in dubbio il resoconto delle banche, nel caso di UBI anche abbastanza dettagliato, ma senza quell’elenco le loro affermazioni mancano del riscontro ufficiale che solo la Relazione può fornire”.
La Relazione del governo – pubblicata circa due mesi dopo la divulgazione di un più sintetico Rapporto che ha evidenziato il grande aumento [più 61 per cento] delle esportazioni di armi italiane nel mondo soprattutto verso Paesi extra Unione Europea e Nato – segnala che nel 2009 sono state autorizzate 1.628 transazioni bancarie per un totale di oltre 4 miliardi di euro, a cui va aggiunto poco più di 1miliardo e 700 milioni per “programmi intergovernativi” di riarmo [cioè i grandi sistemi d’arma costruiti in collaborazione con altri Paesi, come ad esempio il cacciabombardiere Joint Strike Fighter per cui l’Italia spenderà almeno 13 miliardi nei prossimi anni].
Dopo UBI Banca, sempre per quanto riguarda il capitolo esportazioni, la seconda “banca armata” è la tedesca Deutsche Bank con 913 milioni di euro, seguita dal gruppo italo-francese BNL-BNP Paribas che ha movimentato 904 milioni di euro, e che è anche la banca convenzionata con l’Ufficio Nazionale per il Servizio Civile.
“Il recente crescente attivismo della banca tedesca nel settore – nel 2004 realizzava operazioni per soli 700mila euro – e soprattutto la totale mancanza di direttive pubbliche per quanto riguarda il settore dell’industria militare e dell’export armiero fanno oggi della Deutsche Bank uno dei principali attori in questo particolare business”, commenta Beretta. “Vien da chiedersi cosa intenda quando sul proprio sito la banca afferma che ‘per Deutsche Bank la Responsabilità Sociale d’Impresa non è un’opportunità per fare beneficenza, ma un investimento nella società e nel proprio futuro’. Se l’investimento è fatto coi proventi dell’export militare, il futuro lo vedo… plumbeo”.
E per Beretta “stupisce anche il crescente volume d’affari nel settore da parte di BNP Paribas: dai poco più di 300 mila euro del 2002 si passa agli oltre 804 milioni di euro del 2009 autorizzati a Bnp Paribas Succursale Italia”, ovvero BNL. “Il Codice Etico della BNL – aggiunge Beretta – limiterebbe l’operatività della banca nell’export di armi ai soli Paesi della Nato e dell’Ue. Inoltre, stando al principio secondo cui il Gruppo Bnp Paribas adotterebbe nei vari Paesi lo ‘standard più elevato’ in materia di responsabilità sociale, tale limitazione dovrebbe applicarsi anche alla sua filiale italiana. Ma né nei bilanci sociali della BNL e ancor meno in quelli del BNP Paribas si rintraccia una cifra o un Paese verso cui le due banche hanno svolto operazioni di armi”.
Questi tre gruppi bancari, da soli, coprono i tre quarti del mercato finanziario relativo alle esportazioni. Seguono circa 20 banche, sia italiane che estere, con importi assai inferiori. Fra gli istituti italiani si notano il gruppo Intesa San Paolo con 186 milioni [a cui però andrebbero aggiunti anche i 47 milioni della Cassa di Risparmio di La Spezia, facente parte dello stesso gruppo] e Unicredit con 146 milioni. A seguire Cassa di Risparmio di Genova e Imperia [23 milioni], Banca Popolare Commercio e Industria [15 milioni], Banca Antonveneta [quasi 9 milioni] e poi Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Banca Valsabbina, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Credicoop di Cernusco sul Naviglio e Banca Popolare di Milano con importi intorno ai 5 milioni di euro ciascuno.
Se dalle esportazioni si passa a considerare i “programmi intergovernativi”, i primi due posti sono saldamente occupati da Intesa San Paolo [806 milioni] e Unicredit [702 milioni], leader incontrastati di questo settore – nonché banche di riferimento per le attività della Conferenza Episcopale Italiana e della Caritas Italiana [v. Adista n. 5/10] – che da anni fanno pubbliche e solenni dichiarazioni di disimpegno dal sostegno alle industrie armiere e puntualmente si ritrovano in vetta alla classifica.
“Nel caso delle esportazioni definitive, dove comunque si ha una diminuzione del 12 per cento rispetto allo scorso anno, si tratta di transazioni relative a operazioni avviate prima dell’entrata in vigore del nostro codice di comportamento, esteso progressivamente alle banche entrate negli anni nel Gruppo Intesa Sanpaolo” spiega ad Adista Valter Serrentino, responsabile dell’Unità Corporate Social Responsibility di Intesa San Paolo. “Inoltre aggiungo che la principale operazione supportata, che rappresenta oltre il 60 per cento dell’importo totale delle autorizzazioni, è relativa alla fornitura di 3 navi cacciamine alla Marina Militare finlandese. Le operazioni relative ai programmi intergovernativi invece si riferiscono ad accordi pluriennali, anch’essi stipulati prima dell’entrata in vigore del codice di comportamento, che manifesteranno i loro effetti nei nostri bilanci anche per i prossimi anni. Crediamo quindi di aver mantenuto coerentemente gli impegni che abbiamo preso nei confronti sia dei nostri clienti, sia della società civile”.
“Se non è ingiustificata la sottolineatura da parte degli istituti di credito che questi programmi intergovernativi per la loro specificità ineriscono la stessa politica di difesa dell’Italia – replica Beretta – ciò dovrebbe attivare la società civile in maniera ancor più decisa nel chiedere conto innanzitutto al Governo della sensatezza delle spese per questi sistemi militari che, oltre che incredibilmente dispendiosi, hanno anche una chiara propensione offensiva, come nel caso del programma per il Joint Strike Fighter”.
www.adistaonline.it

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