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venerdì 16 marzo 2018

Aldo Moro e il nuovo Compromesso Storico


La morte di Aldo Moro e la possibilità di un nuovo compromesso storico

Il rapimento di Aldo Moro, il 16 marzo 1978, di cui ricorrono i quarant’anni questo venerdì, ha dato avvio a uno dei periodi più drammatici della storia repubblicana: i 55 giorni nei quali le Brigate rosse (Br) hanno tenuto prigioniero l’ex primo ministro misero a dura prova il patto tra la Democrazia cristiana (Dc) e il Partito comunista italiano (Pci). Le Br avevano preso di mira Moro perché era stato uno dei principali interlocutori del segretario del Pci, 
Enrico Berlinguer, all’interno della Dc.


L’assassinio di Moro, il 9 maggio 1978, non fece immediatamente naufragare il patto tra Dc e Pci. Nei due anni precedenti il Pci aveva usato lo strumento della “non sfiducia” per sostenere il governo monocolore di Giulio Andreotti, mantenendo viva la speranza di entrare direttamente al governo. Eppure, nel gennaio del 1979, il Pci decise di ritirarsi dalla maggioranza, perché l’ala conservatrice della Dc era riuscita a bloccare ogni tentativo di far entrare dei ministri comunisti nel governo.


Sebbene Berlinguer avesse parlato di un’alleanza democratica anche negli anni precedenti, era stato l’esito inconcludente delle elezioni del 1976 a rendere possibile il patto di “solidarietà nazionale”. L’ascesa del Pci al 34 per cento (contro il 38 per cento della Dc) aveva riacceso il dibattito, reso più drammatico dal colpo di stato contro Salvador Allende in Cile nel 1973, sull’opportunità per il Pci di entrare in una coalizione più ampia invece di ricercare una maggioranza del 51 per cento.


Questa storia torna curiosamente attuale nel 2018, con le ironiche allusioni a un compromesso storico 2.0. Sul Fatto Quotidiano, e perfino nella pagina delle lettere della Repubblica, sono apparsi appelli per un patto del genere, apparentemente sostenuto soprattutto dalla sinistra del Partito democratico (Pd). Secondo queste voci il Pd, lontano erede del Pci, dovrebbe offrire un appoggio esterno al Movimento 5 stelle (M5s), ammettendo una convergenza politica o semplicemente per arginare la Lega.


Negli ultimi giorni importanti esponenti del Pd si sono espressi con decisione contro un accordo. A rifiutare non sono stati solo Matteo Renzi e il neoiscritto Carlo Calenda, ma anche esponenti come Maurizio Martina e Andrea Orlando. La resistenza del Pd a una simile svolta è sintomatica della più ampia crisi della democrazia italiana, nella quale blocchi frammentati e poco radicati temono l’onere di assumersi responsabilità politiche.


Vecchie certezze
I fattori che spingevano verso il compromesso erano molto più forti all’epoca di Moro che nel 2018. Anche se è stato suggerito che la fine delle ideologie e il carattere generalmente turbolento della politica italiana faciliterebbero un nuovo compromesso, è più facile immaginare un accordo istituzionale di facciata che un patto tra partiti. In fondo sia i vincitori sia gli sconfitti del 4 marzo sanno bene di essere molto vulnerabili alla frammentazione.

Questo netto contrasto è più evidente quando si osserva la genealogia del patto del 1976. Il compromesso storico non rappresentava solo una riduzione delle ambizioni del Pci, ma anche la ricerca di una legittimità repubblicana che era parte fondamentale del suo dna da decenni, poiché il partito desiderava uscire dal ruolo subalterno cui era condannato dalla guerra fredda. Questo tentativo di uscire dalla conventio ad excludendum (patto di esclusione del Pci) traeva forza dalle conclamate tradizioni repubblicane del partito.


Sia la svolta di Salerno del 1944 sia l’apertura di Palmiro Togliatti ai cattolici offrivano dei chiari, ancorché parziali, precedenti. Durante la legislatura del periodo 1976-1979, il riconoscimento da parte del Pci del Patto atlantico come “fondamentale punto di riferimento” segnò un ulteriore allontanamento da Mosca. La sua fermezza nell’opporsi ai negoziati con le Br e la sua prudente risposta ai movimenti del 1977 produssero momenti traumatici, ma conformarono il partito a un’unica ricerca di legittimità repubblicana.

Lo stesso Aldo Moro aveva sottolineato le basi del patto. Per Moro la Dc e il Pci sapevano quali “mondi” rappresentassero e avevano già condiviso il potere dopo la svolta di Salerno, durante il periodo della Costituente. Moro parlava di “convergenze parallele”, un accordo nel quale nessuno avrebbe perso la sua identità. Perfino Pietro Ingrao, l’“eretico” del Pci, accettò la presidenza della camera. E perfino i conservatori della Dc comprendevano i benefici di una pacificazione del Pci.

I protagonisti di quell’epoca avevano un peso tale da permettere loro di fare moderate concessioni. Un simile accordo è invece più difficile quando le identità politiche sono in crisi. Il Pd non è un partito con una strategia, bensì la vittima dello stesso crollo che ha colpito tutti i partiti di centrosinistra ai quali un tempo guardava. Negli ultimi giorni il segretario ad interim Maurizio Martina ha riacceso gli animi proprio assumendo una posizione fortemente contraria a un patto con l’M5s.

Anche se un sondaggio Ipr suggerisce che gli elettori del Pd siano a favore di un sostegno esterno a un governo dell’M5s (59 per cento i favorevoli contro il 25 per cento di contrari), sono poche le voci autorevoli a sostenere questo accordo. Michele Emiliano rappresenta una regione dove l’M5s ha ottenuto una grande vittoria il 4 marzo, ma il governatore della Puglia non è certo una figura decisiva a Montecitorio o a palazzo Madama. Anche i dirigenti non renziani come Andrea Orlando hanno respinto l’idea di un referendum tra gli aderenti al Pd.

Riallineamento
La difficoltà nel formare una coalizione oggi non deriva solo dai risultati elettorali poco chiari ma dalla più generale volatilità della politica. Nel 1976 Dc e Pci si spartirono da soli quasi i tre quarti dei voti. Anche un esempio più recente, il governo di Mario Monti, tra il 2011 e il 2013, è stato in grado di esprimere ampie maggioranze alla camera e al senato perché Pd e Popolo della libertà (Pdl) controllavano insieme i due terzi dei seggi.

Quarant’anni fa la violenza politica era un tratto del paesaggio politico più drammatico di quanto non sia oggi. La repubblica oggi non vive un simile stato d’assedio. Gli attuali tumulti pongono tuttavia nuovi problemi. Il partito forte nel mezzogiorno che cerca di governare non è più la radicata Dc, ma il ribelle M5s. Il Pd cerca di evitare nuove elezioni, ma il senso di “responsabilità” che ha tanto ostentato nel 2013 non sembra consigliare un accordo con nemici nuovi e rancorosi come l’M5s.

Il carattere volubile di questi outsider ribelli è a sua volta un problema. Dalle unioni civili allo ius soli, l’M5s si è dimostrato più opportunista che realmente trasversale, ma rischia di essere indebolito da un accordo con una forza più coerente: il Pd è un rivale ovvio, ma anche la Lega è chiaramente più un rivale che un partner. Anche se l’M5s ha strappato così tanti voti della classe operaia al Pd, rischia di essere superato dal voto di protesta per l’estrema destra.


Il campo politico è aperto: il voto complessivo per Pd e Forza Italia rappresenta ormai solo il 33 per cento. In questa situazione Maurizio Martina descrive giustamente il fatto di andare al governo come un “onere” per quelle forze che ambiscono a un riallineamento politico generale. Indicativo è il caso della Lega, il cui obiettivo non è semplicemente entrare a far parte della maggioranza (tanto meno in posizione di debolezza) quanto sfruttare questo storico sorpasso e affermare il proprio predominio all’interno del centrodestra, anche all’opposizione.

Forze volatili
I tumulti politici attuali non nascono nel vuoto. Nel 1975 il primo ministro Aldo Moro aveva rappresentato un’Italia in ascesa al primo vertice del G6. Anche se il crollo del sistema di Bretton Woods e la crisi petrolifera del 1973 preannunciavano futuri cambiamenti, le prospettive economiche dell’Italia non apparivano così cupe. La situazione è nettamente diversa oggi, visto il disagio che segue la crisi dell’eurozona e i quasi tre decenni di crescita sporadica e limitata dell’Italia.

L’M5s è una forza volatile, che non parla un linguaggio di classe ma quello di cittadini arrabbiati e atomizzati. I problemi economici dell’Italia sono effettivamente un motivo importante del suo successo, in particolare con la creazione di nuove generazioni sfiduciate dalle istituzioni del paese. Le forze rappresentate nell’attuale diciottesima legislatura, al contrario dei partiti della prima repubblica, agiscono in un’epoca in cui l’impegno politico è più debole e le speranze nella politica sono minori.

Questo concetto si concretizzerà, probabilmente, nella rapida rinuncia, da parte dei vincitori delle elezioni, alle loro più ardite promesse elettorali. Una delle previsioni che si possono fare a proposito del nuovo governo è che non introdurrà una flat tax al 15 per cento. Anche l’M5s mira a calmare gli ardori dei suoi sostenitori. Sotto la guida di Luigi Di Maio, il movimento ha finito curiosamente per somigliare molto di più agli altri partiti: un volto nuovo privo di una nuova visione politica chiara.

La prima repubblica non era un paradiso: già durante il consiglio nazionale della Dc del 1969, Aldo Moro parlò di “una certa crisi dei partiti, una loro minore autorità”, sostenendo che la classe politica dovesse rispondere “alla coscienza critica e alla forza di volontà della base democratica”. La sua era una risposta incerta a un momento di tensione, nel quale la crescita economica era anche accompagnata da un forte conflitto sociale.

Oggi, con i rappresentanti della vecchia guardia ormai atomizzati, la dialettica tra la base democratica e un cambiamento politico realizzabile è meno ovvio. Il 4 marzo sono stati eletti, più che dei partiti, dei simboli nebulosi. Il difficile processo di formazione di un nuovo governo sembra destinato a produrre un’infelice accozzaglia. O peggio, i protagonisti potrebbero semplicemente rimettere il problema nelle mani degli elettori. Il desiderio di rinnovamento è chiaro, ma non si riesce a trovare alcuno strumento in grado di produrlo.




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