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venerdì 24 agosto 2018

Legami tra Salvini e la 'ndrangheta

I documenti dimostrano che il responsabile del Carroccio a Rosarno,  dove il ministro ha registrato un risultato record alle ultime elezioni,  è stato per anni in società con uomini legati alle cosche: dal clan Pesce ai Bellocco.

I legami pericolosi tra il partito di Matteo Salvini e la 'ndrangheta
"La mafia è un cancro" continua a ripetere il vicepremier. Ma i documenti ottenuti da L'Espresso dimostrano che il responsabile del Carroccio a Rosarno, 
dove il ministro ha registrato un risultato record alle ultime elezioni, 
è stato per anni in società con uomini legati alle cosche: dal clan Pesce ai Bellocco
DI GIOVANNI TIZIAN E STEFANO VERGINE

I documenti dimostrano che il responsabile del Carroccio a Rosarno, dove il ministro ha registrato un risultato record alle ultime elezioni, è stato per anni in società con uomini legati alle cosche: dal clan Pesce ai Bellocco.


Il volto più noto della Lega a Rosarno nasconde un imbarazzante segreto. Vincenzo Gioffrè, 37 anni, è il regista del successo elettorale di Matteo Salvini nel paese della piana di Gioia Tauro, in provincia di Reggio Calabria. Comune simbolo dello sfruttamento dei braccianti africani, sciolto due volte per mafia, dove il potere della ’ndrangheta è capillare. E dove la Lega ha raggiunto uno dei risultati più sorprendenti delle ultime elezioni, ottenendo il 13 per cento dei voti dopo che cinque anni prima il pallottoliere si era fermato a un misero 0,25 per cento. Il segreto di Gioffrè, dicevamo.

Sul profilo Facebook, tra le decine di foto che lo immortalano abbracciato a Salvini, non c’è traccia dei suoi rapporti con un pezzo della ’ndrangheta locale. Ufficialmente Gioffrè si presenta come piccolo imprenditore attivo nel settore del verde pubblico. Un uomo che «ama il suo paese» e non tollera «la politica europea di abbattimento delle frontiere» definita causa principale della «massiccia ondata d’immigrazione clandestina da cui derivano le ampie sacche d’illegalità e di disagio sociale che ben conosciamo». Esiste però una biografia non autorizzata del responsabile della Lega di Rosarno, candidato alla Camera alle ultime elezioni. Un curriculum riservato che L’Espresso ha ricostruito grazie a visure camerali e documenti giudiziari.

Si scopre così che il paladino della legalità Gioffrè, allo scoccare del nuovo millennio ha fondato una società cooperativa con Giuseppe Artuso. Personaggio che la procura antimafia di Reggio Calabria ritiene vicinissimo al clan Pesce, una delle cosche più potenti della ’ndrangheta, che da Rosarno si è spinta fino a Milano e al Sud della Francia. I Pesce, per dire, controllano un’ampia fetta del mercato internazionale della cocaina, tanto che uno dei capi clan, Antonino Pesce, due anni fa riuscì persino ad assoldare un comandante di un mercantile per portare la droga dal Sudamerica al porto di Gioia Tauro, regno incontrastato delle cellule mafiose dei paesi della piana.

La creazione della coop agricola non è l’unico affare che collega il capo dei leghisti rosarnesi alla cosca locale. Gioffrè ha creato infatti anche un altro consorzio di cooperative agricole al cui vertice fino al 2013 c’era Antonio Francesco Rao, uomo ritenuto dagli investigatori molto vicino al clan Bellocco, affiliato a quello dei Pesce.
Il ministro dell’Interno Matteo Salvini è consapevole dei legami d’affari che collegano il suo rappresentante a questi personaggi? Di sicuro il leader della Lega è stato ospite della sezione di Rosarno nei giorni immediatamente successivi al trionfo dello scorso 4 marzo.

D’altra parte lui è stato eletto proprio lì: senatore della Repubblica grazie ai voti raccolti in Calabria. Gioffrè era tra gli organizzatori della festa-comizio nel liceo di Rosarno. Evento al quale, come ha scritto Repubblica e hanno confermato fonti investigative all’Espresso, erano presenti esponenti dei clan. Un bagno di folla per il futuro titolare del Viminale e vicepremier. Un ringraziamento personale a Gioffrè, l’uomo che ha fatto affari con presunti ’ndranghetisti. Eppure non troppo tempo fa lo stesso Salvini dichiarava: «Mi sento molto meglio se chi puzza di mafia sta lontano da me».

A parole, dunque, il leader sovranista dice di non voler avere nulla a che fare con persone che hanno legami con la criminalità organizzata. Senza fare distinzione tra indagati e condannati, tra sospetti e certezze. Discorsi da convinto antimafioso, da prefetto di ferro. Tra la teoria e la pratica, però, c’è una distanza siderale. Perché da quando è a capo del partito Salvini ha già dovuto fare i conti con le grane giudiziarie dei leghisti del Sud. E non ha detto una parola. Indagini sul voto di scambio in Sicilia. Finte minacce denunciate dal suo viceré sull’isola, Angelo Attaguile, che la procura di Catania ha chiesto di condannare a una multa salata per essersi inventato tutto. Senza dimenticare l’appoggio in Campania di ex fedelissimi di Nicola Cosentino, condannato a nove anni per concorso esterno in associazione camorristica.

E il pacchetto di voti offerti alla Lega da Giuseppe Scopelliti, pezzo da novanta della politica calabrese, ex governatore e già sindaco di Reggio, oggi in carcere per il dissesto delle casse del municipio e su cui pesano i sospetti della procura locale: secondo pentiti e magistrati Scopelliti è stato appoggiato nella sua ascesa politica dal clan De Stefano. Che dire poi del deputato di Lamezia Terme Domenico Furgiuele, il primo leghista calabrese doc a finire in Parlamento, sul cui conto si sommano i sospetti di una parentela ingombrante e di vicende poco chiare (vedi box). Furgiuele è stato il primo ad accogliere Gioffrè nelle fila leghiste. Del resto è merito del neo deputato se Salvini ha potuto contare su una rete di consenso diffuso in Calabria. In rete si può leggere ancora il discorso con cui Furgiuele dà il benvenuto al giovane rosarnese, descritto dal responsabile regionale della Lega come un «imprenditore onesto e uomo impegnato nel sociale, già candidato alle ultime amministrative conseguendo l’apprezzabile risultato di oltre 300 preferenze personali».

Correva l’anno 2016, Gioffrè aveva appena lasciato Fratelli d’Italia per unirsi al leghismo non più padano. In cima all’agenda politica, manco a dirlo, la questione immigrazione. Rosarno è nota per la presenza di un alto numero di stranieri, nel 2010 le immagini della rivolta dei braccianti africani fecero il giro del mondo. All’epoca ministro dell’Interno era Roberto Maroni, il collega di partito dell’attuale capo del Viminale. È la terra, Rosarno, dei braccianti che lavorano dall’alba al tramonto nei campi per pochi euro l’ora. Sfruttati come schiavi. E vittime di angherie, colpiti spesso nel tragitto di ritorno verso le baracche da ragazzini in cerca di fama criminale e onore.

La soglia di indignazione di Gioffrè sull’immigrazione è molto bassa. Ben più tollerante si è invece dimostrato con la ’ndrangheta. Un esempio? La giunta dell’ex sindaco di Rosarno, Elisabetta Tripodi, qualche anno fa aveva pensato di realizzare, su un terreno confiscato ai clan, alcuni prefabbricati da destinare ai migranti. Alla fine l’opera è rimasta incompiuta, anche perché la ditta che stava facendo i lavori è stata bloccata dalla prefettura con un’interdittiva antimafia (l’impresa sarebbe stata condizionabile dalle cosche). Nell’ottobre del 2016, al grido di “Prima gli italiani”, la struttura è stata occupata da un gruppo di cittadini rosarnesi. Gioffrè era dalla loro parte, e il “villaggio della solidarietà” è stato presto trasformato nel “villaggio Italia”. L’occupazione non è durata molto, ma la propaganda ha funzionato. Con un nemico così prossimo, per la Lega di Rosarno è stato un gioco da ragazzi crescere e radicarsi. Perché secondo i responsabili del partito, qui il problema principale sono i lavoratori africani. Non certo le ’ndrine, non il potere dei padrini che soffoca l’intera filiera dell’agroindustria sui cui si regge la città della piana di Gioia Tauro. Un settore economico strategico per tutta l’area, fortemente condizionato dall’influenza della criminalità. Il dato emerge dalle decine di indagini dell’antimafia di Reggio Calabria, che negli anni ha spiccato mandati di cattura per numerosi imprenditori e ottenuto sequestri di terreni e aziende agricole.

È proprio nell’ambito dell’agroindustria che Gioffrè muove i primi passi, giovanissimo. Classe ’81, a soli 19 anni costituisce la Agri 2000. Davanti al notaio, oltre a lui si presenta come fondatore della cooperativa sociale anche Giuseppe Artuso. Nel 2011 le cimici degli investigatori lo intercettano mentre parla con un amico. È Biagio Delmiro, affiliato al clan Pesce e condannato a 10 anni per mafia. Delmiro e Artuso discutono di latitanti. Di più: parlano del fuggitivo all’epoca più ricercato d’Italia, Francesco Pesce detto “Testuni”. Una coincidenza? Non sembra proprio.

Artuso - ha raccontato un collaboratore di giustizia, affidabile secondo i detective - è insieme a Delmiro un componente dell’ala del clan che cura la custodia delle armi per i Pesce. Insomma, l’artefice del successo elettorale della Lega nella Piana di Gioia Tauro sarebbe stato per oltre dieci anni in affari con l’armiere di una delle più potenti cosche della ’ndrangheta. Non solo. Secondo gli investigatori, «il nipote di Artuso è tale Berrica, uomo a disposizione della famiglia Pesce». Va detto che Artuso non è mai stato condannato per mafia, né è mai finito in una retata contro la cosca Pesce. C’è però un dettaglio che emerge dai verbali di un processo in cui tra gli imputati c’era proprio Delmiro. Il 24 luglio 2012, al tribunale di Palmi viene chiamato a testimoniare Artuso. Prima che inizi la deposizione, il pubblico ministero gli dice: «La devo avvisare che lei è indagato per favoreggiamento della cosca Pesce». Dunque Artuso, per lo meno fino a cinque anni fa, era sospettato di aver aiutato la ’ndrangheta. La vicenda non ha avuto finora uno sbocco processuale, ma aggiunge un indizio ulteriore sulla vicinanza a certi ambienti dell’uomo con cui Gioffrè ha fondato una cooperativa ortofrutticola, la Agri 2000, chiusa per decisione del ministero dello Sviluppo economico nel 2013, dopo tredici anni di attività svolta senza mai depositare un bilancio. Ambienti, quelli dell’agroindustria calabrese infiltrata dalla ’ndrangheta, di cui fa parte anche un altro personaggio legato nel business al capo della Lega di Rosarno.

In una seconda azienda, infatti, oltre ad Artuso e Gioffrè troviamo anche Antonio Francesco Rao. Si chiama O.p. Citrus Esperidio, una “organizzazione di produttori” agricoli con sede nel paese della Piana. Fino alla data di chiusura, avvenuta meno di un anno fa, il presidente del consiglio di amministrazione era Rao, presente anche all’atto di fondazione dell’impresa al fianco di Gioffrè e Artuso. Il nome di Rao, classe ’53, compare spesso negli atti giudiziari. In particolare nell’operazione Arca, quella sulla spartizione tra le cosche degli appalti per l’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Ebbene, in quei documenti Rao è indicato come uno dei presenti all’incontro con un’ex superlatitante, Gregorio Bellocco, al vertice dell’omonima famiglia alleata dei Pesce. Ma c’è di più. Dai bilanci della Citrus Esperidio emergono i nomi di alcuni soci del consorzio. Tra questi c’è la Clemkiwi dello stesso Antonio Rao, che dunque non era solo un manager dell’azienda. E c’è anche La Rosarnese, tra i cui fondatori spicca il nome di Vincenzo Cacciola, membro di una famiglia che, secondo il pentito Vincenzo Albanese, è un vero e proprio clan vicino alla cosca Bellocco.

È dunque questo il contesto in cui Gioffrè, il leghista della Piana, l’artefice dell’exploit elettorale di Salvini a Rosarno, ha mosso i primi passi da imprenditore. Seppure senza mai inciampare in ostacoli giudiziari, restano scolpiti negli atti le frequentazioni e la contiguità dei suoi partner d’affari con il male peggiore della Calabria, la ’ndrangheta. Una puzza di commistioni tra impresa e mafia dalla quale Salvini non ha ancora preso le distanze. O meglio: dal palco di Pontida, il ministro dell’Interno ha lodato l’antimafia che lavora lontana dai riflettori. Ha ricordato il magistrato Rosario Livatino, il giudice ragazzino ucciso dalle cosche nel ’90. E citato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino come gli esempi da seguire. Poi ha chiuso con uno slogan, uno dei suoi: per i mafiosi, ha urlato, «la pacchia è finita». Varrà anche per i partner d’affari dei leghisti calabresi?


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