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martedì 23 luglio 2019

Petizione e Mozione di Sfiducia a Salvini , Firma anche Tu

Petizione e Mozione di Sfiducia a Salvini , Firma anche Tu


Mozione di sfiducia a Salvini. Ora Civati & co. lanciano la petizione contro il ministro
L’iniziativa contro il leader della Lega è stata lanciata dal fondatore di Possibile
 insieme a Beatrice Brignone

"Crediamo che la misura sia definitivamente colma, chiediamo perciò ai deputati e ai senatori della Repubblica di presentare e votare in Parlamento una mozione di sfiducia individuale nei confronti del ministro dell'Interno Matteo Salvini".

Così Giuseppe Civati, su Facebook, annuncia di aver aderito alla petizione (l’ennesima) contro il leader della Lega, lanciata da Beatrice Brignone, segretaria di Possibile, il partito politico (l’ennesimo a sinistra) fondato proprio dall’ex dem nel 2015 dopo la rottura insanabile – e tuttora non sanata – con Matteo Renzi e il Pd.

Civati, poi scrive, di aver sposato la causa lanciata dalla sua segretaria insieme ai compagni di partito Andrea Maestri ed Elly Schlein, oltre a Luca Pastorino di Liberi Uguali. Ma con loro, al momento, ci sono altre 5.554 persone. Obiettivo fissato a quota 7.500.

Bene, scommettiamo che anche al raggiungimento eventuale delle 7.500 firme il tutto altro non sarà che un buco nell’acqua? Per non parlare poi dell'ingenerosa proporzione tra 7.500 e gli 11.020.224 di voti presi (tra Camera e Senato) dalla Lega alle elezioni del 4 marzo.

La petizione contro Salvini
Ecco cosa si legge nell’appello su change.org contro il numero uno del Carroccio, nonché vicepremier e ministro dell’Intero: "Matteo Salvini si è reso responsabile di un conflitto istituzionale senza precedenti con gli altri poteri e istituzioni dello Stato (Presidente della Repubblica e Magistratura) sul tema dell'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale e dei reati d'odio". Poi: "Particolarmente censurabile, per la violazione patente e flagrante del principio di non refoulement (non respingimento) di cui all'art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 sulla protezione dei rifugiati, si configura la condotta serbata dal Ministro nella vicenda Aquarius e, da ultimo, nella vicenda Diciotti, che hanno visto impedito, ritardato o ostacolato l'approdo nel porto sicuro più vicino di persone vulnerabili (bambini, donne incinte, persone malate o ferite)".

E ancora: "Parimenti grave si palesa l'ordine di chiusura dei porti alle navi delle Ong, che ostacola, impedisce o ritarda l'esercizio di un diritto fondamentale, quello di asilo, sancito dall'art. 10 comma 3 della Costituzione italiana. Altresì, costituiscono un punto di insanabile rottura del patto sociale che lega i cittadini della Repubblica tra loro e nei confronti delle istituzioni democratiche, le gravissime affermazioni dello stesso ministro sui cittadini italiani di etnia rom".

Perciò, "chi riveste ruoli istituzionali deve essere fedele alla Costituzione e alla Repubblica e non può, né direttamente né indirettamente, diffondere idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero istigare a commettere atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi". Tanto premesso, le cittadine e i cittadini sottoscrittori della presente petizione, chiedono ai deputati e ai senatori della Repubblica di presentare e votare in Parlamento una mozione di sfiducia individuale nei confronti del ministro dell'Interno Matteo Salvini”.

FIRMA QUI  :
  https://www.change.org/p/i-deputati-e-i-senatori-della-repubblica-chiediamo-una-mozione-di-sfiducia-per-matteo-salvini


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lunedì 22 luglio 2019

G8: parla il papà di Carlo Giuliani

G8: parla il papà di Carlo Giuliani


“Vi racconto quel giorno in cui i Carabinieri uccisero mio figlio”,
 parla il papà di Carlo Giuliani a 17 anni dal G8
Giuliano Giuliani, padre di Carlo, racconta a TPI di quel 20 luglio 2001 in cui il figlio 23enne moriva per un colpo di pistola sparato con l’arma di ordinanza dal carabiniere Mario Placanica

Di Lara Tomasetta 

“La polizia venne a prenderci alle 11 di sera e ci portò in Questura. Lì ci dissero che nostro figlio Carlo era morto. Era lui il ragazzo ucciso negli scontri. Ma loro lo sapevano già da tempo”.


Il 20 luglio 2001, in piazza Alimonda, quella piazza rettangolare tagliata da due lingue di strada, moriva Carlo Giuliani, 23 anni, durante i giorni di guerriglia urbana in cui si trasformò il G8 di Genova. A ucciderlo, un colpo di pistola sparato con l’arma di ordinanza dal carabiniere Mario Placanica. I giudici stabilirono che Placanica aveva sparato per legittima difesa e il procedimento aperto nei suoi confronti fu archiviato nel 2003.

Giuliano Giuliani, padre di Carlo Giuliani, racconta a TPI di quei tragici giorni di 17 anni fa che hanno segnato la storia recente del nostro paese a partire da giovedì 19 luglio sino a domenica 22 luglio 2001, contestualmente allo svolgimento della riunione del G8.

“Avevo sentito Carlo intorno alle tre di pomeriggio, era in piazza Manin, gli avevo raccomandato di stare attento, mi disse ‘stai tranquillo’. Poi più niente. Mi aveva raccontato di aver già assistito a scene di violenza sempre in piazza Manin: c’era stato un intervento molto brutto da parte di un reparto di polizia su un gruppo di manifestanti che erano addirittura l’esempio massimo del pacifismo, l’ala cattolica del movimento no-global, quelli incapaci di manifestare alcun atteggiamento violento. Eppure vennero picchiati duramente, senza nessuno motivo”, 
racconta Giuliano.

“Fu forse la cosa più brutta fatta dalla Polizia nella giornata di venerdì”, prosegue Giuliano. “Perché invece gli atti che poi portarono progressivamente all’appesantimento della vicenda, fino all’omicidio di Carlo, furono compiuti da indegni reparti dei Carabinieri con cariche violente e ingiustificate nei confronti dei manifestanti”.

Qui il papà di Carlo tiene a precisare: “Dico indegni perché mi sorregge una sentenza della Corte di Cassazione genovese che relativamente al processo contro 25 manifestanti accusati di associazione per delinque finalizzata alla devastazione e al saccheggio, alla fine ne ha assolti 15, e per altri 10 ha disposto una riduzione della pena. Verrà scritto che il loro reato era stato prevalentemente di resistenza a pubblico ufficiale. Avevano resistito a cariche violente, indiscriminate, e ingiustificate di un reparto di Carabinieri. Naturalmente nessun reparto dei Carabinieri
 è stato incriminato per gli atti commessi”.

Giuliano va avanti nel racconto di quella tragica giornata: “Nel corso del pomeriggio io e mia moglie avevamo sentito che il clima si stava facendo man mano più pesante, ma dalle informazioni che trapelavano in tv non si capiva bene, lo capimmo dopo, sulla base della documentazione che ci diedero. L’informazione che per la gran parte era ruffiana al servizio del potere, parlava solo di manifestanti violenti, nemmeno una volta ha parlato di Carabinieri violenti”.

“Dopo la telefonata delle tre eravamo ancora lì ad aspettarlo”, ricorda Giuliano.

“Rispetto a quanto si è detto, mio figlio non andava in giro incappucciato, aveva indossato il cappuccio per ripararsi da quei maledetti seimila candelotti lacrimogeni col gas. Ci sono scene in cui si vede Carlo che cerca di difendere se stesso e gli altri dall’attacco più bestiale che sia stato fatto da un reparto dei Carabinieri contro un corteo autorizzato che non aveva fatto assolutamente niente”.

La mattina del 20 luglio ci furono i primi cortei della giornata, che cominciarono senza violenze. Poi la situazione cambiò in fretta: iniziarono a verificarsi degli incidenti e gli scontri tra manifestanti e polizia si fecero molto duri. Le immagini riprese in quei momenti, e in generale nei giorni del G8, furono trasmesse da molte televisioni in giro per il mondo, anche perché mostravano episodi di reazioni molto dure della polizia contro i manifestanti.


“Mio figlio è morto perché vittima di chi voleva eliminare un progetto che dava fastidio, questa è la verità”, ripete Giuliano che dopo 17 anni, e vari procedimenti archiviati, è ancora deciso nel far emergere la verità su quei giorni.

“Genova è stata gestita nel modo peggiore, o nel modo migliore, dipende dai punti di vista. L’obiettivo che si erano preposti era quello di distruggere quel movimento che dava grande fastidio perché aveva grandissime idee, quello lo hanno realizzato e raggiunto. Lo hanno raggiunto perché sono riusciti a far passare l’idea – tramite un’informazione che ha fatto abbastanza schifo in molti aspetti – che davvero ci fossero i violenti. E così hanno convinto l’opinione pubblica. Mentre al più i violenti potevano essere pochi gruppi di imbecilli con dentro un po’ di poliziotti e carabinieri in borghese, che hanno rotto e spaccato le cose per avallare la repressione del movimento vero”.

Dalle ricostruzioni di quei giorni emerse che le forze di sicurezza si trovarono in grande difficoltà nel gestire la situazione, sia causa della disorganizzazione che della conformazione della città di Genova, intersecata da strade spesso strette e ripide. Poliziotti e carabinieri furono anche accusati di aver lasciato liberi i vandali e di aver attaccato i grossi cortei più pacifici.

“Ricordiamocelo sempre, l’operazione più schifosa non fu nemmeno il massacro di quegli innocenti alla Diaz, ma il tentativo dei più alti vertici della Polizia di insinuare che i ragazzi fossero colpevoli di terrorismo. Fu il tentativo di far introdurre nella scuola le molotov da un sottoposto, con l’intenzione di far condannare i ragazzi che erano dentro”.

“In questi anni mi sono battuto molto per far emergere la verità ma è stata una lotta impari perché ho dovuto fronteggiare magistrati assolutamente inadeguati che hanno deciso l’archiviazione”,
 ripete Giuliano.

“Non ignoro che Enrico Zucca, Cardona Albini e Petruzzella si sono occupati delle inchieste sulla scuola Diaz e su Bolzaneto, anche a rischio della propria esistenza. Questi magistrati hanno sconfitto il primo giudizio emesso nel 2008, che definiva quelle alla Diaz ‘perquisizioni legittime’ e Bolzaneto ‘distribuzione di caramelle e cioccolatini’. Sono ricorsi in appello e poi in Cassazione, fino ad arrivare a dire che alla Diaz si è commessa una delle più grandi porcherie di questo Paese, una vera ‘macelleria messicana’”.

“C’era la voglia da parte del governo di destra di sconfiggere questa opera, questo movimento”, insiste Giuliano.

C’è una telefonata incredibile tra alti ufficiali dei Carabinieri – che poi è stata resa pubblica – nella quale uno dice: ‘ci avete garantito quel reparto (parla della folgore) e i due alti ufficiali si dicono ‘no, stanno discutendo perché se escono quelli non si sa che ca**o succede. Quindi lo sapevano che all’interno delle cosiddette ‘forze dell’ordine’, c’era della gente pronta
 a picchiare e non a fare ordine pubblico”.

Poi Giuliano conclude: “Io continuo a cercare di spiegare alla gente che le istituzioni sono una cosa seria e importante, quello che rovina le istituzioni sono gli individui inadeguati che occupano posti di comando e sono quelli che bisogna riuscire a cacciare via”.

“L’errore più grosso che possiamo fare è generalizzare, i termini collettivi cerco di non usarli più”. 

A 17 anni di distanza, rimangono diversi dettagli poco chiari, tra cui due particolarmente importanti: gli agenti sul posto tentarono un goffo depistaggio delle indagini? E come venne ferito esattamente Carlo Giuliani?

Nessun ufficiale è stato indagato o processato per la conduzione dell’azione in piazza Alimonda o per il presunto depistaggio delle indagini. Nel 2011 la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha assolto completamente il governo da tutte le accuse di aver contribuito indirettamente alla morte di Giuliani.

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Soldi russi alla Lega, ecco i documenti che svelano le bugie di Salvini

Soldi russi alla Lega, ecco i documenti che svelano le bugie di Salvini


Soldi russi alla Lega, ecco i documenti che svelano le bugie di Salvini
Dopo l'incontro al Metropol di Mosca la trattativa di Gianluca Savoini per finanziare il partito è andata avanti per mesi.

La trattativa per finanziare la Lega con soldi russi non è finita il 18 ottobre 2018. È proseguita anche dopo l'incontro nella hall dell'hotel Metropol, a Mosca, di cui avevamo scritto in esclusiva cinque mesi fa. L'Espresso, in edicola da domenica 21 luglio, pubblica i documenti esclusivi della proposta commerciale indirizzata a Rosneft dieci giorni dopo il summit di affari e politica in cui era presente Gianluca Savoini, ex portavoce e uomo di assoluta fiducia del ministro Matteo Salvini. Le condizioni indicate nella proposta, preparata da una banca d'affari londinese di cui riveliamo il nome, ricalcano esattamente quelle di cui hanno discusso Savoini e gli altri interlocutori al tavolo del Metropol.

C'è di più. Grazie ad altri documenti, L'Espresso è in grado di svelare che la negoziazione è andata avanti almeno fino a febbraio, a tre mesi dalle elezioni europee stravinte dalla Lega di Salvini. Lo prova una nota interna di un'altra società di Stato russa, Gazprom, e la risposta inviata direttamente a Savoini dalla banca londinese rappresentata al tavolo di Mosca dall'avvocato Gianluca Meranda. In questa risposta, Meranda cita esplicitamente Eni come compratore finale della maxi fornitura petrolifera, allegando una lettera di referenza commerciale della società di Stato italiana.

Eni ci ha fatto sapere “di non aver preso parte in alcun modo a operazioni volte al finanziamento
di partiti politici».

Savoini, Meranda, Rosneft e Gazprom non hanno invece risposto alle domande de L'Espresso. I documenti in nostro possesso rendono però inverosimile la versione di Savoini, secondo cui quella riunione del Metropol è stato
 «solo un incontro casuale in cui la politica non c’entra nulla, i soldi alla Lega neppure».

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Salvini: I 49 milioni da restituire allo Stato sono diventati 18

Il pagamento dilazionato concordato riduce il costo reale per il partito di Salvini.  Lo rivela la pubblicazione online del bilancio lega debito dilazionato e ridotto...


I 49 milioni da restituire allo Stato sono diventati 18
Il pagamento dilazionato concordato riduce il costo reale per il partito di Salvini. 
Lo rivela la pubblicazione online del bilancio

lega debito dilazionato e ridotto

di ETTORE LIVINI e MATTEO PUCCIARELLI

I 49 milioni che la Lega deve restituire allo Stato si sono ridotti a 18,4. Il miracolo finanziario è fotografato dal bilancio 2018 del Carroccio ed è figlio dell'accordo con la procura di Genova del settembre 2018 che permette di restituire la somma del vecchio finanziamento pubblico in 75 anni in comode rate da 600mila euro l'anno a interessi zero. Il valore dello sconto è misurato al centesimo nei conti del partito di Matteo Salvini: "L'importo originale di 48.969.617 oggetto del provvedimento penale - recita il fascicolo - è stato iscritto alla voce altri debiti al valore attualizzato di 18.421.587,67 milioni" al netto dei 3,35 milioni "già sequestrati sui conti correnti della Lega Nord". Tradotto in soldoni: il pagamento dilazionato e senza alcun interesse riduce il costo reale per la Lega (ai valori di oggi) di oltre 30 milioni.

La pubblicazione online dei bilanci della Lega è caduta nei giorni caldi dell'affare Russia. Proprio Matteo Salvini aveva detto "i bilanci sono pubblici, non c'è un rublo" e in effetti entrate "strane" non ce ne sono - ammesso che esista qualcuno così spericolato da inserire un eventuale finanziamento illecito dentro un bilancio ufficiale. Ma detto questo, si può vedere come ormai la transizione tra Lega Nord e nuova Lega è ormai per buona parte completata, 
anche se poi la sede è sempre quella di via Bellerio.

Andando con ordine, la "Lega Nord per l'Indipendenza della Padania" chiude il 2018 con un disavanzo di esercizio di 16,5 milioni di euro. Il motivo è appunto l'inserimento alla voce "altri debiti" dei 18,4 milioni. Se non ci fosse stata la zavorra dei soldi da restituire allo Stato, sarebbe stato un anno da incorniciare, con utili per 2,5 milioni di euro. Sono state fatte due assunzioni (i 7 dipendenti sono diventati 9), in cassa ci sono 875 mila euro. "L'esercizio 2018 è stato caratterizzato dal robusto incremento del consenso sul territorio che ha garantito al partito un sensibile incremento proventi attivi". Le 81 mila scelte del 2 per mille hanno fruttato circa un milione di euro. Fondamentali poi sono i contributi degli eletti di Camera, Senato e dei territori: valgono 7,2 milioni di euro. Ciliegina sulla torta, 100mila euro arrivati da Vaporart, società che opera nel settore delle sigarette elettroniche premiato dal governo con un condono inserito nel milleproroghe.  Il nuovo movimento "Lega per Salvini premier" - il cui segretario è Roberto Calderoli - ha messo insieme 2 milioni di euro grazie al 2 per mille, 390 mila euro arrivano dalle contribuzioni di eletti e altre persone giuridiche (come la Confagricoltura Roma, che dona 25 mila euro), 
mentre i dipendenti sono passati da 2 a 3.



Come è successo? Il Carroccio ha semplicemente applicato la funzione matematica dell’«attualizzazione»: con una serie di coefficienti standard è possibile stabilire come il valore d’una somma di denaro cambierà nel tempo, e in particolare di determinare «ad oggi» quanto valgono flussi finanziari che si materializzeranno in futuro.

È evidente che i 49 milioni di euro, da restituire senza pagare «interessi», perdono valore via via che passano gli anni. E le formule fissate e utilizzabili legalmente anche secondo l’Organismo italiano di contabilità, consentono di ricalcolarli «ad oggi» come se valessero poco più di 18. L’elemento cruciale resta il tasso zero, sebbene fonti della Guardia di finanza si tengano lontane dall’utilizzo di questo termine: «Quella che sta avvenendo in Liguria – spiegano – non è una vera rateizzazione, ma una particolare forma esecutiva d’un sequestro giudiziario cautelare (il denaro viene incamerato prima che diventi definitiva la confisca, per evitare che nel frattempo sparisca del tutto, ndr). E in procedure del genere i tassi d’interesse non sono contemplati».
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Firmate contro il ministro della Paura Inesistente.
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sabato 20 luglio 2019

Condannata l’Italia per tortura alla Diaz ed al G8 di Genova

Condannata l’Italia per tortura alla Diaz ed al G8 di Genova



La Corte di Strasburgo condanna l’Italia per tortura per i fatti della Diaz al G8 di Genova
Secondo i giudici, è stato violato l’articolo 3 della convenzione europea dei diritti umani sul “divieto di tortura e di trattamenti disumani o degradanti”

Le ferite di Genova

Mancava poco a mezzanotte quando il primo poliziotto colpì Mark Covell con una manganellata sulla spalla sinistra. Covell cercò di urlare in italiano che era un giornalista, ma in pochi secondi si trovò circondato dagli agenti in tenuta antisommossa che lo tempestarono di colpi. Per un po’ riuscì a restare in piedi, poi una bastonata sulle ginocchia lo fece crollare sul selciato.

Mentre giaceva con la faccia a terra nel buio, contuso e spaventato, si rese conto che i poliziotti si stavano radunando per attaccare l’edificio della scuola Diaz, dove 93 ragazzi si erano sistemati per passare la notte. Mark sperò che rompessero subito la catena del cancello, così forse l’avrebbero lasciato in pace. Avrebbe potuto alzarsi e raggiungere la redazione di Indymedia dall’altra parte della strada, dove aveva passato gli ultimi tre giorni scrivendo articoli sul G8 e sulle violenze della polizia.

Proprio in quel momento un agente gli saltò addosso e gli diede un calcio al petto con tanta violenza da incurvargli tutta la parte sinistra della gabbia toracica, rompendogli una mezza dozzina di costole. Le schegge gli lacerarono la pleura del polmone sinistro. Covell, che è alto 1,73 e pesa meno di 51 chili, venne scaraventato sulla strada. Sentì ridere un agente e pensò che non ne sarebbe uscito vivo.

Mentre la squadra antisommossa cercava di forzare il cancello, per ingannare il tempo alcuni agenti cominciarono a colpire Covell come se fosse un pallone. La nuova scarica di calci gli ruppe la mano sinistra e gli danneggiò la spina dorsale. Alle sue spalle, Covell sentì un agente che urlava “Basta! Basta!” e poi il suo corpo che veniva trascinato via.

Intanto un blindato della polizia aveva sfondato il cancello della scuola e 150 poliziotti avevano fatto irruzione nell’edificio con caschi, manganelli e scudi. Due poliziotti si fermarono accanto a Covell, uno lo colpì alla testa con il manganello e il secondo lo prese a calci sulla bocca, spaccandogli una dozzina di denti. Covell svenne.

Non dimenticare
Ci sono diversi buoni motivi per non dimenticare cos’è successo a Mark Covell quella notte a Genova. Il primo è che fu solo l’inizio. A mezzanotte del 21 luglio 2001 i poliziotti occuparono i quattro piani della scuola Diaz imponendo il loro particolare tipo di disciplina ai suoi occupanti e riducendo i dormitori improvvisati in quella che in seguito un funzionario di polizia ha definito “una macelleria messicana”. Poi quegli stessi agenti e i loro colleghi incarcerarono illegalmente le vittime in un centro di detenzione che diventò un luogo di terrore.

Il secondo motivo è che, sette anni dopo, Covell e i suoi compagni aspettano ancora giustizia. Il 14 luglio 2008 quindici poliziotti, guardie penitenziarie e medici carcerari sono stati condannati per il loro ruolo nelle violenze. Ma nessuno sconterà la pena. In Italia gli imputati non vanno in prigione fino alla conclusione dell’ultimo grado di giudizio, e le condanne per i fatti di Genova cadranno in prescrizione l’anno prossimo. I politici che all’epoca erano responsabili della polizia, delle guardie penitenziarie e dei medici carcerari non hanno mai dovuto dare spiegazioni.

Le domande fondamentali su come tutto ciò sia potuto accadere rimangono senza risposta e rimandano al terzo e più importante motivo per ricordare Genova. Questa non è semplicemente una storia di poliziotti esaltati. Sotto c’è qualcosa di più grave e preoccupante.

Questa storia può essere raccontata solo grazie al duro lavoro coordinato da un pubblico ministero appassionato e coraggioso, Enrico Zucca. Con l’aiuto di Covell e di una squadra di magistrati, Zucca ha raccolto centinaia di testimonianze e analizzato cinquemila ore di video e migliaia di fotografie. Tutte insieme raccontano una storia cominciata proprio mentre Covell giaceva a terra sanguinante.

Come porci
I poliziotti irruppero nella Diaz. Alcuni gridavano “Black bloc! Adesso vi ammazziamo”. Ma si sbagliavano di grosso se credevano di dover affrontare i black bloc che avevano scatenato i disordini in alcune zone della città durante le manifestazioni di quel giorno. La scuola era stata messa a disposizione dal comune di Genova a dei ragazzi che non avevano nulla a che fare con gli anarchici: avevano perfino organizzato un servizio di sicurezza per accertarsi che i black bloc non potessero entrare nello stabile.


Uno dei primi ad accorgersi dell’irruzione fu Michael Gieser, un economista belga di 35 anni che si era appena messo il pigiama e stava facendo la fila davanti al bagno con lo spazzolino in mano. Gieser crede nel dialogo e in un primo momento si diresse verso gli agenti dicendo: “Dobbiamo parlare”. Vide i giubbotti imbottiti, gli sfollagente, i caschi e le bandane che nascondevano i volti dei poliziotti, cambiò idea e scappò di corsa per le scale.

Gli altri furono più lenti. Erano ancora nei sacchi a pelo. I dieci spagnoli accampati nell’atrio della scuola si svegliarono sotto i colpi dei manganelli. Alzarono le mani in segno di resa, ma altri poliziotti cominciarono a picchiarli in testa, provocando tagli e ferite e fratturando il braccio a una donna di 65 anni. Nella stessa stanza alcuni ragazzi erano seduti davanti al computer e mandavano email a casa. Tra loro c’era Melanie Jonasch, 28 anni, studentessa di archeologia a Berlino, che si era offerta di lavorare nella scuola e non aveva neppure partecipato ai cortei.

Melanie non riesce ancora a ricordare cosa accadde. Ma molti testimoni hanno raccontato che i poliziotti l’aggredirono e la colpirono alla testa con tanta violenza che perse subito conoscenza. Quando cadde a terra, gli agenti la circondarono continuando a picchiarla e a prenderla a calci, sbattendole la testa contro un armadio e alla fine lasciandola in una pozza di sangue. Katherina Ottoway, che vide la scena, ricorda: “Tremava tutta. Aveva gli occhi aperti ma rovesciati all’insù. Pensai che stesse morendo, che non sarebbe sopravvissuta”.

Nessuno dei ragazzi che erano al piano terra sfuggì al pestaggio. Come ha scritto Zucca nella sua requisitoria: “Nell’arco di pochi minuti, tutti gli occupanti del piano terra furono ridotti all’impotenza. I gemiti dei feriti si univano agli appelli a chiamare un’ambulanza”. Per la paura, alcune vittime persero il controllo dello sfintere. Poi gli agenti si diressero verso le scale.

Nel corridoio del primo piano trovarono un piccolo gruppo di persone, tra cui Gieser, che stringeva ancora il suo spazzolino: “Qualcuno suggerì di sdraiarsi, per dimostrare che non facevamo nessuna resistenza, così mi sdraiai. I poliziotti arrivarono e cominciarono a picchiarci, uno dopo l’altro. Io mi riparavo la testa con le mani e pensavo: ‘Devo resistere’. Sentivo gridare ‘basta, per favore’ e lo ripetevo anch’io. Mi faceva pensare a quando si sgozzano i maiali. Ci stavano trattando come animali, come porci”.

I poliziotti abbatterono le porte delle stanze che si affacciavano sui corridoi. In una trovarono Dan McQuillan e Norman Blair, arrivati in aereo da Stansted, vicino Londra, per manifestare a favore di “una società libera e giusta dove la gente possa vivere in armonia”, spiega McQuillan. Avevano sentito la polizia al piano terra e insieme a un amico neozelandese, Sam Buchanan, avevano cercato di nascondersi con le loro borse sotto dei tavoli in un angolo di una stanza buia. Una decina di agenti fece irruzione nel locale e li illuminò con una torcia. McQuillan scattò in piedi, alzò le mani e cominciò a ripetere “Calma, calma”, ma non servì a fermare i poliziotti. McQuillan ne uscì con un polso rotto. “Sentivo tutto il loro veleno e il loro odio”, ricorda Norman Blair.

Gieser era in corridoio: “Intorno a me era tutto coperto di sangue. Un poliziotto gridò ‘Basta!’ e per un attimo sperammo che tutto sarebbe finito. Ma gli agenti non si fermarono, continuarono a picchiare di gusto. Alla fine ubbidirono all’ordine, ma erano come dei bambini a cui si toglie un giocattolo contro la loro volontà”.

Ormai c’erano poliziotti in tutta la scuola. Picchiavano e davano calci. Secondo molte vittime c’era quasi del metodo nella loro violenza: gli agenti pestavano chiunque gli capitasse a tiro, poi passavano alla vittima successiva lasciando a un collega il compito di continuare a picchiare la prima. Sembrava importante che tutti fossero pestati a sangue. Nicola Doherty, un’assistente sociale di Londra di 26 anni, racconta che il suo compagno, Richard Moth, si sdraiò sopra di lei per proteggerla. “Sentivo i colpi sul suo corpo, uno dopo l’altro. I poliziotti si allungavano per raggiungere le parti del mio corpo che erano rimaste scoperte”. Nicola cercò di proteggersi la testa con il braccio. Le ruppero il polso.

Un crescendo di violenza
Un gruppo di uomini e donne fu costretto a inginocchiarsi in un corridoio in modo che i poliziotti potessero colpirli più facilmente sulla testa e sulle spalle. Daniel Albrecht, 21 anni, studente di violoncello a Berlino, fu colpito così violentemente che dovettero operarlo per fermare l’emorragia cerebrale. Fuori dall’edificio, i poliziotti tenevano i manganelli al contrario, usando il manico ad angolo retto come un martello.

In questo crescendo di violenza ci furono momenti in cui i poliziotti scelsero l’umiliazione. Un agente si mise a gambe aperte davanti a una donna inginocchiata e ferita, si afferrò il pene e glielo avvicinò al viso. Poi si girò e fece la stessa cosa con Daniel Albrecht, che era inginocchiato lì accanto. Un altro poliziotto interruppe un pestaggio per prendere un coltello e tagliare i capelli alle vittime, tra cui Nicola Doherty. Un altro chiese a un gruppo di ragazzi se stavano bene e quando uno disse di no, partì un’altra scarica di botte.
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Alcuni riuscirono a sfuggire alla violenza, almeno per un po’. Karl Boro scappò sul tetto, ma poi fece l’errore di rientrare nella scuola e subì lo stesso trattamento degli altri. Riportò gravi lesioni alle braccia e alle gambe, una frattura cranica e un’emorragia toracica. Jaraslav Engel, polacco, riuscì a uscire dalla Diaz arrampicandosi sulle impalcature, ma fu preso sulla strada da alcuni autisti della polizia che gli spaccarono la testa, lo scaraventarono per terra e rimasero a fumare mentre il suo sangue scorreva sull’asfalto.

Due studenti tedeschi, Lena Zuhlke, 24 anni, e il suo compagno Niels Martensen, furono tra gli ultimi a essere presi. Si erano nascosti in un armadio usato dagli addetti alle pulizie all’ultimo piano. Sentirono la polizia che si avvicinava sbattendo i manganelli sulle pareti delle scale. La porta dell’armadio venne aperta, Martensen fu trascinato fuori e picchiato da una decina di poliziotti schierati a semicerchio intorno a lui. Zuhlke attraversò di corsa il corridoio e si nascose nel bagno. I poliziotti la videro, la seguirono e la trascinarono fuori per i capelli. In corridoio, l’aggredirono come cani addosso a un coniglio. Fu colpita alla testa e poi presa a calci da ogni parte finché sentì collassare la gabbia toracica. La rimisero in piedi appoggiandola a una parete dove un poliziotto le dette una ginocchiata all’inguine mentre gli altri continuarono a prenderla a manganellate. Scivolò giù, ma la picchiarono ancora: “Sembrava che si divertissero, quando gridavo di dolore sembrava che godessero ancora di più”.

I poliziotti trovarono un estintore e spruzzarono la schiuma sulle ferite di Martensen. Zuhlke venne afferrata per i capelli e scaraventata per le scale a testa in giù. Alla fine, trascinarono la ragazza nell’ingresso del piano terra, dove avevano ammassato decine di prigionieri insanguinati e sporchi di escrementi. La gettarono sopra ad altre due persone. Non si muovevano e Zuhlke, tramortita, chiese se erano vivi. Nessuno rispose e lei rimase supina. Non muoveva più il braccio destro ma non riusciva a tenere fermi il braccio sinistro e le gambe, che si contraevano convulsamente. Il sangue le gocciolava dalle ferite alla testa. Un gruppo di poliziotti le passò accanto: uno dopo l’altro si sollevarono le bandane che gli coprivano il volto e le sputarono in faccia.

Mussolini e Pinochet
Perché dei rappresentanti della legge si comportarono con tanto disprezzo della legge? La risposta più semplice può essere quella che ben presto venne urlata dai manifestanti fuori dalla Diaz: “Bastardi!”. Ma stava succedendo qualcos’altro, qualcosa che emerse più chiaramente nei giorni seguenti.

Covell e decine di altre vittime dell’irruzione furono portati all’ospedale San Martino, dove i poliziotti camminavano su e giù per i corridoi, battendo il manganello sul palmo delle mani, ordinando ai feriti di non muoversi e di non guardare dalla finestra, lasciandoli ammanettati. Poi, senza che fossero stati medicati, li spedirono all’altro capo della città nel centro di detenzione di Bolzaneto, dove erano trattenute decine di altri manifestanti, presi alla Diaz e nei cortei.

I primi segnali che c’era qualcosa di più grave possono sembrare banali. Alcuni poliziotti avevano vecchie canzoni fasciste come suoneria del cellulare e parlavano con ammirazione di Mussolini e Pinochet. Diverse volte ordinarono ai prigionieri di gridare “Viva il duce” e usarono le minacce per costringerli a intonare canzoni fasciste: “Uno, due, tre. Viva Pinochet!”.

Condannata l’Italia per tortura alla Diaz ed al G8 di Genova


Le 222 persone detenute a Bolzaneto furono sottoposte a un trattamento che in seguito i pubblici ministeri hanno definito tortura. All’arrivo furono marchiati con dei segni di pennarello sulle guance e molti furono costretti a camminare tra due file di poliziotti che li bastonavano e li prendevano a calci. Una parte dei prigionieri fu trasferita in celle che contenevano fino a 30 persone. Qui furono costretti a restare fermi in piedi davanti al muro, con le braccia in alto e le gambe divaricate. Chi non riusciva a mantenere questa posizione veniva insultato, schiaffeggiato e picchiato. Mohammed Tabach, che ha una gamba artificiale e non riusciva a sopportare la fatica della posizione, crollò. Fu ricompensato con due spruzzate di spray al pepe e, più tardi, un pestaggio particolarmente feroce.

Norman Blair ricorda che mentre era in piedi nella posizione che gli avevano ordinato una guardia gli chiese: “Chi è lo stato?”. “La persona davanti a me aveva risposto ‘Polizei’, così detti la stessa risposta. Avevo paura che mi pestassero”.

Stefan Bauer osò dare un’altra risposta: quando una guardia che parlava tedesco gli chiese di dove era, rispose che veniva dall’Unione europea e aveva il diritto di andare dove voleva. Lo trascinarono fuori, lo riempirono di botte e di spray al pepe sulla faccia, lo spogliarono e lo misero sotto una doccia fredda. I suoi vestiti furono portati via e dovette tornare nella cella gelida con un camice d’ospedale.

Tremanti sui pavimenti di marmo delle celle, i detenuti ebbero solo qualche coperta, furono tenuti svegli senza mangiare e gli venne negato il diritto di telefonare e a vedere un avvocato. Sentivano pianti e urla dalle altre celle.

Uomini e donne con i capelli rasta vennero brutalmente rasati. Marco Bistacchia fu portato in un ufficio, denudato, costretto a mettersi a quattro zampe e ad abbaiare. Poi gli ordinarono di gridare “Viva la polizia italiana!”. Singhiozzava troppo per ubbidire. Un poliziotto anonimo ha dichiarato al quotidiano La Repubblica di aver visto dei colleghi che urinavano sui prigionieri e li picchiavano perché si rifiutavano di cantareFaccetta nera.

Minacce di stupro
Ester Percivati, una ragazza turca, ricorda che le guardie la chiamarono puttana mentre andava al bagno, dove una poliziotta le ficcò la testa nel water e un suo collega maschio le urlò: “Bel culo! Ti piacerebbe che ci infilassi dentro il manganello?”. Alcune donne hanno riferito di minacce di stupro, anale e vaginale.

Perfino l’infermeria era pericolosa. Richard Moth, che aveva difeso con il suo corpo la compagna, era coperto di tagli e lividi. Gli misero dei punti in testa e sulle gambe senza anestesia. “Fu un’esperienza molto dolorosa e traumatica. Dovevano tenermi fermo con la forza”, ricorda. Tra le persone condannate il 14 luglio ci sono anche alcuni medici della prigione.

Tutti hanno dichiarato che non fu un tentativo di costringere i detenuti a confessare, ma solo un esercizio di terrore. E funzionò. Nelle loro testimonianze, i prigionieri hanno descritto la sensazione d’impotenza, di essere tagliati fuori dal mondo in un luogo senza legge e senza regole. La polizia costrinse i prigionieri a firmare delle dichiarazioni. Un francese, David Larroquelle, ebbe tre costole rotte perché non voleva firmare. Anche Percivati si rifiutò: gli sbatterono la faccia contro la parete dell’ufficio, rompendole gli occhiali e facendole sanguinare il naso.

All’esterno arrivò una versione dei fatti molto distorta. Il giorno dopo il pestaggio Covell riprese conoscenza all’ospedale e si accorse che una donna gli stava scuotendo la spalla. Pensò che fosse dell’ambasciata inglese, poi quando l’uomo che era con lei cominciò a scattare foto si rese conto che era una giornalista. Il giorno dopo il Daily Mail pubblicò in prima pagina una storia inventata di sana pianta secondo cui Covell aveva contribuito a pianificare gli scontri (ci sono voluti quattro anni perché il Mail si scusasse e risarcisse Covell per aver violato la sua privacy).

Mentre alcuni cittadini britannici venivano pestati e trattenuti illegalmente, i portavoce del primo ministro Tony Blair dichiararono: “La polizia italiana doveva fare un lavoro difficile. Il premier ritiene che lo abbia svolto”.

Le forze dell’ordine italiane raccontarono ai mezzi d’informazione una serie di menzogne. Perfino mentre i corpi insanguinati venivano trasportati fuori dalla Diaz in barella, i poliziotti raccontavano ai giornali che le ambulanze allineate nella strada non avevano nulla a che fare con l’incursione, che le ferite dei ragazzi erano precedenti all’incursione, e che l’edificio era pieno di estremisti violenti che avevano attaccato gli agenti.

Il giorno dopo, le forze dell’ordine tennero una conferenza stampa in cui annunciarono che tutte le persone presenti nell’edificio sarebbero state accusate di resistenza aggravata e associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio. Alla fine, i tribunali italiani hanno respinto tutti i capi di accusa contro ogni singolo imputato, Covell compreso. I tentativi della polizia d’incriminarlo per una serie di reati gravissimi sono stati definiti “grotteschi” dal pubblico ministero Enrico Zucca.

Nella stessa conferenza stampa, furono esibite quelle che la polizia descrisse come armi: piedi di porco, martelli e chiodi che gli stessi agenti avevano preso in un cantiere accanto alla scuola, strutture in alluminio degli zaini, 17 macchine fotografiche, 13 paia di occhialini da nuoto, 10 coltellini e un flacone di lozione solare. Mostrarono anche due bombe molotov che, come ha concluso in seguito Zucca, erano state trovate in precedenza dalla polizia in un’altra zona della città e introdotte alla Diaz alla fine del blitz.

Queste bugie facevano parte di un più ampio tentativo di inquinare i fatti. La notte dell’incursione, un gruppo di 59 poliziotti entrò nell’edificio di fronte alla Diaz dove c’era la redazione di Indymedia e dove, soprattutto, un gruppo di avvocati stava raccogliendo le prove degli attacchi della polizia ai manifestanti. Gli agenti andarono nella stanza degli avvocati, li minacciarono, spaccarono i computer e sequestrarono i dischi rigidi. Portarono via tutto ciò che conteneva fotografie e filmati.

Poiché i magistrati rifiutavano di incriminare gli arrestati, la polizia riuscì a ottenere l’ordine di espellerli dal paese, con il divieto di tornare per cinque anni. In questo modo i testimoni furono allontanati dalla scena. In seguito i giudici hanno giudicato illegali tutti gli ordini di espulsione, così come i tentativi d’incriminazione.

Nessuna spiegazione
Zucca ha lottato per anni contro le bugie e gli insabbiamenti. Nella memoria che accompagna la richiesta di rinvio a giudizio ha dichiarato che tutti i dirigenti coinvolti negavano di aver avuto un ruolo nella vicenda: “Neppure un funzionario ha ammesso di aver avuto un ruolo sostanziale di comando per qualsiasi aspetto dell’operazione”. Un alto funzionario ripreso in video sulla scena ha dichiarato che quella notte era fuori servizio ed era passato alla Diaz solo per accertarsi che i suoi uomini non fossero feriti. Le dichiarazioni della polizia cambiavano continuamente ed erano contraddittorie, e sono state platealmente smentite dalle prove fornite dalle vittime e da numerosi video. “Nessuno dei 150 poliziotti presenti all’operazione ha fornito informazioni precise su un singolo episodio”.

Senza Zucca, senza la determinazione dei magistrati italiani, senza l’intenso lavoro di Covell per trovare i filmati sull’incursione alla Diaz, la polizia avrebbe potuto sottrarsi alle sue responsabilità e ottenere false incriminazioni e pene detentive contro decine di vittime.


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Francesco Saverio Borrelli, addio al capo del pool Mani Pulite

Francesco Saverio Borrelli, addio al capo del pool Mani Pulite



Poi la battaglia contro le leggi-vergogna di Berlusconi: “Resistere, resistere, resistere...”

Napoletano, appassionato di lirica, era entrato in magistratura nel luglio 1955 legando la sua carriera a Milano dove, salvo un anno a Bergamo, aveva svolto ogni tipo di funzione: pretore, giudice fallimentare e poi civile, pubblico ministero, procuratore capo dal 1988 fino alla nomina di procuratore generale nel 1999




“Resistere, resistere, resistere come su un’ultima, irrinunciabile linea del Piave”. Era il 12 gennaio 2002, il Procuratore generale di Milano Francesco Saverio Borrelli, morto oggi a Milano all’età di 89 anni, inaugurava così il suo ultimo anno giudiziario, prima di andare in pensione. Erano passati dieci anni dall’inizio dell’inchiesta Mani pulite, che da procuratore capo aveva sostenuto, e sei mesi dal giuramento del secondo governo di Silvio Berlusconi, che alle elezioni, con la Casa delle libertà, aveva sfiorato il 50% dei voti (49,56% alla Camera). Entrato in magistratura nel luglio 1955, ha legato la sua carriera a Milano dove, salvo un anno a Bergamo, aveva svolto ogni tipo di funzione: pretore, giudice fallimentare e poi civile, pubblico ministero, procuratore capo dal 1988 fino alla nomina di procuratore generale nel 1999.

Il regista del pool di Mani pulite – Il primo processo importante per Borrelli fu stato quello sull’omicidio di Luigi Calabresi, ma il suo nome è  legato alla stagione di Tangentopoli: è il regista del pool formato da Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo e Gerardo D’ambrosio. Al sanguigno Di Pietro affianca prima l’intellettuale Colombo e poi il “dottor sottile” Davigo, sotto il coordinamento di Gerardo D’Ambrosio. Una squadra arricchita da Ilda Boccassini, Tiziana Parenti, Paolo Ielo, Armando Spataro e Francesco Greco, attuale capo della procura milanese. Pur essendo inizialmente scettico sulla possibilità che l’inchiesta potesse andare molto oltre un semplice processo a Mario Chiesa per la tangente incassata come presidente del Pio Albergo Trivulzio, il procuratore formò una vera e proprio squadra d’attacco.

L’inchiesta, invece, si allargherà e, soprattutto, salirà di livello: tra gli imputati eccellenti Bettino Craxi, Arnaldo Forlani, Silvio Berlusconi, quest’ultimo raggiunto nel 1994 dal celebre invito a comparire mentre, presidente del consiglio in carica, presiedeva un vertice Onu a Napoli. Del pool Borrelli condividerà anche l’accusa immancabile di essere una “toga rossa“. Per la cronaca, aveva aderito a Magistratura democratica degli albori, nei lontani anni Sessanta, ma l’aveva rapidamente abbandonata, respinto da posizioni che giudicava estremiste. Ultima scelta politica conosciuta del magistrato che si definiva “liberale crociano”, il sostegno pubblico a Walter Veltroni per le primarie del Pd del 2007, quando ormai la toga era appesa al chiodo da anni. L’anno prima, Guido Rossi lo aveva chiamato al vertice dell’ufficio inchieste della Figc, ma l’avventura fu breve. A marzo del 2007 divenne presidente del Conservatorio di Milano.

L’appello contro le “leggi vergogna” – L’appello del 2002 del magistrato cadeva in un momento di scontro feroce fra magistratura e politica. L’ondata di consenso popolare verso le toghe milanesi si era esaurita da un pezzo e i partiti ne avevano approfittato per innescare un moto contrario: la normalizzazione a colpi di leggi che minavano i processi per corruzione (condivise dalle precedenti maggioranze di centrosinistra). Il patron della Fininvest asceso a Palazzo Chigi si preparava ad aprire la stagione delle “leggi vergogna”, o “ad personam”, e annunciava riforme della giustizia pensate per mettere il freno alle toghe. Intanto il suo governo aveva varato un provvedimento che riduceva la scorta ad alcuni magistrati impegnati in processi su mafia e corruzione. In quel clima, alla cerimonia a Palazzo di giustizia i magistrati, che si erano presentati in toga nera in segno di protesta, applaudirono fragorosamente all’esortazione di Borrelli. I rappresentanti di Forza Italia, fra i quali Fabrizio Cicchitto, abbandonarono la sala per protesta. “Non era certo un invito ai colleghi, ma alla cittadinanza, alla collettività”, dirà anni più tardi in un’intervista (in Mani pulite, di Gianni Barbacetto, Peter Gomez, Marco Travaglio, Chiarelettere 2012), “perché si scuota e reagisca a questo dilagante sgretolamento morale… che purtroppo coinvolge anche molti che dovrebbero dare il buon esempio dall’alto”.

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Chi sa di avere scheletri nell’armadio, si tiri indietro – Tra le dichiarazione celebri dell’ex magistrato c’è quella rilasciata il 20 dicembre 1993, prima delle elezioni che avrebbero portato Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi. Suonava come un messaggio ai partiti: “Chi sa di avere scheletri nell’armadio, vergogne del passato, apra l’armadio e si tiri da parte. Tiratevi da parte prima che arriviamo noi”. A un mese dal voto viene arrestato Paolo Berlusconi; a pochi giorni dal responso delle urne vengono eseguiti alcuni ordini di custodia cautelare, tra i destinati c’è Marcello Dell’Utri. Nel novembre 1994 dalla procura di Milano parte l’avviso di garanzia a mezzo stampa per il premier Berlusconi che era una conferenza sulla criminalità.

La tesi con Calamandrei e l’amore per la lirica – Napoletano, appassionato di lirica e cavalli, Borrelli era diplomato da privatista in pianoforte e con la moglie era un habitué della Prima alla Scala. Non è un caso che la sua biografia si intitoli “Borrelli: direttore d’orchestra”. Tra le sue passioni anche la montagna. In una vecchia intervista diceva di sé: “Sono un mediocre pianista, un pessimo cavaliere, un pessimo alpinista, un dilettante di professione, ma mi piacciono tante cose che non faccio in tempo ad essere professionista in tutto”. Figlio e nipote di magistrati, Borrelli si laureò in giurisprudenza a Firenze con una tesi dal titolo “Sentimento e sentenza”, relatore il professore Piero Calamandrei. Il padre, Manlio,fu  il primo presidente della Corte d’appello di Milano, ma Borrelli non ha occupato mai quella poltrona. Sposato con Maria Laura e padre di due figli, Federica e Andrea: Ques’ultimo giudice civile a Milano.

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giovedì 18 luglio 2019

Andrea Camilleri


Andrea Camilleri, lo scrittore siciliano divenuto famoso per la collana di libri sulle avventure del commissario Montalbano


Andrea Camilleri, 
lo scrittore siciliano divenuto famoso per la collana di libri 
sulle Avventure del commissario Montalbano
Ultimo Saluto al Cimitero Acattolico di Roma


L'infanzia di Camilleri
“Diceva Montaigne che anche se sali sul più alto degli alberi, sempre il culo fai vedere”, aveva commentato in occasione della pubblicazione del suo centesimo libro lo scrittore siciliano, nato il 6 settembre 1925, a Porto Empedocle, la ‘Vigàta’ dei suoi romanzi.

Il padre Giuseppe era ispettore del lavoro portuale, un fascista convinto che aveva fatto la marcia su Roma e svolgeva le funzioni di segretario del fascio nella sua città. “Prima di sposarlo, mia madre detestava mio padre. Ma cambiò subito idea sul suo conto. Scoprì un uomo leale, ironico, coraggioso, generoso. Insomma: Montalbano. È stata mia moglie, che l’ha conosciuto bene, a farmelo notare: “ 'Montalbano è per tre quarti tuo papà, e tu hai scritto una sua lunga biografia'. Ha ragione”, racconta lo scrittore che all’epoca era un giovane balilla.

Il trasferimento a Roma e l'ingresso in Rai
Camilleri, però, già nel 1942, ripudia il fascismo e diventa comunista. Nel 1947 pubblica racconti di terza pagina sui quotidiani L’Ora di Palermo e L’Italia socialista di Roma e alcune delle sue poesie vengono inserite da Giuseppe Ungaretti in un’antologia di poeti. Due anni dopo vince la borsa di studio per l'Accademia nazionale d'Arte drammatica e si trasferisce a Roma. In questi anni vince l’ambito premio Saint Vincent e si iscrive all’Università, alla facoltà di Lettere, ma non consegue la laurea. Viene espulso dal presidente dell’Accademia, Silvio D’Amico, per un episodio che ha sempre voluto tenere nascosto e, poi, va a lavorare all’Enciclopedia dello Spettacolo. Nel 1954 vince un concorso in Rai ma vi entra solo 3 anni dopo perché, dice lui, “è comunista”. A 33 anni, inizia la carriera di regista teatrale e televisivo e per la tivù di Stato si occupa della produzione di sceneggiati di successo come il Tenente Sheridan e Le indagini del Commissario Maigret.

“Ho lavorato per trent'anni in Rai. È un'azienda misteriosa dalla quale non riesci mai a liberarti. Vedere in difficoltà l'azienda dove hai lavorato per tanti anni, ti addolora e ti fa rabbia”, dirà Camilleri che, più volte, ha criticato la deriva commerciale della tivù di Stato che, secondo lui, ha abdicato al ruolo di servizio pubblico. Nel 1958 è il primo a portare in Italia il teatro dell'assurdo di Beckett con Finale di partita, prima al teatro dei Satiri di Roma e poi in televisione con Adolfo Celi e Renato Rascel. Dalla fine degli anni ’60 insegna, per dieci anni al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, mentre dal 1977 al 1997 torna, sempre come docente, all'Accademia nazionale d'Arte drammatica. Luca Zingaretti, che prima di interpretare il commissario Montalbano fu suo allievo, ricorda così quel periodo: “Si parlava un po’ di tutto. Era un eccezionale affabulatore, molto bravo a trovare il dettaglio originale nel gesto quotidiano. Magari ci inchiodava due ore sull’uomo che aveva appena visto prendere il cappuccino. Che poi è anche la grandezza del suo modo di scrivere”.

Andrea Camilleri, lo scrittore siciliano divenuto famoso per la collana di libri sulle avventure del commissario Montalbano


Il successo del Commissario Montalbano
Camilleri, però, inizialmente trova difficoltà ad affermarsi come scrittore. Il suo primo romanzo, Il Corso delle cose, è datato 1978 e viene rifiutato da ben dieci editori.“Alla fine ne feci una riduzione per uno sceneggiato televisivo e a quel punto un editore di libri a pagamento (la Lalli ndr) lo pubblicò in cambio di una pubblicità sui titoli di coda”, racconta. Dagli anni ’80 in poi, Camilleri non si ferma più: “Fu – spiega - come togliere un tappo. Scrissi immediatamente il secondo romanzo che inviai a Garzanti: Un filo di fumo. E poi un saggio, La strage dimenticata che Elvira Sellerio pubblicò. Da allora passarono otto anni senza che io scrivessi più nulla". Il successo letterario di Camilleri arriva solo nel 1994 quando pubblica La forma dell’acqua, primo libro giallo che vede come protagonista il commissario Montalbano. Nel 2016, con L’altro capo del filo, dedicato ancora una volta a Montalbano, ha raggiunto (e già superato) i 100 libri pubblicati e, solo per la Sellerio, ha venduto oltre 18 milioni di copie.

In poco tempo Montalbano è diventato un caso anche alla tivù, grazie all’attore Luca Zingaretti che, fisicamente, non ha nulla a che vedere con il commissario che interpreta. Camilleri rivela di non aver mai avuto un’idea precisa di quale aspetto potesse avere l’eroe dei suoi romanzi finché un incontro particolare gli dà la giusta illuminazione. “Avevo appuntamento a Cagliari con un professore di letteratura di quella università, Giuseppe Marci, che mi aveva invitato a chiudere un suo corso. Eravamo d’accordo che per farsi riconoscere avrebbe avuto con sé una copia del Birraio di Preston. Bene, sceso all’aeroporto ho avuto la sorpresa di imbattermi in Montalbano col Birraio sottobraccio. Era proprio lui. Lo scrissi a Carlo Esposti, il produttore della serie tv: peccato che un attore così somigliante non esista”, confessa sconsolato lo scrittore siciliano. Camilleri, parlando del possibile epilogo dell'epopea di Montalbano, in una recente intervista ha rivelato:"MHo scritto la fine dieci anni fa, ho trovato la soluzione che mi piaceva e l'ho scritta di getto, non si sa mai se poi arriva l'Alzheimer. Montalbano non morirà. Nessuna autopsia. Ma non potrà sbucare da nessun'altra parte... Se ne andrà, sparirà ma senza morire".

L'impegno politico di Camilleri
Camilleri, negli ultimi della sua vita, accresce il suo impegno politica a sinistra. Nel 2008 partecipa manifestazione "No Cav Day", organizzata dai girotondi a piazza Navona e, dopo le Politiche del 2013, lancia una raccolta firme per impedire a Berlusconi di entrare in Senato. L’anno successivo manifesta la volontà di candidarsi alle Europee con la lista Tsipras ma, poi, ritira la sua candidatura per dissidi interni. Tali e tante sono le critiche che lo scrittore siciliano rivolge al fondatore di Forza Italia che Berlusconi una volta sbotta dicendo: “Egregio signor Andrea Camilleri, perché lo ha fatto? Perché non si è accontentato della fama travolgente che sta gratificando la sua opera letteraria, dei suoi deliziosi gialli che fanno la fortuna degli editori che li pubblicano
 per guadagnarci soldi a palate?”.

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ANDREA CAMILLERI, VITTORIO FELTRI NELLA BUFERA
Dopo gli insulti choc registrati sui social, a scatenare il caos è stato Vittorio Feltri. Il direttore Libero ha elogiato lo scrittore, ma non ha speso propriamente parole al miele per Il commissario Montalbano: «[…] L’arte non ha bandiere, e quella di Camilleri va riconosciuta per quello che è: mirabile. Non tutta, ma quasi. Oggi, di fronte alla probabilmente prossima fine, riconosciamo allo scrittore ogni merito tecnico e a lui ci inchiniamo. L’unica consolazione per la sua eventuale dipartita è che finalmente non vedremo più in televisione Montalbano, un terrone che ci ha rotto i coglioni almeno quanto suo fratello Zingaretti, segretario del Partito Democratico, il peggiore del mondo». Rabbia Pd, ecco l’attacco di Emanuele Fiano: «L’editoriale su Camilleri è una barbarie. Le sue parole rivelano un’assoluta mancanza di rispetto e di umanità e sono del tutto inaccettabili». Queste, invece, le parole del grillino Nicola Morra: «Camilleri mi diventa simpatico a prescindere: mi sento orgogliosamente terrone, orgogliosamente rompicoglioni». 
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