Il 16 agosto del 1924, 95 anni fa, a Riano in provincia di Roma viene trovato il cadavere di Giacomo Matteotti, il deputato socialista rapito il 10 giugno precedente dalle squadracce fasciste e probabilmente ucciso lo stesso giorno. Ricordarlo oggi è un esercizio di dolore eppure necessario nella democrazia che è nata dopo quella terribile fase della Storia di questo Paese. E ricordarlo è inevitabile, per certi versi, viste le moltissime (troppe) analogie sparse qui e lì ogni giorno che ci ricordano come il fascismo sia dietro l’angolo delle aggressioni, dell’intolleranza sui social e nella vita reale, nell’atteggiamento razzista e nelle frasi di alcuni ministri e politici pericolosamente simili a quelle dell’epoca in cui visse Giacomo Matteotti e nella quale fu “fatto sparire”. Fu lui stesso a comprendere la portata della sua denuncia in Parlamento quando in un duro intervento elencò i brogli che avevano portato al risultato elettorale, con la vittoria schiacciante del fascismo. E aveva detto e fatto anche dell’altro, come la ricostruzione del primo anno del regime, pubblicando il dossier “Un anno di dominazione fascista”. Ce lo ha ricordato su Internazionale Christian Raimo. Raccogliere dati con pazienza e puntualità certosina e poi renderli noti è un’attività che non va bene in dittatura e in quel momento storico si poteva essere duramente puniti per quel tipo di attività. E’ probabilmente per questa ragione che nella Costituzione antifascista nata dopo la guerra si è pensato e scritto un articolo ad hoc, l’articolo 21, che tutela la libertà di espressione anche quella sgradita e scomoda. Più diventa difficile difendere quell’articolo, più il ricordo di Giacomo Matteotti è indispensabile.
Biografia
Giacomo Matteotti nasce a Fratta Polesine (Rovigo) il giorno 22 maggio 1885. Entrambi i genitori sono di modeste origini, che a prezzo di duri sacrifici e grande capacità di risparmio e oculati investimenti, riescono in breve tempo ad arrivare a possedere una vasta proprietà terriera nella bassa valle del fiume Po. Cresce nella sua terra e, proprio perché colpito dalle umili condizioni di vita della popolazione polesana, si avvicina alla politica molto giovane, quando ha solo 16 anni.
Forte su di lui è l'influenza esercitata dalla madre - Giacomo ha solo 17 anni quando perde il padre - mentre il fratello maggiore Matteo l'aveva avviato appena tredicenne alle idee del socialismo, spinto anche da un forte sentimento di solidarietà verso i contadini del Polesine, condannati come detto ad una vita di estrema miseria e sfruttamento.
Da adolescente frequenta il ginnasio di Rovigo,
dove tra i suoi compagni di classe si trova Umberto Merlin, suo futuro avversario politico.
Nel 1907 consegue la laurea in giurisprudenza presso l'università di Bologna. Tre anni dopo è eletto al consiglio provinciale di Rovigo; da qui in poi Giacomo Matteotti inizierà il suo percorso politico che lo porterà ad assumere una dedizione a tempo pieno in questo ambito. Matteotti è un socialista riformista: non crede nei cambiamenti violenti e rivoluzionari, bensì in quelli più democratici da realizzarsi gradualmente nelle amministrazioni locali e nell'impegno sindacale. Dimostra di essere un amministratore competente e un abile organizzatore sia nell'attività politica,
sia nel suo pubblico servizio.
Allo scoppio della prima guerra mondiale, si schiera contro la partecipazione italiana e , venendo
Durante la prima guerra mondiale è un convinto sostenitore della neutralità italiana, lanciando appelli alla pace: questa posizione porta Matteotti a essere minacciato dai nazionalisti, poi per un discorso tenuto al consiglio provinciale di Rovigo, contro la guerra (1916)
viene condannato e internato in Sicilia.
Sempre nel 1916 sposa Velia, la donna che gli darà tre figli. Nel 1918 nasce il figlio Giancarlo il quale seguirà le orme del padre Giacomo, dedicandosi all'attività politica.
Terminato il conflitto mondiale continua a dedicarsi all'attività politica: i suoi successi lo portano ad essere eletto deputato al parlamento italiano nel 1919. Matteotti ha così l'opportunità di denunciare la violenza squadrista del fascismo (fin dai suoi inizi), subendo di conseguenza attacchi dalla stampa nonché aggressioni alla sua persona. Nel 1921 accade che a Castelguglielmo venga sequestrato e duramente percosso all'interno di un camion di fascisti.
Costretto dalle violenze abbandona il polesano per trasferirsi a Padova: anche qui subisce le persecuzioni del fascismo tanto che nella notte del 16 agosto sfugge a stento ad un agguato.
Matteotti prosegue la sua attività di denuncia accusando i governi Giolitti e Bonomi di tolleranza e complicità con i fascisti. Denuncia inoltre all'estero il fascismo come imminente pericolo non solo italiano, che si sta affacciando sulla realtà storica europea.
Nel 1923 Matteotti scrive "Un anno di dominazione fascista", con cui dimostra i fallimenti fascisti sui temi del risanamento economico e finanziario e della restaurazione dell'ordine e dell'autorità dello Stato. L'accusa al governo fascista è quella di aver sostituito in dodici mesi l'arbitrio alla legge, asservito lo Stato ad una fazione, e di avere diviso il paese in dominatori e sudditi. Un anno dopo l'Italia si trova alla vigilia delle ultime elezioni e il polesano denuncia l'assenza di legalità e democrazia dal clima politico. Nel corso della campagna elettorale subisce aggressioni da parte dei fascisti prima a Cefalù e poi a Siena.
Il 30 maggio 1924 in Parlamento si vota la convalida degli eletti formalizzando la legalità e la regolarità delle elezioni: Matteotti con un celebre discorso contesta i risultati, accusando i fascisti di brogli elettorali; denunzia inoltre le violenze contro i cittadini e contro i candidati socialisti, comunisti, repubblicani e liberali progressisti. E' al termine di questo celebre discorso, dopo le congratulazioni dei suoi compagni di partito, che Giacomo Matteotti risponde con le parole: "Io il mio discorso l'ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me".
Sul giornale "Il Popolo d'Italia" compaiono le parole di Mussolini, il quale scrive che si rende necessario "dare una lezione al deputato del Polesine"; l'invito del leader fascista viene prontamente accolto. Il giorno 10 giugno 1924 a Roma, sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, un gruppo di fascisti aggredisce e rapisce Giacomo Matteotti, mentre si stava recando in Parlamento. Caricato a forza su una macchina, viene ripetutamente percosso e infine ucciso a coltellate. Il corpo verrà occultato e ritrovato in stato di decomposizione in un boschetto di Riano Flaminio (la macchia della Quartarella) solo sei giorni più tardi.
Il delitto Matteotti susciterà una profonda emozione nazionale, costituendo di fatto la crisi più grave affrontata dal fascismo, che ad ogni modo riuscirà ad imporre alla nazione la sua dittatura per il ventennio successivo.
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Un coraggioso militante socialista, qual è stato Giacomo Matteotti, che per l’impegno “professionale” profuso nella difesa della democrazia e degli interessi dei gruppi sociali più deboli è, com’è appropriato affermare, caduto sul campo per mano della violenza fascista.
Giacomo Matteotti nacque il 22 maggio del 1885 a Fratta Polesine; nel 1919 venne eletto al Parlamento nelle liste del Partito Socialista Italiano e fu confermato parlamentare nel 1921 e nel 1924. Nel 1922 venne espulso dal partito, per la fermezza con cui, negli anni Venti, egli si era opposto alla decisione della direzione massimalista del PSI di inoltrare domanda di ammissione del partito a fare parte della Terza Internazionale, motivando il suo dissenso per via del fatto che l’”Internazionale” poneva ai partiti che ne chiedevano l’adesione condizioni tanto rigide da cancellarne ogni autonomia decisionale.
Per questo motivo, la maggioranza massimalista chiese l’espulsione dei riformisti (tra i quali era schierato Matteotti), per indisciplina rispetto alle decisioni del partito; espulsione poi ratificata dal XIX Congresso che il partito tenne a Roma nel 1922. All’espulsione, Matteotti rispose, assieme a Filippo Turati, con la fondazione, il 4 ottobre dello stesso anno, del Partito Socialista Unitario, dal cui Congresso costitutivo, svoltosi a Milano, venne eletta la prima Direzione e, come segretario, lo stesso Matteotti.
Dall’interno del nuovo partito, il neosegretario Matteotti proseguì le sue battaglie di denuncia dei brogli elettorali, della violenza e degli atti di corruzione del fascismo, con un impegno ed una forza che gli sono valsi l’attribuzione dell’epiteto di “Tempesta”, da parte dei suoi compagni di partito. La gravità delle denunce valse a costargli la vita; su mandato morale di Mussolini (come dimostra il discorso che il capo del fascismo tenne alla Camera il 3 gennaio del 1925 – per porre termine alle critiche che il delitto era valso a sollevare nei confronti del Governo – in chiusura del quale, con spregiudicatezza, non esitò ad affermare che se il fascismo “è stato ed è un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere. Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità, perché questo clima storico, politici e morale io l’ho creato”. Insomma, anche negli ambienti informati sulla storia d’Italia della prima metà del secolo scorso, ad essere prevalentemente conosciute sarebbero le ragioni più immediate dell’uccisione di Matteotti, ma non quelle che dovrebbero indurre tutti a ricordare il martire come fulgido esempio di responsabile difensore della democrazia.
Il 10 giugno del 1924 (lo stesso giorno nel corso del quale Mussolini dal balcone di Piazza Venezia informava il popolo italiano dell’entrata in guerra contro Francia e Inghilterra), mentre si recava in Parlamento a denunciare le “tangenti” corrisposte dalla compagnia americana “Sinclair Oil” al regime fascista, Matteotti fu rapito da un gruppo di sicari fascisti (Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveruomo) che lo attendeva a bordo di una vettura in prossimità del lungotevere Arnaldo da Brescia, per poi ucciderlo ed occultarne il cadavere, facendo sparire la borsa che il parlamentare socialista portava con sé e tutti i
documenti compromettenti in essa contenuti.
Aver sacrificato la vita per la causa delle democrazia e dei gruppi sociali più deboli, è valso a Matteotti solo l’oblio; nell’Italia di oggi, come giustamente osserva Sergio Luzzato nella Prefazione al libro “Matteotti contro il fascismo” (contenente i due discorsi pronunciati dal martire, rispettivamente, il 31 gennaio 1921 e il 30 maggio 1924, contro i brogli elettorali, il primo, e contro la violenza delle squadre fasciste, il secondo), “il nome di Giacomo Matteotti vive unicamente nelle toponomastiche: Viale Matteotti, Corso Matteotti, Largo Matteotti, Piazza Matteotti, non c’è quasi città italiana dove non si sia voluto rendere omaggio, da subito dopo la Liberazione, alla figura del martire antifascista”; oppure, nella migliore delle ipotesi, come afferma Walter Veltroni nell’Introduzione al libro di Giacomo Matteotti “Un anno di dominazione fascista” (pubblicato clandestinamente nel 1924, per denunciare come l’arbitrio fascista si fosse sostituito alla legge), se si affrontasse, in ambiente mediamente informato sulla storia italiana, il tema “vita e morte di Giacomo Matteotti”, quasi sicuramente si finirebbe col “parlare più della seconda che della prima”, nonostante si sappia ormai quasi tutto della morte e quasi niente della sua vita da parlamentare.
Se non fosse per i postini e per le tragiche modalità con cui Matteotti è stato ucciso, il ricordo del martire sarebbe scomparso del tutto dalla memoria collettiva, nonostante che – come sottolinea Luzzatto – la sua figura ed il suo esempio appaiano particolarmente appropriati “per servire all’Italia contemporanea”. Perché?
Luzzatto indica due motivi che la classe politica attuale dovrebbe costantemente tenere a mente nello svolgimento del mandato ad essa conferito, quello di rappresentare il popolo italiano nell’assumere le decisioni più conformi alla soluzione dei problemi che lo angustiano: innanzitutto il “radicamento nel territorio”, col quale ogni parlamentare dovrebbe legittimare la propria candidatura a rappresentante popolare, e in secondo luogo il coraggio del quale disporre, al fine di difendere, anche al costo della vita, le istituzioni democratiche.
Il “radicamento” del quale a volte si lamenta la totale assenza, Matteotti lo interpretò – afferma Luzzatto – “in modo esemplare, dapprima quale amministratore locale di vari comuni del Polesine, poi, quale deputato di Rovigo al Parlamento nazionale”. Il “radicamento” del parlamentare Matteotti fu, oltre che economico e sociale, anche intellettuale. Sul piano economico e sociale, il deputato di Fratta Polesine non si stancò mai di denunciare le misere condizioni di vita dei braccianti del delta del Po; proprio per assolvere correttamente la sua funzione nell’illustrare le condizioni economiche e sociali del territorio che lo esprimeva come rappresentante parlamentare, allorché tornava al luogo natio, Matteotti non mancò mai di studiare ed approfondire la storia locale, senza escludere il costante aggiornamento sui problemi nazionali. A dimostrazione del senso di responsabilità con cui Matteotti svolgeva il suo ruolo di parlamentare possono ben valere le parole con le quali un suo compagno di partito lo descriveva, sottolineando che il deputato socialista “passava ore e ore nella biblioteca della Camera a sfogliare libri, relazioni, statistiche, da cui attingeva i dati che gli occorrevano per lottare con la parole e con la penna, badando di restare sempre sulle cose”.
Nell’Italia a noi contemporanea, osserva Luzzatto, l’immagine di un rappresentante del popolo impegnato a studiare i problemi della circoscrizione elettorale che lo esprime “può apparire tanto eccentrica da riuscire surreale”. Come possono gli attuali rappresentanti del popolo essere sempre portatori dei problemi economici e sociali delle loro circoscrizioni elettorali, se le regole in base alle quali vengono espressi fanno spesso strame del principio del radicamento territoriale?
La democrazia è fondata sul suffragio universale, e il suo corretto funzionamento pone il problema del come distribuire i parlamentari tra i diversi territori in cui è suddiviso un Paese. Apparentemente la soluzione del problema sembra facile; ma non è così. In linea di principio, il Parlamento di una vera democrazia dovrebbe essere, al pari di una mappa geografica, una fotografia fedele degli dell’articolazione territoriale del Paese, per esprimere le criticità e le problematiche economiche e sociali di tutto l’elettorato, quindi realizzare in pieno il principio della rappresentatività di tutti gli orientamenti politici, grandi e piccoli, presenti in ogni territorio.
Esistono due sistemi di regole per risolvere il problema della distribuzione territoriale dei rappresentanti del popolo: quello proporzionale e quello maggioritario. Con il sistema proporzionale, ad ogni partito (esprimente un dato orientamento politico) è assegnato un numero di parlamentari proporzionale ai voti ricevuti dagli elettori. Per contro, con il sistema maggioritario vengono, invece, premiati i partiti maggiori assegnando loro una rappresentanza in Parlamento superiore al consenso elettorale ricevuto e, dunque, penalizzando i piccoli partiti; situazione, questa, spesso aggravata dall’introduzione di “soglie di sbarramento”, cioè di un livello al di sotto del quale l’accesso in Parlamento viene negato.
Con la scusa che il sistema proporzionale favorisca la frammentazione delle forze politiche che ostacolano la stabilità dei governi, i partiti presenti in Italia dopo la Liberazione, pur varando una Costituzione democratica tra le più avanzate del mondo, hanno teso a privilegiare l’esistenza di Parlamenti “maggioritari”, sulla scia della “famigerata” legge Acerbo che, introducendo il sistema maggioritario, aveva garantito a Mussolini, negli anni Venti, una vittoria schiacciante che assegnava al Partito Fascista i due terzi dei deputati eletti.
Come allora, anche dopo la ricostituita democrazia, grazie a regole elettorali maggioritarie, è accaduto spesso che le circoscrizioni territoriali del Paese si siano viste assegnare dei rappresentanti del tutto estranei ai territori, e perciò del tutto ignari dei problemi economici e sociali propri di ciascuno di essi. La conseguenza di ciò è stata spesso un ricorrente deradicamento territoriale dei rappresentanti del popolo, nonché una grave afflizione della democrazia, in quanto molti strati sociali del Paese sono risultati privati di una rappresentanza parlamentare dotata delle necessarie informazioni utili ai fini della formulazione di proposte adeguate alla soluzione dei loro problemi, con la determinazione e la competenza che, invece, hanno caratterizzato l’azione di Giacomo Matteotti. Si è trattato di una determinazione e competenza che, grazie allo stretto legame col territorio d’origine che esse presupponevano, hanno consentito al deputato di Fratta Polesine di “non fare sconti” a nessuno, sia quando si trattava di discutere i problemi economici e sociali del proprio territorio, sia quando si trattava di denunciare le violenze fasciste.
Ad esempio, in occasione della discussione sulla necessità di maggiori finanziamenti pubblici in edilizia scolastica, biblioteche popolari e corsi serali per lavoratori, quando il Ministro della Pubblica istruzione, Benedetto Croce, parve “discutere dei problemi della scuola restando sempre nel vago senza padroneggiare i dossier”, dallo scranno di Montecitorio – ricorda Luzzatto – il deputato di Fratta Polesine rivolgendosi all’autorevole Ministro non ebbe remore nel rispondergli per le rime: “Voi state speculando filosoficamente sulle nuvole. Qui non si viene con i libri di estetica, ma con dei programmi pratici e questi si ha il dovere di assolvere”.
Ma il meglio di sé Matteotti lo diede nel discorso tenuto alla Camera dei deputati il 30 maggio del 1924, allorché denunciò le violenze ed i brogli elettorali consumati sotto la “regia del Governo fascista” in occasione delle lezioni politiche del 5 aprile precedente. Dura e puntuale fu la sua denuncia, consapevole che avrebbe esposto a rischio la sua stessa vita. “L’elezione, secondo noi – affermò Matteotti – è essenzialmente non valida, e aggiungiamo che non è valida in tutte le circoscrizioni”: ciò perché il governo, per sua esplicita dichiarazione, considerava “le elezioni prive di valore”, in quanto “avrebbe mantenuto il potere con la forza”,
se il responso elettorale non gli fosse stato favorevole.
A fronte delle violente contestazioni indirizzategli dalla destra, dal centro e dal Presidente del Consiglio, Matteotti così concluse: “Voi dichiarate ogni giorno di volere ristabilire l’autorità dello Stato e della legge. Fatelo, se siete ancora in tempo; altrimenti voi sì, veramente, rovinate quella che è l’intima essenza, la ragione morale della Nazione. […] Voi volete cacciarci indietro. Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano […] e crediamo di rivendicarne la dignità, domandando il rinvio delle elezioni inficiate dalla violenza alla Giunta delle elezioni”. La sua richiesta di invalidare le elezioni venne respinta dalla Camera e, rivolgendosi ai suoi compagni di partito, Matteotti, presagendo la reazione di Mussolini, dichiarò: “Io, il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me”. Puntualmente, dieci giorni dopo, il gruppo di sicari della cosiddetta CEKA (la seconda polizia politica fascista, dopo l’OVRA, che Mussolini aveva creato ispirandosi alla polizia segreta sovietica) procedette al suo sequestro e alla sua successiva uccisione.
Considerato lo stato al quale è oggi ridotta la politica italiana, è giusto chiedersi, come fa Luzzatto, “se non ci sarebbe un gran bisogno, qui e adesso”, di un politico come Matteotti, della sua idea di militanza quale servizio in pro dell’interesse pubblico anziché di quello privato, nonché della sua fede nella socialdemocrazia per il futuro di un mondo “più giusto e meno diseguale”.
E’ per questo motivo che la figura di Matteotti merita di essere ricordata, non solo dai “postini” e dagli appassionati di cronaca nera, ma dall’intera società civile, perché lo si traduca in valore condiviso da tutti, riscattando la memoria del martire dall’ombra che su di essa i partiti democratici del dopoguerra, non disinteressatamente, hanno concorso a fare calare, dimenticando chi ha avuto il coraggio di sacrificare la propria vita in difesa delle democrazia.
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