giovedì 16 settembre 2010
Israele. Il «vuoto di responsabilità»
Israele. Il «vuoto di responsabilità»
Chantal Meloni http://www.nena-news.com
[da Nena news] L'esercito israeliano commette sistematicamente crimini a danno di civili palestinesi. E i responsabili rimangono impuniti. La denuncia di B'Tselem.
Il nuovo report pubblicato il 14 settembre dall’associazione israeliana B’Tselem denuncia ancora una volta i crimini dell’esercito israeliano a danno dei civili palestinesi e la sistematica assenza di accertamento delle relative responsabilità. In base ai dati forniti da B’Tselem, più di 1500 palestinesi sono stati uccisi da soldati israeliani dal 2006 al 2009; in quasi la metà dei casi si trattava di civili non prendenti parti alle ostilità [e quindi considerati come soggetti protetti ai sensi delle convenzioni di Ginevra del 1949].
Tali dati non includono le conseguenze dell’attacco militare sferrato contro la striscia di Gaza nel dicembre 2008/gennaio 2009 – operazione in codice Cast Lead, ossia Piombo Fuso – che in sole tre settimane ha causato un numero di morti quasi superiore alla somma dei quattro anni precedenti [le statistiche parlano di 1419 palestinesi uccisi] e più di 5300 feriti, di cui molti gravissimi, tra l’altro a causa dell’uso del fosforo bianco. Più dei tre quarti delle vittime di Gaza erano civili non prendenti parte alle ostilità, tra cui centinaia di donne e bambini.
Tali uccisioni e ferimenti costituiscono crimini di guerra come documentato da numerosi report indipendenti e internazionali, tra cui in particolare il lunghissimo Goldstone Report del settembre 2009, compilato su mandato dell’Onu dalla Fact Finding Mission su Gaza guidata dal giudice Richard Goldstone.
Il nuovo report di B’Tselem tuttavia si concentra non tanto sugli episodi criminosi in sé, quanto sulla mancanza di adeguate risposte sul piano investigativo/sanzionatorio. Su 148 casi, relativi all’uccisione di 288 palestinesi, denunciati da B’Tselem al procuratore israeliano negli anni 2006-2009 con istanza di apertura di un’indagine, solo in 22 casi [una piccola minoranza, il 15 per cento] vi è stato un seguito. 29 casi hanno ricevuto una risposta negativa mentre la stragrande maggioranza delle denunce [95 casi] è rimasta senza esito, tra cui alcuni casi in cui non è stata fornita alcuna informazione né risposta.
Aprire una indagine peraltro non equivale affatto a dare inizio ad un procedimento penale. Anche nei rari casi in cui il procuratore militare ordina l’apertura di un’indagine, tale decisione arriva normalmente con grande ritardo, mediamente più di un anno dopo i fatti, compromettendo l’efficacia e l’esito delle indagini. Ancora più gravi sono i ritardi una volta che l’indagine è formalmente aperta. Tornando ai 22 casi citati nel report di B’Tselem, in 13 di questi nessuna decisione sarebbe stata ancora presa [il condizionale è d’obbligo in quanto spesso le autorità israeliane omettono tout court di dare notizia alle vittime ed ai loro rappresentanti legali]; solo in due casi l’indagine si è conclusa con una decisione negativa, ossia con la esplicita chiusura del procedimento. Nei restanti casi le indagini sarebbero invece ancora in corso, sebbene appaiano arenate.
In breve, delle 22 indagini originate dai 148 casi denunciati da B’Tselem tra il 2006 e il 2009, nessuna incriminazione [e quindi nessun procedimento penale] è scaturita finora. E ciò nonostante i gravi e documentati indizi di comportamenti illeciti e commissione di crimini da parte dei soldati israeliani.
Come già messo in luce da numerose fonti, quando si tratta di accertamento della responsabilità dei militari israeliani rispetto a fatti commessi ai danni di civili palestinesi, il sistema è intrinsecamente viziato. I vizi si articolano su diversi piani: 1] natura e scopo delle indagini; 2] mancanza di indipendenza degli organi inquirenti; 3] inefficienza e inconcludenza dei procedimenti; 4] mancanza di trasparenza del sistema.
Anche di fronte a uccisioni sospette, eccessivo uso della forza o gravi abusi nei confronti dei palestinesi, le indagini si limitano normalmente ad un procedimento di tipo interno, di natura prettamente militare [il cosiddetto «operational debriefing»], il cui scopo non è affatto l’accertamento delle responsabilità penali dei soldati quanto l’individuazione di eventuali errori ed inefficienze dal punto di vista, per l’appunto, militare. Come elaborato dalla stessa corte suprema israeliana nel 2008 nel caso Al Nebari: «The main purpose of the operational probe, […] is to draw conclusions and lessons in order to prevent future failures and errors […] There is, therefore, a substantial difference between an operational probe and a criminal investigation, both at the level of purpose and at the operational level».
«Lezioni dal passato», pertanto, per migliorare la performance dell’esercito e non ripetere gli stessi errori; niente a che vedere con l’accertamento di responsabilità penali dei soldati.
Tali operational debriefings, condotti dagli stessi militari implicati nell’operazione, costituiscono normalmente l’inizio e la fine delle presunte «indagini» sull’operato dei soldati israeliani. Solo in un caso su dieci tali debriefings si concludono con una decisione di aprire una indagine [che comunque a sua volta, come si è già detto, risulta normalmente in un nulla di fatto]. Da un punto di vista penale è assolutamente improprio parlare di «procedimenti» o di «indagini» in tali casi, ed è fuorviante il fatto che le autorità israeliane lo facciano. Peraltro anche nei rarissimi casi in cui indagini sono svolte dalla polizia militare [Military Police Investigation Unit], queste sono spesso svolte in modo superficiale e limitato, accontentandosi il più delle volte delle dichiarazioni dei soldati stessi, senza l’assunzione delle testimonianze da parte delle vittime o di terzi.
Il tutto si risolve in una immunità di fatto garantita ai soldati israeliani, tendenzialmente sempre protetti nel loro operato quando impegnati in operazioni militari.
Il quadro diviene particolarmente drammatico se spostiamo l’attenzione sulle violazioni commesse a Gaza durante l’operazione Piombo Fuso. L’Assemblea generale dell’Onu, accogliendo le raccomandazioni finali del Goldstone Report, ha chiamato le autorità israeliane [e quelle palestinesi] a condurre nel giro di pochi mesi indagini «indipendenti, credibili ed in conformità con gli standard internazionali […]». A distanza di 20 mesi dalla fine dell’operazione militare il bilancio è totalmente negativo.
Il Palestinian Centre for Human Rights [Pchr], che a seguito dell’attacco su Gaza del dicembre 2008/gennaio 2009 ha presentato 490 richieste di apertura di indagini su mandato di 1046 vittime, ha recentemente pubblicato un report che ben spiega le gravi falle del sistema. Come messo in luce da Pchr, dei circa 150 procedimenti annunciati su incidenti relativi a Piombo Fuso, solo 47 sono effettivamente indagini svolte dalla polizia militare. Tra queste, ad oggi solo in tre casi risulta essere stata formulata una incriminazione a carico dei soldati israeliani A parte i numeri sparuti, anche la sostanza dei fatti sotto indagine è totalmente irrilevante rispetto alla gravità ed alla dimensione dei presunti crimini commessi: basti pensare che a fronte di migliaia di morti e feriti, nonché della distruzione sistematica di abitazioni, scuole, moschee e altre infrastrutture civili, l’unica condanna è stata emessa per il furto di una carta di credito da parte di un soldato.
Il sistema giudiziario israeliano appare sempre più come una delle rotelle dell’ingranaggio su cui la macchina dell’occupazione si fonda. Una occupazione che ricorre sempre più spesso all’uso della forza in un modo indiscriminato e sproporzionato, in contrasto con i principi fondamentali di diritto internazionale umanitario e con il rispetto del diritto alla vita dei civili palestinesi. La sistematica copertura delle responsabilità a fronte della commissione di gravi crimini è peraltro di per sé fonte di responsabilità in diritto internazionale, anche di natura penale.
Di fronte alla chiara mancanza di volontà delle autorità israeliane di condurre indagini serie e indipendenti non resta che ricorrere ai meccanismi della giustizia internazionale. In questo senso è auspicabile che il Procuratore della Corte Penale Internazionale dell’Aia, sul cui tavolo giace da oltre un anno e mezzo uno spesso fascicolo sui presunti crimini commessi in territorio palestinese, decida al più presto di aprire una indagine in merito.
Link per il report di B’Tselem:
http://www.btselem.org/English/Publications/Summaries/201009_Void_of_Responsibility.asp
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