Lettera a
Mohammed Bouazizi
Lettera a un giovane
che ha cambiato il corso della storia
La morte di Mohammed Bouazizi ha segnato l’inizio di un grande movimento mondiale, dalla Tunisia a Wall street. Un evento inatteso e ancora confuso. Ma anche solo la sua nascita è motivo di speranza, scrive Rebecca Solnit.
Caro giovane morto il quarto giorno di questo turbolento 2011, caro Mohammed Bouazizi,
ti scrivo per raccontarti un anno sorprendente, quando mancano ancora due mesi alla sua fine. Voglio raccontarti il potere della disperazione, i confini della speranza e i legami della società civile.
Vorrei che tu potessi vedere in che modo la tua piccola vita e la tua grande morte sono divenute catalizzatori della caduta di tanti dittatori in quella che ha preso il nome di primavera araba.
Oggi viviamo una sorta di autunno americano. La società civile degli Stati Uniti si è improvvisamente rimessa in moto con nuovo vigore e marciamo tutti verso un futuro che nessuno di noi immaginava quando tu, giovane venditore ambulante tunisino capace di dare tanto, e a cui invece tanto è stato tolto, ti sei bruciato vivo e sei morto tra le fiamme per protestare contro il tuo stato di povertà e umiliazione.
Ti sei dato fuoco il 17 dicembre 2010, esattamente nove mesi prima dell’inizio di Occupy Wall street. E la tua morte, due settimane dopo, ha dato inizio a eventi molto importanti. Ti sei dato fuoco perché eri senza voce, senza potere ed evidentemente senza speranza. Eppure dovevi avere ancora una piccola speranza: che la tua morte sarebbe servita a qualcosa. Pensavi che tu, che avevi così poco potere, che non potevi neanche guadagnarti da vivere o proteggere i tuoi pochi beni o essere trattato in modo giusto e corretto dalla polizia, avevi il potere di protestare.
Il sogno di molti
In realtà, come si è visto, quel tuo potere superava ogni immaginazione ed era nelle tue mani perché la tua speranza, per quanto piccola, si è trasformata nel sogno di molti, il sogno di quelli che oggi chiamiamo “il 99 per cento”.
E così la Tunisia è scoppiata e ha rovesciato il suo governo e l’Egitto si è incendiato, così come il Bahrain, la Siria, lo Yemen e la Libia dove, contrariamente alle proteste nonviolente degli altri paesi, è cominciata una guerra civile che i ribelli hanno quasi vinto dopo molti mesi di sanguinose battaglie. Chi poteva immaginare un Medio Oriente senza il Ben Ali, senza Mubarak, senza Gheddafi? Eppure eccoci qui, nel mondo inimmaginabile. Di nuovo. E praticamente ovunque.
Il Giappone è stato letteralmente scosso via dai propri piani e programmi dal terremoto e dallo tsunami dell’11 marzo e quel paese si è ritrovato a interrogarsi profondamente sui propri valori e priorità. La Cina attraversa una fase turbolenta e nessuno può dire per quanto tempo si riuscirà a contenere lo scontento della classe media repressa e quello dei più poveri e affamati. E l’India: chi può saperlo? Il governo saudita è così spaventato che ha persino concesso alcuni nuovi diritti alle donne. I siriani non sono tornati nelle loro case neanche quando l’esercito ha cominciato a sparare e a ucciderli.
In Italia ci sono state nei mesi scorsi manifestazioni che hanno raccolto un milione di persone che protestavano contro le misure di austerità. I greci, be’ se avete seguito gli ultimi avvenimenti sapete cosa hanno fatto i greci. Ho dimenticato Israele? Ci sono state enormi manifestazioni contro lo status quo economico che sono durate per tutta l’estate e sono continuate anche in autunno.
Come tu già sapevi all’inizio, tutte queste proteste hanno a che fare con l’economia. In questo anno burrascoso, la Grecia si è bruscamente ritrovata nella crisi con enormi proteste, manifestazioni, sit-in e vere e proprie forme di guerriglia urbana. Gli islandesi hanno portato avanti la loro lotta contro le banche che hanno affossato l’economia del loro paese nel 2008 e continuano a lanciare uova contro i politici. Il loro ex primo ministro potrebbe divetare il primo capo di stato a essere processato per reati connessi alla crisi finanziaria globale. I giovani spagnoli protestano dal 15 maggio.
Molte di queste rivolte hanno in comune il fatto che i partecipanti non si battono per un partito o una singola causa, ma lottano per un mondo migliore, per la dignità, il rispetto, la democrazia reale, la speranza e le opportunità, e tutti i relativi risvolti economici. I giovani spagnoli il cui futuro è stato svenduto a favore delle grandi aziende, sono stati soprannominati indignados e nella scorsa estate si sono accampati nelle piazze spagnole. Madrid occupata, come l’occupazione di piazza Tahrir, ha preceduto Occupy Wall street.
In Cile, gli studenti indignati per i costi dell’istruzione e le profonde iniquità della loro società sono in piazza da maggio e protestano in ogni modo, dai kiss-in alle occupazioni delle scuole, fino ai cortei di 150mila e più persone. Quarantamila studenti hanno sfilato contro la “riforma scolastica” in Colombia una settimana fa. E ad agosto in Gran Bretagna i giovani hanno sfogato la loro rabbia distruggendo Londra, Birmingham e decine di altre città, un evento scatenato dall’uccisione di Mark Duggan, un ventinovenne nero londinese, da parte della polizia. I giovani inglesi si erano ribellati in modo più pacifico per l’aumento delle rette scolastiche l’inverno scorso. Anche lì la situazione è senza speranza ed esplosiva, e so che capisci bene a cosa mi riferisco.
In Messico è nato un meraviglioso movimento che si è espresso con manifestazioni di massa contro la violenza dei narcos, e anche in questo caso l’evento scatenante è stata la morte di un altro giovane e il dolore di suo padre, il poeta Javier Sicilia.
Negli Stati Uniti c’è stata una grande rivolta nel Wisconsin già dallo scorso inverno, quando i cittadini hanno occupato per settimane il palazzo del parlamento a Madison. Dall’Egitto e da tutto il pianeta hanno telefonato a una pizzeria locale, ordinando da mangiare per gli occupanti. Tutti siamo collegati. E tutti osserviamo. Ed è così che il movimento Occupy ha superato i confini di Wall street rovesciandosi come una marea nel paese. Centinaia di occupazioni stanno avvenendo in tutta l’America: a Oklahoma City e Tijuana, a Victoria e Fort Lauderdale.
Il 99 per cento
We are the 99% (Siamo il 99 per cento) è il grido del movimento Occupy. Quest’estate su uno dei volantini che hanno contribuito a lanciare la protesta di Occupy Wall street erano scritte queste parole: “Noi, il 99 per cento, convochiamo un’assemblea generale aperta da tenersi il 9 agosto, alle 19.30, presso il Potato famine memorial di New York”. L’assemblea era convocata per discutere la futura occupazione del 17 settembre.
L’Irish hunger memorial, così vicino a Wall street, è un monumento dedicato al ricordo del milione di contadini irlandesi che morirono di fame durante la grande carestia che colpì l’Irlanda a metà dell’ottocento. In quegli anni l’Irlanda continuò a esportare prodotti alimentari all’estero e i proprietari terrieri continuarono ad arricchirsi. È un monumento che racconta lo sfruttamento di molti da parte di pochi e le forze che trasformarono alcuni dei nostri antenati – tra cui i quattro nonni irlandesi di mia madre – in emigranti, forze che costringono ancora oggi le persone ad abbandonare i propri campi, le case, nazioni e regioni.
La grande carestia irlandese fu un uno degli esempi più evidenti di quei disastri dell’era moderna che non sono crisi di scarsità, ma di distribuzione. Gli Stati Uniti sono oggi il paese più ricco che il mondo abbia mai conosciuto, un paese ricco di risorse naturali, oltre che di infermieri, medici, università, insegnanti, case e cibo. Per cui anche la nostra è una crisi di distribuzione.
Tutti potrebbero avere tutto ciò di cui hanno bisogno e i ricchi continuerebbero a essere abbastanza ricchi, ma tu sai che abbastanza non è un concetto accettabile per loro. Sono avidi e nei trent’anni in cui si sono accaparrati di tutto hanno strappato via le risorse minime necessarie a garantire la sopravvivenza e la dignità del resto di noi. Per questo non si poteva scegliere un luogo più adatto del monumento alla Grande carestia per l’inizio di Occupy Wall street.
Il 99 per cento, le persone che muoiono di fame durante le carestie e che perdono i mezzi di sostentamento e le proprie case quando l’economia crolla, voleva dare una risposta all’1 per cento che era stato servito così bene dall’amministrazione Bush e dall’era delle privatizzazioni selvagge che portò con sé.
Come ha scritto il mio amico Andy Kroll in un suo articolo su TomDispatch: ”L’1 per cento delle persone con i redditi più elevati ha avuto il 65 per cento della crescita complessiva dei redditi in America per gran parte del decennio” che si è appena concluso. ”Nel 2010″, ha aggiunto, “20,5 milioni di persone, pari al 6,7 per cento di tutti i cittadini statunitensi, si sono trascinati avanti con meno di 11.157 dollari per una famiglia di quattro persone, cioè con meno della metà del reddito che segna la linea di povertà”.
Non è possibile sopravvivere con meno di mille dollari al mese in questo paese, dove una visita al pronto soccorso può costarti lo stipendio di un anno, un’automobile ne costa il doppio e un anno di retta di un college privato più di quattro volte quella cifra.
Più avanti nel mese di agosto è arrivato il sito web avviato da un attivista newyorkese di 28 anni, We are the 99 percent, dove in questi giorni centinaia di persone pubblicano quotidianamente i propri ritratti fotografici. Ciascuna di queste persone racconta poi le condizioni disperate in cui si trovano, nonostante abbiano lavorato sodo e abbiano studiato tanto (spesso accumulando debiti), nonostante le promesse che gli sono state sventolate sotto gli occhi secondo cui (se avessero giocato bene le loro carte) sarebbero stati al sicuro nella loro casa e avrebbero vissuto una parte del sogno acquistato a così caro prezzo.
È un sito che ospita incubi a occhi aperti che non hanno fine, brutti sogni economici che sarebbero spazzati via da una minima redistribuzione dei redditi (anche senza eliminare i ricchi). Le persone che scrivono sul sito non chiedono lussi, ma preferirebbero semplicemente non dover morire di lavoro come è successo a tanti operai nelle fabbriche dell’ottocento, né dover vedere l’intero mondo che gli crolla intorno se si ammalano. Vogliono sopravvivere con dignità e le loro testimonianze vi spezzeranno il cuore.
Mohammed Bouazizi, tu che sei morto a 26 anni, a cui sto scrivendo questa lettera, ecco uno dei contributi più recenti a questo sito:
“Ho 26 anni. Ho un debito di 134mila dollari. Ho cominciato a lavorare a quattordici anni e lavoro a tempo pieno da quando ne ho venti. Sono un informatico e sono stato licenziato nel luglio del 2011. Sono stato FORTUNATO perché ho trovato SUBITO un nuovo lavoro: con una riduzione di stipendio e PIÙ ORE. Adesso ho scoperto che mio padre è stato licenziato la settimana scorsa, dopo 18 ANNI con lo stesso datore di lavoro. Soffro di un disturbo ossessivo-compulsivo debilitante e non posso assentarmi dal lavoro perché non potrei permettermi le rate del mutuo se non andassi al lavoro e ho paura di perdere il mio NUOVO lavoro se chiedo dei permessi!! NOI SIAMO IL 99 per cento”.
Alcune delle persone che scrivono su We are the 99% offrono almeno una vista parziale dei loro volti, ma il giovane informatico che ho appena citato tiene in mano una lettera che gli oscura il volto. La povertà oscura anche il vostro volto. Oscura i vostri talenti, il vostro potenziale, persino la voce che vi contraddistingue e se poi diventa più profonda vi sradica progressivamente con la fame e il degrado.
La povertà è il frutto dei sistemi contro i quali le persone di tutto il pianeta si stanno ribellando in questo burrascoso 2011. La Primavera araba in fondo è stata una rivolta economica. A che cosa servivano tutte quelle dittature e autocrazie se non a spremere più denaro possibile dalle popolazioni oppresse, denaro per i governanti, denaro per le multinazionali, denaro per quell’1 per cento.
“Non siamo merci nelle mani di politici e banchieri” recitava lo slogan della prima protesta studentesca convocata in Spagna quest’anno. La tua bella generazione, Mohammed Bouazizi, si è sollevata e sta trascinando con sé il resto di noi, persino negli Stati Uniti.
Il microfono del popolo
All’inizio i critici di Occupy Wall street pensavano apparentemente che il movimento fosse una lobby impegnata solo a creare un pacchetto di richieste realistiche. In altre parole, erano convinti che gli occupanti si dovessero trasformare in supplicanti che avrebbero chiesto ai potenti qualche tipo di carità, come il riscatto dei debiti accumulati per gli studi universitari. Proponevano di prendere un sogno grande come il cielo e di riempirci tante piccole bottiglie da mettere poi in vendita. O più semplicemente di schiacciare quel sogno.
Allo stesso modo, volevano che questo movimento si affrettasse a nominare dei capi, così ci sarebbe stato qualcuno da identificare e su cui indagare, da scegliere o corrompere. Ma il movimento è, alle sue radici, senza leader, un movimento anarchico catalizzato dalla grazia della società civile e dal duro lavoro della collettività. Il movimento Occupy – come molti dei movimenti che sono sbocciati in questi giorni in giro per il mondo – utilizza le assemblee generali come forma di protesta e di processo.
I partecipanti non si rivolgono alle autorità ma a loro stessi, cominciano a conoscersi, tentando di far nascere la democrazia a cui aspirano su piccola scala invece di protestare contro la sua assenza su grande scala.
Sono queste le famose assemblee generali di Occupy in cui le decisioni si prendono con il metodo del consenso e, in assenza di amplificazione (per ordine della polizia di New York City), si usa il microfono del popolo: le persone radunate in assemblea ripetono ciò che viene detto nel momento in cui viene detto, creando l’effetto di un megafono umano. A questo si accompagna un vocabolario ristretto di gesti che aiutano le persone a partecipare al complesso processo di un gruppo enorme che sta conversando.
In altre parole, il processo è anche l’obiettivo: la democrazia diretta. Nessuno te la può concedere. Viviamo la democrazia diretta nel momento stesso in cui ci ritroviamo a partecipare alla società civile come cittadini con una voce uguale. O per metterla in un altro modo: gli occupanti non chiedono che gli venga dato qualcosa ma stanno formulando qualcosa di nuovo. E il fatto che questa novità non preveda alcuna tecnologia, neanche un megafono, è già di per sé notevole nella nostra era telematica.
Sono solo persone appassionate che si riuniscono; poi Facebook, YouTube, Twitter, gli sms, le mail e i siti web diffondono le parole, insieme ad alcuni organi di stampa, in particolare l’Occupied Wall Street Journal.
La bellezza e la genialità di questo movimento in questi giorni è il fatto che abbia trovato un modo per definire i propri desideri e le proprie necessità senza costringerli dentro confini che escluderebbero automaticamente tante persone. E agendo in questo modo è riuscito a parlare a quasi tutti noi.
C’è la terribile rabbia contro l’ingiustizia economica che è condivisa dagli studenti universitari che hanno di fronte un futuro di debiti e superlavoro, così come da chi non si è neanche potuto permettere gli studi, dai lavoratori che faticano più di prima guadagnando di meno, dai molti che sono senza lavoro e con poche prospettive, dalle persone costrette ad abbandonare le proprie case per i giochetti che le banche fanno con mutui e utili azionari e da tutti quelli che subiscono la catastrofe del sistema sanitario pubblico negli Stati Uniti. E condivisa dal resto di noi, furiosi per conto loro (e anche per nostro conto).
E poi c’è la gioiosa speranza che le cose potrebbero realmente essere diverse. Questa speranza è stata soddisfatta in qualche misura dal modo in cui un’occupazione a tempo indefinito è sopravvissuta per quattro e più settimane per poi trasformarsi in centinaia di occupazioni in ogni parte del paese e in cortei in quasi mille città in giro per il mondo il 15 ottobre scorso, da Sydney a Tokyo a Santa Rosa.
Parla a nome di molti, parla per il 99 per cento e parla con chiarezza, così chiaramente che un ex marine si è presentato con un cartello scritto a mano che diceva: “È la seconda volta che combatto per il mio paese, la prima in cui so chi è il mio nemico”.
Anche il movimento contro i cambiamenti climatici si è presentato a Occupy Wall street. Quello che impedisce di agire contro i cambiamenti climatici è la stessa forza che impedisce di agire per risolvere i problemi importanti: queste azioni ridurrebbero gli utili societari. Non importa quello che ci riserva il futuro più lontano, non quando la posta in palio sono gli utili trimestrali.
Poco più di una decina di anni fa, dopo la rivolta contro le politiche economiche neoliberiste che riscosse così tanto successo a Seattle, si diffuse uno slogan che diceva: “Un altro mondo è possibile”. Personalmente lo slogan non mi ha convinta del tutto perché in luoghi e modi importanti quell’altro mondo è già qui. Tuttavia, in un video sull’occupazione di New York pubblicato su YouTube, ho visto una donna anziana con un cappello di paglia che diceva: ”Lottiamo per una società in cui ognuno sia importante”. Che bella sintesi! Riuscite a immaginare una richiesta più chiara di questa? E riuscite a immaginare modi più efficaci per togliere valore alle persone di quelli che ritroviamo nel nostro attuale sistema economico?
Qual è la tua occupazione?
Occupy Wall street. Occupare insieme. Occupare New Orleans, Portland, Stockton, Boston, Las Cruces, Minneapolis. Occupare. La parola stessa è un manifesto, una dichiarazione di posizione e allo stesso tempo una posizione. Per tante persone, in particolare per gli uomini, l’occupazione corrisponde alla loro identità e quando perdono il lavoro non diventano solo disoccupati ma non sono più nessuno.
Il movimento Occupy offre loro una nuova occupazione, un’attività che non li aiuterà a pagare le bollette, ma un lavoro che vale la pena di fare. “Ho perso il lavoro, ho trovato un’occupazione” diceva uno dei cartelli che si distingueva in mezzo ai tanti cartelli ingegnosi e spiritosi.
Esiste ovviamente un significato più oscuro della parola occupazione, come nella frase “gli Stati Uniti stanno occupando l’Iraq”. Perfino la National Public Radio, la rete delle radio pubbliche statunitensi, trasmette informazioni sull’indice Dow Jones diverse volte al giorno, come se l’ascesa e la caduta del mercato azionario non fossero state da lungo tempo sganciate dall’ascesa e dalla caduta delle misure che porterebbero realmente benessere per il 99 per cento. Una piccola parte di Wall Street, che ci ha occupato per lungo tempo come se fosse una potenza straniera, è ora occupata come se fosse un paese straniero.
Wall street è un paese straniero e forse è anche un paese nemico. E ora è occuparla. Nello stesso modo in cui i nativi americani occuparono l’isola di Alcatraz nella baia di San Francisco per 18 mesi una quarantina di anni fa, dando l’avvio a un movimento nazionale. Scegli un posto da occupare, e quando sei lì scopri un’altra occupazione, quella di membro della società civile.
A maggio, in Ohio, un gruppo di persone trasvestite da Robin Hood ha letteralmente calato un ponte mobile che avevano costruito per attraversare un “fossato” che circonda la sede centrale della Chase Bank e ha fatto irruzione nell’assemblea degli azionisti di quella banca. Più di recente quaranta Robin Hood si sono presentati in massa in canoa a una riunione delle banche specializzate nei mutui a Chicago. Le persone occupano le case che rischiano di essere espropriate dalle banche. L’esproprio da parte delle banche è, ovviamente, un modo per trasformare le persone in non occupanti.
In questo momento della storia, occupare dovrebbe essere l’occupazione di ognuno di noi.
Immagini dell’infanzia di una rivolta
Caro giovane la cui disperazione ha dato vita alla speranza, nessuno sa che cosa ci riserva il futuro. Quando ti sei dato fuoco, ormai dieci mesi fa, non sapevi di certo, così come neanche noi sappiamo ora, quale sarà nel lungo periodo l’esito della Primavera araba, e tanto meno dell’Autunno americano. Un movimento come questo arriva nel mondo come un neonato. Chi sa quale sarà il suo il destino o anche solo se sopravviverà e diventerà adulto?
Potrebbe essere soppresso come la Primavera di Praga del 1968. Potrebbe attraversare una folle adolescenza come la Rivoluzione francese del 1789 per poi crescere e andare oltre i sogni dei suoi genitori. Raggiante di felicità alla nascita, circondato da sorrisi, potrebbe poi diventare un imperturbabile cittadino borghese come è avvenuto ad esempio ai movimenti in Cecoslovacchia, Ungheria e nella Germania riunificata dopo che la società civile ha liberato quei paesi dalla dittatura.
Potrebbe diventare turbolento come è accaduto alle Filippine dopo la rivoluzione del 1986 che ha defenestrato la cleptocrazia della famiglia Marcos. La rivoluzione potrebbe essere assassinata nella culla, come avvenne al governo democratico di Mohammad Mossadeq in Iran nel 1953, a quello del presidente Jacobo Arbenz in Guatemala nel 1954 e all’esperimento cileno del presidente Salvador Allende, l’11 settembre 1973, in tutti e tre i casi per colpi di stato militari realizzati con il sostegno della Cia. Per conto dell’1 per cento.
Che si tratti di un bambino o di un figlio della storia, non possiamo sapere chi o che cosa diverrà, ma è comunque possibile coglierne qualche caratteristica chiedendo a chi o che cosa somiglia. A cosa somiglia Occupy Wall street? Ovviamente ai suoi fratelli che sono nati in ogni parte del mondo quest’anno e forse in qualche modo al movimento per i diritti civili degli Stati Uniti che ebbe inizio negli anni cinquanta dello scorso secolo.
Negli Stati Uniti ci fu una rivolta nazionale non meno spontanea nella sua formazione durante la Grande depressione cominciata nel 1873, ma il grande sciopero delle ferrovie del 1877 fu violento, mentre il movimento Occupy è profondamente permeato dallo spirito e dalle tattiche della non violenza. L’ultima Grande depressione, quella del 1929, creò una serie di movimenti radicali, oltre alle Hoovervilles, le baraccopoli in cui vivevano le persone che avevano perso la propria casa.
Ci sono somiglianze di famiglia. I cortei e le azioni contro l’imminente invasione dell’Iraq che si svolsero il 15 febbraio del 2003 in tutti e sette i continenti (sì, c’era anche l’Antartide) fanno chiaramente parte della stessa famiglia. E il movimento per la globalizzazione che si oppone alle multinazionali è la madrina. E poi c’è un parente che ha appena compiuto dieci anni.
Cugino 11 settembre
Zuccotti park è a soli due isolati da Wall street e ad appena un isolato di distanza da Ground zero, il luogo dell’attentato dell’11 settembre. Quel giorno venne gravemente danneggiato. Il 21 settembre di quest’anno la mia cara amica Marina Sitrin mi ha scritto da Occupy Wall street: “Ci sono persone di gruppi etnici diversi, di età diverse, tra cui non pochi bambini che sono qui con i genitori, e diversi lavoratori della zona. In particolare, alcune delle guardie private del monumento commemorativo dell’11 settembre che si trova a un isolato da qui sono venuti a trovarci durante l’ora del pranzo e hanno chiacchierato con le persone, così come ha fatto un gruppo di operai edili della zona”.
Se la Primavera araba è stata l’antitesi dell’11 settembre a distanza di un decennio, una rivolta ampiamente non violenta, che ha coinvolto tanti cittadini e ha costretto il mondo occidentale ad abbandonare la sua fantasia spaventosa secondo cui tutti i giovani musulmani sono terroristi, jihadisti e attentatori suicidi, allora Occupy Wall street, che è cominciata sei giorni dopo il decimo anniversario di quella giornata da incubo di settembre, è l’altra metà dell’11 settembre a New York.
Quel giorno di dieci anni fa fu straordinario per il modo tranquillo e meraviglioso in cui si comportarono tutti. Gli abitanti di New York si aiutarono vicendevolmente a scendere le scale di decine di piani nelle torri gemelle e a fuggire dalla catastrofe, mentre altri fecero la fila per donare il sangue, in un desiderio disperato di fare qualcosa, qualsiasi cosa, di partecipare, di condividere il riscoperto senso di appartenenza alla comunità che era nato quel giorno in città.
Ci fu, per esempio, un enorme punto di distribuzione organizzato a Chelsea Piers che offriva gratuitamente cibo, medicinali e attrezzi di lavoro alle persone impegnate a Ground zero e che contribuì a trovare alloggi per gli sfollati. Non fu un’attività ufficiale, ma nacque in modo ancora più spontaneo di Occupy Wall street, senza capi o istituzioni, e venne sciolta con la forza quando le autorità si organizzarono qualche giorno dopo. I partecipanti vissero un’esperienza di democrazia in mezzo a tanto dolore e tanta sofferenza, una gioia straordinaria nel trovare un lavoro così ricco di significato e profondi legami sociali, e una piccola gioia temporanea, come spesso avviene in occasione di un disastro.
Quando ho cominciato a studiare la storia dei disastri urbani, tanti anni fa, ho scoperto spesso espressioni inaspettate di questo genere di gioia che legava la nascita delle proteste, delle dimostrazioni, delle rivolte e delle rivoluzioni ai periodi successivi ad alcuni disastri. Anche quando le perdite erano terribili, le persone agivano insieme per affrontare la situazione in modi che erano quasi sempre meravigliosi e stupefacenti.
Da quando ho scritto Un paradiso all’inferno mi hanno chiesto più volte se la crisi economica genera lo stesso tipo di comunità che nasce in occasione dei disastri improvvisi. Avvenne in Argentina nel 2001, quando l’economia di quel paese crollò. Ed è successo ora, nelle strade di New York e di molte altre città, nel 2011. Un cartello di Occupy San Francisco diceva: “È ORA”. È vero. È ora da molto tempo.
L’unica speranza è in noi stessi
La nascita di questo momento è stata ritardata di tre anni. Gli argentini reagirono immediatamente alla crisi del 2001 e ai risentimenti che da lungo tempo covavano contro un’economia che aveva affondato tanti di loro ancor prima che il governo congelasse tutti i conti bancari e l’economia crollasse.
D’altro canto, la nostra economia è crollata tre anni fa, quando i giornali finanziari titolarono “Il capitalismo è morto”. Ci fu rabbia e indignazione allora, ma la vera reazione fu ritardata.
L’indignazione di quei giorni portò in verità a un forte movimento della società civile che concentrò tutta l’attenzione su un solo candidato politico affinché sistemasse tutto per noi, come promise di fare. Fu un bel movimento, un movimento ricco di speranza, assai più del suo candidato. Il movimento riuscì a far sì che il suo unico candidato raggiungesse la carica più alta del paese, un posto che occupa ancora oggi, e poi si allontanò come se il lavoro fosse stato completato. Era appena cominciato.
Quel movimento avrebbe potuto battersi contro le corporation, poteva darci una vera politica contro i cambiamenti climatici e altro, ma accettò di sciogliersi come se un politico eletto fosse l’equivalente di dieci milioni di cittadini o della stessa società civile. Fu un movimento ampio, di tutte le età e tutte le razze, e credo che abbia fatto ritorno, deluso dai politici e dalla politica elettorale, deciso questa volta a fare da sé, oltre e fuori dalle camere stantie della politica istituzionale.
Non so esattamente a chi somiglia questo neonato, ma so che ciò a cui somigliamo non è ciò che diventeremo. Questo bimbo inatteso ha un mese dietro di sé e un futuro davanti che nessuno di noi può intravedere, ma la sua nascita dovrebbe essere motivo di speranza.
Ti abbraccio,
Rebecca
Traduzione di Andrea Spila
Rebecca Solnit, Tomdispatch, Stati Uniti
http://www.internazionale.it/news/rebecca-solnit/2011/11/01/lettera-a-un-giovane-che-ha-cambiato-il-corso-della-storia/
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