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domenica 22 luglio 2018

Sergio Marchionne, 14 anni al timone di Fca

Sergio Marchionne 14 anni al timone di Fca


Sergio Marchionne
Dall’arrivo alla guida del gruppo a pochi giorni dalla morte di Umberto Agnelli,
 che l’aveva cooptato in consiglio di amministrazione, alla fusione con Chrysler.
 Dalla rottura con Confindustria alla quotazione della Ferrari. 

Il giorno più difficile di Fiat-Chrysler. Che in questi 14 anni, da quando Sergio Marchionne ne ha preso il timone, ha cambiato completamente pelle. L’era Marchionne — terminata oggi con i drammatici Cda, convocati d'urgenza a seguito dell'aggravarsi delle condizioni di salute del manager, che hanno consegnato le chiavi di Fca a Manley e quelle di Ferrari a Camilleri — coincide con una profonda ristrutturazione del gruppo. Venne indicato come Ceo dell’allora Fiat nel 2004, a pochi giorni dalla morte di Umberto Agnelli, il primo a credere in lui tanto da cooptarlo in Consiglio di amministrazione. Un Lingotto che era sull’orlo del fallimento con un debito convertendo, concesso dalle banche creditrici, che poi si rivelò decisivo. Un prestito che, senza un immediato cambio di rotta per un’azienda che perdeva più di due milioni di euro al giorno, avrebbe consegnato Fiat alle banche. Non accadde.

Ma prima di parlare della sua straordinaria storia conviene fare un passo indietro e raccontare gli inizi, che descrivono meglio l’uomo e quindi il personaggio. Marchionne nasce in provincia, a Chieti in Abruzzo nel 1952. Il padre, maresciallo dei Carabinieri, si era trasferito in Canada dopo la pensione per cominciare una nuova vita. La madre dalmata (Maria Zuccon). Prende tre lauree (Filosofia, Economia, Giurisprudenza) più un master in Business Administration. Diventa «dottore commercialista» dall’85 e procuratore legale e avvocato (nella regione dell’Ontario) dall’87. Descrisse così nel 2011 i suoi inizi, riportati da una brillante biografia del giornalista Giorgio Dell’Arti: «Quando ho iniziato l’università, in Canada, ho scelto filosofia. L’ho fatto semplicemente perché sentivo che, in quel momento, era una cosa importante per me. Poi ho continuato studiando tutt’altro e ho fatto prima il commercialista, poi l’avvocato. E ho seguito tante altre strade, passando per la finanza, prima di arrivare a occuparmi di imballaggi, poi di alluminio, di chimica, di biotecnologia, di servizi e oggi di automobili. Non so se la filosofia mi abbia reso un avvocato migliore o mi renda un amministratore delegato migliore. Ma mi ha aperto gli occhi, ha aperto la mia mente ad altro».

Nel 2002 passa alla guida della ginevrina Sgs, colosso dei sistemi di certificazione che vede fra gli azionisti di controllo la famiglia Agnelli ed è in Svizzera che Marchionne si costruisce una rete di relazioni che contano. Due anni dopo arriva la nomina a Ceo. Marchionne, in giacca e cravatta come non avvenne poi praticamente mai, si presenta alla stampa insieme al nuovo vertice del gruppo Fiat: il presidente Luca Cordero di Montezemolo e il vicepresidente John Elkann, all’epoca ventottenne. Le prime parole che pronunciò quel giorno furono queste: «Fiat ce la farà; il concetto di squadra è la base su cui creerò la nuova organizzazione; prometto che lavorerò duro, senza polemiche e interessi politici». Si mise a lavorare sodo sin da subito, anche nei week end in una Mirafiori spesso deserta. «Mi ricordo i primi 60 giorni dopo che ero arrivato qui, nel 2004: giravo tutti gli stabilimenti e poi, quando tornavo a Torino, il sabato e la domenica andavo a Mirafiori, senza nessuno, per vedere le docce, gli spogliatoi, la mensa, i cessi. Ho cambiato tutto: come faccio a chiedere un prodotto di qualità agli operai e farli vivere in uno stabilimento così degradato?», disse nel 2011 all’allora direttore di Repubblica Ezio Mauro.

È giudizio unanime dei critici che Marchionne ripartì da tre punti cardine: la rinuncia degli Agnelli all’esercizio della put option a General Motors che fece incassare al Lingotto 1,55 miliardi; il convertendo , appunto, siglato con i maggiori istituti di credito italiani; il controverso swap Ifil Exor che consentì alla dinastia torinese di mantenere il controllo della Fiat. Negli anni seguenti, complice l’ottimo andamento delle vendite sul mercato europeo e il boom delle immatricolazioni in Brasile (dove il Lingotto aveva una leadership sul mercato), la Fiat nella seconda parte del decennio 2000-2010 fece segnare una notevole ripresa in termini di redditività e di risultati di bilancio.

Grazie a questi dati arrivò la svolta epocale: l’acquisizione dell’americana Chrysler fallita nella crisi del 2008 in cui gli Stati Uniti (e il mondo intero) finirono per trovarsi sottosopra. Nel dicembre di quell’anno il manager dichiarò che il settore si stava sempre più consolidando e che per resistere alla competizione sarebbe stato necessario crescere di stazza. «Solo quei gruppi che riusciranno a fabbricare 6 milioni di automobili l’anno saranno in grado di resistere nel futuro», profetizzò. Era il segnale del colpo che il manager stava preparando: il 20 gennaio 2009 la Fiat annunciò un accordo con l’amministrazione Obama appena insediata, per entrare nel capitale di Chrysler. Inizialmente con il 20% delle quote dopo le resistenze dei sindacati Usa e una complicata trattativa con il governo. Nasce il sesto gruppo automobilistico del mondo.

Nel primo trimestre del 2011 Chrysler torna all’utile e a maggio 2011, a seguito del rifinanziamento del debito e del rimborso da parte di dei prestiti concessi dai governi americano e canadese, Fiat incrementa la propria partecipazione in Chrysler al 46%. A luglio 2011, con l’acquisto delle partecipazioni in Chrysler del Canada e del dipartimento del Tesoro statunitense, sale al 53,5%, al 58,5% nel 2012. Il 1° gennaio 2014 Fiat Group completa l’acquisizione di Chrysler acquisendo il rimanente 41,5% dal Fondo Veba (di proprietà del sindacato metalmeccanico Uaw) salendo al 100%, accordandosi per un esborso di 3,65 miliardi di dollari: 1,75 versati cash e i rimanenti in un maxi dividendo di cui Fiat girerà a Veba la quota relativa al proprio 58,5%.

L’altra partita estera fu l’acquisizione della Opel, azienda automobilistica tedesca del gruppo General Motors. Dopo lunghe e difficili trattative sembrava che la “partita Opel” fosse stata vinta dal colosso Magna International. Ma neppure Magna riuscirà nell’intento di acquisire Opel in quanto a sorpresa General Motors, con l’avallo della Cancelliera tedesca Angela Merkel, decide di mantenere al suo interno la Opel e di rilanciare il marchio e la produzione seppur sacrificando qualche stabilimento.

In Italia Marchionne cambia radicalmente le relazioni industriali.
  La vera rottura era avvenuta qualche anno prima nell’aprile del 2010, quando Fiat disdice il contratto nazionale, poi esce da Confindustria provocando un colpo durissimo all’associazione di viale dell’Astronomia, e chiede una serie di concessioni ai sindacati come condizione per investire a Pomigliano nella produzione della nuova Panda.
In cambio di promesse mai Mantenute.
La maggior parte delle sigle sindacali accetta l’accordo, mentre la Fiom è contraria e così resterà fino alla fine aprendo un contenzioso che ancora oggi si trascina nei tribunali. In due successivi referendum, prima a Pomigliano e poi a Mirafiori, 
gli operai dicono sì all’intesa a larga maggioranza.

Nel 2014 prende il timone anche della Ferrari guidata da oltre 20 anni da Montezemolo. Si tratta di una svolta inattesa, non senza un durissimo braccio di ferro tra i due che si conclude con l’estromissione del top manager che aveva rilanciato il marchio portando alla vittoria il Cavallino nel campionato di Formula Uno nel 2000. È il preludio alla quotazione della Ferrari negli Stati Uniti. Ma in Borsa ci va una quota minoritaria, il 10%, della Casa di Maranello, perché l’80% resta ai soci Exor, la holding degli Agnelli di cui è vicepresidente non esecutivo, e il restante 10% a Piero Ferrari, figlio di Enzo. Tra le sue frasi più celebri: «La leadership non è anarchia. In una grande azienda chi comanda è solo. La collective guilt, la responsabilità condivisa, non esiste. Io mi sento molte volte solo». Oppure: «La lingua italiana è troppo complessa e lenta: per un concetto che in inglese si spiega in due parole, in italiano ne occorrono almeno sei». 


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