giovedì 27 dicembre 2012
Piombo Fuso: strage compiuta dall’aviazione israeliana
Accade oggi : Il 27 dicembre Il 27 dicembre 2008
l'operazione "Piombo Fuso", strage compiuta dall’aviazione israeliana
con il lancio di bombe al fosforo bianco e bombe DIME, uranio impoverito, sul popolo Palestinese .Nei primi giorni i morti si contano a centinaia , tante donne e bambini Il 3 gennaio 2009 segue l’invasione di terra che continua a seminare morte e distruzione.
Alla Fine si conteranno 1546 morti e 5200 feriti di cui tanti rimarranno invalidi per il resto dei loro giorni....
Per Non Dimenticare....
Palestina Libre...
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Gli abusi di Piombo fuso raccontati dai soldati
L'associazione israeliana Breaking the silence ha pubblicato un rapporto con le testimonianze dei soldati impegnati nell'operazione Piombo fuso. I militari tornano sugli abusi commessi nel corso della guerra del gennaio 2008.
«Prima sparare e poi preoccuparsi»: ecco il principio sul quale si è retta l’operazione israeliana Piombo fuso, la guerra lampo che nella Striscia di Gaza tra dicembre e gennaio 2008 ha provocato la morte di 1400 palestinesi e 13 israeliani. Ora a dirlo sono gli stessi soldati dell’esercito israeliano. Le loro testimonianze sono state raccolte da un’organizzazione creata dai soldati, Shovrim Shtika [Rompere il silenzio], che ha pubblicato un rapporto con il racconto di ventisei soldati che questa guerra l’hanno fatta. E’ l’ennesimo colpo alla Israeli defense force dopo le accuse di violazioni avanzate da organizzazioni come Amnesty International e Human rights watch: l’esercito ha subito negato le accuse. Il quotidiano Haaretz ha pubblicato oggi alcuni stralci del rapporto messo a punto dall’organizzazione ‘Rompere il silenzio’ che ha raccolto le testimonianze dei soldati impegnati nell’offensiva del gennaio 2008.
Secondo il racconto ripetuto da un sergente israeliano al reporter di Haaretz, che ha anche pubblicato ampi stralci del rapporto, i palestinesi venivano spesso mandati dentro le abitazioni per verificare se ci fosse qualcuno prima dell’irruzione dei militari. Una pratica – chiamata ‘procedura del vicino’ – già impiegata durante la seconda Intifada e bocciata come inumana dalla Corte suprema israeliana nel 2005. In un episodio riferito dal sergente, gli israeliani avevano localizzato tre miliziani palestinesi asserragliati in un casa. Era stato chiesto l’intervento degli elicotteri che avevano bombardato l’abitazione. Per verificare che i miliziani fossero morti, un civile era stato costretto a entrare nell’edificio pericolante. Ne era uscito dicendo che i tre erano ancora vivi e così l’esercito aveva ordinato un nuovo raid aereo. Il palestinese era stato costretto a entrare di nuovo nell’edificio e ne era uscito dicendo che due erano morti ma il terzo era ancora vivo. Era stato allora chiesto l’intervento di un bulldozer che aveva iniziato a demolire la casa. Solo allora il miliziano si era deciso ad arrendersi e a consegnarsi ai soldati.
Le testimonianze dei soldati concordano: l’ordine del Comando era di minimizzare le perdite tra i militari per non perdere il sostegno dell’opinione pubblica. «Meglio colpire un civile che esitare a sparare su un nemico – era la direttiva – nell’incertezza, uccidete. Nella guerriglia urbana chiunque è tuo nemico e non ci sono innocenti».
A marzo, altre testimonianze di soldati su abusi contro i civili palestinesi erano state rese pubbliche ma la loro affidabilità era stata contestata dai vertici dell’esercito. Anche questa volta, il commento dell’esercito non si è fatto aspettare. «Dalle testimonianze pubblicate e dalle indagini condotte dall’Idf, appare chiaro che i soldati hanno operato nel rispetto del diritto internazionale», dicono. Secondo fonti palestinesi, tra le 1.417 vittime dell’operazione Piombo fuso ci furono 926 civili, secondo l’esercito israeliano il bilancio fu di 1.166 morti tra cui 295 civili.esercito. Per l’esercito israeliano, «anche ora gran parte di quanto detto si basa su voci e testimonianze indirette, senza che sia possibile verificare i dettagli in modo da confermare o smentire l’accaduto». Per Asa Kasher, autore del codice etico dell’esercito, «l’organizzazione Shovrim Shtika intende difendere i valori morali mentre ne fa un’agenda politica: andare nel verso delle accuse palestinesi. Quando i soldati
dicono che potevano sparare a volontà: o hanno agito seguendo la propria volontà e sono da condannare, o non hanno rifiutato gli ordini dei loro superiori, e sono ugualmente da condannare. I soldati hanno l’obbligo legale di rifiutare ordini illegali, di sparare su innocenti. […] E’ molto facile, mesi dopo i fatti, scagliare la pietra all’esercito prendendo i media a testimonio».
«Ci sono abusi in ogni guerra, ma quello che ci turba è di vedere come, nella sua operazione a Gaza, l’esercito israeliano sembra aver cambiato i suoi concetti etici senza dircelo. L’uso di tattiche di guerra contro i civili palestinesi è ingiustificabile», commenta Yehuda Shaul, direttore di Shovrim Shtika.
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Israele dice No a una commissione d'indagine indipendente su Piombo fuso
Israele non creerà nessuna commissione di inchiesta indipendente per verificare le accuse, contenute nel rapporto della commissione dell’Onu presieduta dal giudice sudafricano Richard Goldstone, sui crimini commessi durante l’offensiva militare ‘Piombo fuso’ contro la Striscia di Gaza, tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009, nella quale persero la vita oltre 1400 palestinesi. Lo ha riferito il ministro per l’Informazione Yuli Edelstein in un’intervista da New York dopo aver incontrato il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon per informarlo della decisione presa dal governo di Tel Aviv. Il ministro ha aggiunto che Israele consegnerà giovedì prossimo all’Onu un documento con i risultati di un’inchiesta condotta internamente dalle forze armate sul comportamento delle truppe durante ‘Piombo Fuso’. Aspramente criticato dai vertici israeliani, il rapporto Goldstone invita l’Onu a consegnare alla Corte penale internazionale [Cpi] dell’Aja il dossier su ‘Piombo fuso’ a meno che Israele e Hamas – entro i prossimi sei mesi – non autorizzino indagini indipendenti sugli episodi relativi a presunti «crimini di guerra» contenuti nel rapporto.
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Comprare la propria acqua: il paradosso palestinese
DA,,,, www.misna.org
Dal sito dell'agenzia dei Missionari comboniani, Misna, ecco un illuminante articolo su come Israele toglie l'acqua ai palestinesi.
Una sete indotta e paradossale colpisce i due Territori Palestinesi Occupati, Striscia di Gaza e Cisgiordania, al punto da aver suscitato la denuncia di grandi organizzazioni umanitarie ma anche di molti altri operatori del settore radicati soprattutto in quelle zone.
«Immaginate ville aggrappate a una dolce collina, immerse in verdi giardini curati con moderni sistemi di irrigazione, dotate di piscine e collegate tra loro da una rete stradale ricca di fontanelle; poi, abbassate lo sguardo, troverete un povero villaggio palestinese con serbatoi in plastica di colore nero sui tetti in cui viene immagazzinata l’acqua che di tanto in tanto arriva da Israele; forse sentirete anche il ronzio di motorini e autoclave che pompano l’acqua fin sopra il tetto e donne indaffarate a sfruttare quel momento in cui l’acqua viene erogata per pulizie straordinarie che non compromettano le riserve necessarie alla famiglia»: è Ettore Acocella, operatore italiano, responsabile di un progetto sociale per l’organizzazione Crocevia, che parla alla Misna da Ramallah, in Cisgiordania, il più «fortunato» dei due Territori Palestinesi Occupati.
«Il paradosso – continua Acocella – è che i palestinesi sono costretti a comprare dagli israeliani la loro stessa acqua: non hanno infatti diritto al bacino della valle del Giordano, non possono scavare pozzi, a volte gli stessi serbatoi sui tetti delle loro case vengono presi di mira ‘per gioco’ dai coloni con colpi d’arma da fuoco». Secondo un rapporto diffuso lo scorso ottobre dall’organizzazione non governativa Amnesty International quella israeliana è una vera e propria appropriazione indebita che insieme a una serie di assurde limitazioni rende di fatto impossibile per un palestinese approvvigionarsi di acqua se non passando attraverso le autorità israeliane che la razionano in base a criteri e modalità proprie e non secondo gli interessi della popolazione che vive a Gaza e in Cisgiordania.
Il documento denuncia che Israele estende progressivamente e al di là di qualunque accordo il suo controllo sulle risorse idriche dei Territori Occupati e riesce a esacerbare in questo modo le già precarie condizioni in cui sono costretti a vivere i palestinesi. «Israele consente ai palestinesi solo una frazione delle risorse idriche in comune – sottolinea Donatella Rovera, autrice del rapporto – che si trovano concentrate in gran parte in Cisgiordania» con il risultato che mentre un palestinese dispone in media di 70 litri d’acqua al giorno, un israeliano ne ha circa 300 grazie alle forniture che arrivano proprio dalla Cisgiordania. In alcune aree rurali i palestinesi sopravvivono con solamente 20 litri al giorno, la quantità minima raccomandata per uso domestico in situazioni di emergenza. Da 180.000 a 200.000 palestinesi che vivono in comunità rurali non hanno accesso all’acqua corrente e l’esercito israeliano spesso impedisce loro anche di raccogliere quella piovana. I 450.000 coloni israeliani, che vivono in Cisgiordania in violazione del diritto internazionale, utilizzano la stessa, se non una maggiore quantità d’acqua, rispetto a 2.300.000 palestinesi. Altro paradosso sottolineato dalla Rovera riguarda la differenza di trattamento riservata ai coloni che hanno costantemente acqua corrente e pagano molto meno rispetto ai palestinesi. «E la situazione – conclude la ricercatrice – è perfino peggiore nella Striscia di Gaza a causa del blocco dei confini attuato da Israele» e delle distruzioni causate dall’offensiva militare conclusa a gennaio 2009. «Qui – dice alla Misna Tamir Bahari, operatore sociale palestinese – possiamo scavare pozzi, ma l’acqua è inquinata perché le falde sono contaminate a monte, in territorio israeliano, e perché l’ultima operazione militare israeliana [Piombo fuso, oltre 1400 vittime palestinesi, ndr] ha distrutto in molte parti il sistema fognario. Per risolvere questo problema servirebbero mezzi e materiale che devono arrivare necessariamente da fuori, ma la chiusura dei confini rende di fatto impossibile qualunque ricostruzione».
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