Controlli deboli e scarsa trasparenza, al di sotto della sufficienza nella classifica di Trasparency International. Non solo un dramma etico, ma un disastro economico
La corruzione cresce in Italia. La classifica mondiale di Trasparency International ci colloca al 72esimo posto, peggio del Ghana e come la Tunisia. Dal 2011 abbiamo perso tre posizioni e parecchi punti: i controlli continuano ad essere deboli e la crisi spinge pesci piccoli e grandi a cercare scappatoie, potere personale, profitto immediato. E a pagarne le spese non è solo l’etica e la morale pubblica, ma soprattutto l’economia; le aziende migliori vengono penalizzate dai “furbi”.
Il lavoro di Trasparency International
apre gli occhi su molte cose. La classifica della Onlus mette insieme i
dati di 174 Paesi e ne valuta accuratamente il grado di corruzione:
opacità, scarsa trasparenza, integrità carente negli uffici
amministrativi, prassi ufficiose consolidate al posto delle regole
ufficiali. Ma anche qualità dei controlli, capacità d’intervento
dell’Amministrazione Pubblica e della magistratura. E l’Italia non ci fa
una bella figura, anzi. Sempre peggio.
L’anno scorso, il nostro paese era in 69sima posizione, con circa 50 punti su 100: già sotto la sufficienza, e ben lontana dagli altri “colleghi” europei come la Francia e la Germania con cui amiamo confrontarci. Quest’anno siamo messi peggio. 72esimo posto, appena 42 punti. Giusto per un confronto: siamo più corrotti del Ghana, a pari merito con la Tunisia e la Grecia, e in continua discesa. La situazione peggiora, perché non stiamo facendo abbastanza per migliorarla.
Da una parte, i controlli sono rimasti deboli, facilmente aggirabili,
non abbastanza rigorosi da stanare tutte le bustarelle: dall’altra, è
peggiorato il clima economico, e con esso si moltiplicano i tentativi di
arrivare alla ricchezza per la via più breve (e dannosa per la
collettività).
I casi Fiorito, Tarantini,
Maruccio sono recenti, e mostrano un trend preoccupante: non importa il
grado alto o basso nella scala gerarchica delle istituzioni, ogni posizione di potere deve garantire una rendita.
Un profitto puro, aggiuntivo ai compensi ufficiali. Da una parte il
corrotto si offre per importi sempre più bassi (si parla addirittura di
ricariche telefoniche e cene pagate, non solo buste da milioni di euro):
dall’altra, si moltiplicano i questuanti, i furbetti pronti a pagare
per aggirare le regole.
L’effetto è devastante, soprattutto sull’economia. La crisi sta erodendo i margini di inefficienza e spreco che abbiamo sopportato in passato. Non possiamo sprecare altre risorse nella corruzione, perché distorce l’intero sistema. Le aziende migliori, cioè quelle che presentano progetti competitivi validi per vincere le gare, subiscono la concorrenza sleale dei “furbetti”,
che comprano l’appalto svolgendo poi un pessimo lavoro (alti costi,
materiali scadenti, tempi lunghissimi). Non per niente il primo campo
della corruzione è l’edilizia pubblica. Questa concorrenza sleale
danneggia le imprese virtuose, le mette fuori mercato e instaura un
clima da “corrompere è prassi”. A danno dei cittadini, che pagano 100 per veder realizzato 20, mentre il resto lo si perde nei passaggi di bustarelle.
“L’anticorruzione dovrà rimanere una priorità dei governi futuri”.
Lo afferma con determinazione Teresa Brassiolo, responsabile italiana
di Trasparency International. Che sia il governo il primo a dover agire,
con leggi più trasparenti e maggiori controlli, lo pensa il 25% dei
cittadini – molto più del 14% che attribuisce alla magistratura il ruolo
dominante. Ma per il 30% degli intervistati, sarebbero proprio i
cittadini, la gente comune, coloro che devono cambiare le cose. La rivoluzione trasparente dovrà partire dal basso, o non partirà mai.
Scritto da Sirio Valent
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