Comprare la propria acqua: il paradosso palestinese
DA,,,, www.misna.org
Dal sito dell'agenzia dei Missionari comboniani, Misna, ecco un illuminante articolo su come Israele toglie l'acqua ai palestinesi.
Una sete indotta e paradossale colpisce i due Territori Palestinesi Occupati, Striscia di Gaza e Cisgiordania, al punto da aver suscitato la denuncia di grandi organizzazioni umanitarie ma anche di molti altri operatori del settore radicati soprattutto in quelle zone.
«Immaginate ville aggrappate a una dolce collina, immerse in verdi giardini curati con moderni sistemi di irrigazione, dotate di piscine e collegate tra loro da una rete stradale ricca di fontanelle; poi, abbassate lo sguardo, troverete un povero villaggio palestinese con serbatoi in plastica di colore nero sui tetti in cui viene immagazzinata l’acqua che di tanto in tanto arriva da Israele; forse sentirete anche il ronzio di motorini e autoclave che pompano l’acqua fin sopra il tetto e donne indaffarate a sfruttare quel momento in cui l’acqua viene erogata per pulizie straordinarie che non compromettano le riserve necessarie alla famiglia»: è Ettore Acocella, operatore italiano, responsabile di un progetto sociale per l’organizzazione Crocevia, che parla alla Misna da Ramallah, in Cisgiordania, il più «fortunato» dei due Territori Palestinesi Occupati.
«Il paradosso – continua Acocella – è che i palestinesi sono costretti a comprare dagli israeliani la loro stessa acqua: non hanno infatti diritto al bacino della valle del Giordano, non possono scavare pozzi, a volte gli stessi serbatoi sui tetti delle loro case vengono presi di mira ‘per gioco’ dai coloni con colpi d’arma da fuoco». Secondo un rapporto diffuso lo scorso ottobre dall’organizzazione non governativa Amnesty International quella israeliana è una vera e propria appropriazione indebita che insieme a una serie di assurde limitazioni rende di fatto impossibile per un palestinese approvvigionarsi di acqua se non passando attraverso le autorità israeliane che la razionano in base a criteri e modalità proprie e non secondo gli interessi della popolazione che vive a Gaza e in Cisgiordania.
Il documento denuncia che Israele estende progressivamente e al di là di qualunque accordo il suo controllo sulle risorse idriche dei Territori Occupati e riesce a esacerbare in questo modo le già precarie condizioni in cui sono costretti a vivere i palestinesi. «Israele consente ai palestinesi solo una frazione delle risorse idriche in comune – sottolinea Donatella Rovera, autrice del rapporto – che si trovano concentrate in gran parte in Cisgiordania» con il risultato che mentre un palestinese dispone in media di 70 litri d’acqua al giorno, un israeliano ne ha circa 300 grazie alle forniture che arrivano proprio dalla Cisgiordania. In alcune aree rurali i palestinesi sopravvivono con solamente 20 litri al giorno, la quantità minima raccomandata per uso domestico in situazioni di emergenza. Da 180.000 a 200.000 palestinesi che vivono in comunità rurali non hanno accesso all’acqua corrente e l’esercito israeliano spesso impedisce loro anche di raccogliere quella piovana. I 450.000 coloni israeliani, che vivono in Cisgiordania in violazione del diritto internazionale, utilizzano la stessa, se non una maggiore quantità d’acqua, rispetto a 2.300.000 palestinesi. Altro paradosso sottolineato dalla Rovera riguarda la differenza di trattamento riservata ai coloni che hanno costantemente acqua corrente e pagano molto meno rispetto ai palestinesi. «E la situazione – conclude la ricercatrice – è perfino peggiore nella Striscia di Gaza a causa del blocco dei confini attuato da Israele» e delle distruzioni causate dall’offensiva militare conclusa a gennaio 2009. «Qui – dice alla Misna Tamir Bahari, operatore sociale palestinese – possiamo scavare pozzi, ma l’acqua è inquinata perché le falde sono contaminate a monte, in territorio israeliano, e perché l’ultima operazione militare israeliana [Piombo fuso, oltre 1400 vittime palestinesi, ndr] ha distrutto in molte parti il sistema fognario. Per risolvere questo problema servirebbero mezzi e materiale che devono arrivare necessariamente da fuori, ma la chiusura dei confini rende di fatto impossibile qualunque ricostruzione».
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