Gli aquilani sono tornati in piazza Palazzo a raccogliere le macerie della loro città che aspetta ancora l'inizio di una ricostruzione degna di questo nome.
Sono tornati in una bella domenica di sole gli aquilani con le carriole pale e secchielli in piazza Palazzo. Hanno forzato il blocco della zona rossa presidiata da tre svogliati tutori dell’ordine, come a dover recitare un non voluto rituale per compiacere gli inviati speciali e le loro telecamere assetate di pathos e violenza simulata.
Sono tornati e hanno rimosso, questi aquilani del fare, almeno dieci tonnellate di macerie: differenziando ciò che resta della loro città, e che è utile per ricostruirla. Terriccio e altro materiale inerte è uscito fuori dal perimetro della piazza con il sistema già rodato della catena umana. Il materiale è stato scaricato in un grande cassone. Bifore, mattoni, coppi e altro materiale da recuperare, separato con attenzione, è stato accantonato.
Ad esasperare gli abitanti dell’Aquila, spiegano bene Legambiente e Libera in un dossier, è soprattutto la presenza dei cumuli che impediscono la riapertura di molte vie del centro storico dove, accanto agli edifici crollati, si trovano anche numerose case dichiarate agibili dai tecnici, ma che non possono essere raggiunte e rioccupate dai proprietari. «La ricostruzione – è spiegato nel dossier – si può avviare subito: basta eliminare in via prioritaria il blocco delle macerie presenti nelle strade e nelle vie d’accesso agli edifici: un milione di metri cubi di calcinacci che impedisce ai cittadini e alle ditte di entrare nelle abitazioni e avviare i lavori su circa 10 mila edifici danneggiati tra centro storico e frazioni».
In queste ore, commissari, ministri, assessori e candidati, grazie alla scossa data dal popolo delle carriole, si affannano a trovare una soluzione a questa emergenza dimenticata e lasciata in eredità dall’onnipotente Guido Bertolaso. In pochi mesi il commissario più amato dagli italiani è stato capace di spendere in deroga e in procedura d’urgenza, oltre un miliardo di euro, in parte a debito, per costruire una nuova città di polistirolo in area agricola, o quasi 200 milioni di euro per organizzare il G8 aquilano, di cui 373 mila euro per noleggiare poltrone, 175 mila euro per pennoni e bandiere, 26 mila euro per le ciotoline d’argento Bulgari, per non riparlare poi dei 23 milioni per gli interventi nella scuola sottufficiali delle Fiamme Gialle, spesi dai contribuenti per una proprietà delle banche a cui lo Stato per giunta paga ogni anno 13 milioni di euro di affitto.
In questi mesi però, Bertolaso l’eroe del fare, è stato impotente, come fosse il sindaco di un paesino, per avviare la rimozione delle macerie, cinque milioni di tonnellate, come gli avrebbe consentito e forse imposto un’Ordinanza del consiglio dei ministri del luglio 2009, dove a chiare lettere si legge: «Il commissario delegato può provvedere, in sostituzione dei comuni (…) alla individuazione dei siti da adibire a deposito temporaneo e selezione dei materiali derivanti dal crollo degli edifici pubblici e privati nonché di quelli provenienti dalle demolizioni degli edifici danneggiati dal sisma […]».
Per occupare, requisire e realizzare i siti, il provvedimento attribuiva al Commissario anche la possibilità di avvalersi delle deroghe per interventi d’emergenza. E gli metteva a disposizione anche il Genio civile dell’esercito e i Vigili del Fuoco.
Così gli aquilani hanno cominciato a fare da soli, rendendosi protagonisti di un’esperienza unica di partecipazione e cittadinanza attiva. A questo proposito Federico D’Orazio, aquilano post-terremoto, a conclusione della sudata giornata, scrive sul suo blog Stazione Mir: «Essere sul cumulo di macerie di piazza Palazzo a scavare tra i detriti è tutt’altra cosa che passare un secchio, o come ho fatto io la volta scorsa, dare indicazioni alla folla per far sì che il lavoro venisse fatto bene. Sono tutte cose fondamentali e utilissime. Ma quando si è li sopra, a scivolare, sporcarsi, sentire la puzza di marcio che quel cumulo esala, il rumore non esiste. La catena umana non esiste. Non esistono megafoni. Non esistono applausi e gente che chieda un secchio, una pala, un piccone. Sei solo tu, e i resti della tua città. Sei solo tu, e la ricerca di un mattone, un pezzo di legno, e la voglia di fare un lavoretto come si deve. E la fretta di togliere, in mezza giornata scarsa di lavoro, tutto il possibile. Sei solo tu, e la triste sorpresa di scovare in mezzo a quella massa indefinita ed enorme di macerie, oggetti di una vita che non è più.
Oggi, scavando, mi sono imbattuto in un libro, «Il giovane Holden», due cd [uno di Chet Baker,tra i miei preferiti, l’altro nemmeno si capiva più cosa ci fosse un tempo scritto].
E poi uno sciacquone, e tanti pezzi di uno di quei pavimenti che in tante case di una volta ci sono tutt’oggi: quei marmittoni colorati, tutti uguali e pure tutti diversi tra loro. Impossibile non pensare a chi quel libro l’avrà letto. Chissà se lo ha mai finito. Chissà se mai lo finirà. Impossibile non pensare a chi, quel pavimento, l’ha lavato per anni. Quante volte l’avrà lucidato? Chissà se poi gli piaceva, o se semplicemente non aveva tempo o soldi per metterci sopra un parquet.
Quando vedi che anche in quel cumulo c’è traccia di una fatica inutile, di uno sforzo vanificato, di una vita che forse oggi non c’è più, perdi la foga. Inizi a capire davvero cosa ci è successo, qui a L’Aquila.
Qualcosa di enormemente più grande di noi. Sforzi di una vita, e vite annullate prima di potersi esprimere, nell’arco di mezzo minuto. Secoli di storia, mai stati così a rischio. E tracce, polverizzate, di nottate passate a finire un libro d’un fiato, o magari comprato e mai letto. Sporcarsi le mani in mezzo a quel puzzo, scivolare e cadere nella poltiglia di ciò che resta dell’Aquila mia. E provare, improvvisamente, rispetto anche per i frutti più miseri di questo scempio. Spalando, capisci».
di : FILIPPO TRONCA
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