In questo concerto, tenutosi per la RSI Radio Svizzera Italiana nel dicembre 1986, Jannacci presenta, con la consueta ironia, alcuni suoi classici in dialetto milanese che mescola alle novità di quel momento.
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Enzo Jannacci - Medley: Vincenzina e la fabbrica, Io e te. Mario ED ALTRE
- Vincenzo Jannacci detto Enzo (Milano, 3 giugno 1935 – Milano, 29 marzo 2013) è stato un cantautore, cabarettista e attore italiano, tra i maggiori protagonisti della scena musicale italiana del dopoguerra.
Caposcuola del cabaret italiano, nel corso della sua cinquantennale carriera ha collaborato con svariate personalità della musica, dello spettacolo, del giornalismo, della televisione e della comicità italiana, divenendo artista poliedrico e modello per le successive generazioni di comici e di cantautori.
Autore di quasi trenta album, alcuni dei quali rappresentano importanti capitoli della discografia italiana, e di varie colonne sonore, Enzo Jannacci, dopo un periodo di ombra nella seconda metà degli anni novanta, è tornato a far parlare di sé ottenendo vari premi alla carriera e riconoscimenti per i suoi ultimi lavori discografici.
È ricordato come uno dei pionieri del rock and roll italiano, insieme ad Adriano Celentano, Luigi Tenco, Little Tony e Giorgio Gaber, con il quale formò un sodalizio durato più di quarant'anni.
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Morto Enzo Jannacci
una vita in “scarp del tennis” tra teatro e canzone
Il cantautore milanese è morto a 77 anni dopo una lunga malattia. Ha scritto canzoni di grande successo come "Vengo anch'io/no tu no" e testi sociali come "La fotografia" e "Se me lo dicevi prima", ma è stato soprattutto un artista poliedrico, mai banale, capace di destreggiarsi tra scrittura impegnata e cabaret
Era rimasto sospeso tra la medicina e la musica. Lui diceva, un po’ per scherzo e un po’ per davvero, che si dilettava soprattutto nella poetastrica. Sicuramente Enzo Jannacci, pugliese trapiantato a Milano, è stato un grande intellettuale, come diceva Dario Fo. E’ stato molto, probabilmente senza mai saperlo. Ci sono dei capolavori che ci hanno accompagnati per una vita, e non una o due, ma molte più generazioni. Perché Enzo era lì, inconsapevole e senza colpa, il giorno del primo bacio, c’era nelle vacanze e nei ritorni. Ci ha fatto compagnia nei momenti felici e di dolore, come questo, come tutti quelli che lo hanno amato smisuratamente e sapevano di quel male che se lo stava consumando. Dario Fo, pochi giorni fa al telefono, mi aveva detto: “Il male se lo sta consumando. Povero ragazzo”. E solo Fo poteva permettersi di chiamarlo ragazzo, perché Jannacci è stato maestro per molti (Cochi e Renato, Lino Toffolo, Diego Abatantuono, e in parte ci azzardiamo a dire che fu fratello minore, ma anche maggiore di Adriano Celentano e Giorgio Gaber) ma lui di maestro ne ha avuto uno solo, Dario Fo.
Se ne va una certa Milano, con Enzo, la Milano che non esiste più, chiusa tra il bar Jamaica, il Giambellino, Porta Lodovica e viale Monte Rosa, la Milano raccontata da Vittorio De Sica, ma anche da Mario Monicelli (Romanzo Popolare, con Ornella Muti e Ugo Tognazzi), quella Milano della Vita Agra di Luciano Bianciardi, che di Enzo fu amico e primo estimatore.
A raccontarlo, Jannacci, non basterebbe un libro. Perché relegarlo come ha fatto certa critica alla sua milanesità sarebbe ingiusto. E’ arrivato sempre primo, senza andare fuori tempo. Ha cantato in dialetto milanese, quando nessuno si sarebbe azzardato a farlo. Ha fatto lo stralunato in una tv che non permetteva sgarro a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Giocava con le parole, ma mica tanto. Perché raccontava quelle persone che nessuno aveva mai osato. Barboni, prostitute, gente di malavita. Raccontava Milano, anche, ma con un occhio su tutto il resto del Paese. Riascoltatevi “Sun chi”, firma sua e del maestro Dario. Racconta di quelli del Sud che arrivavano con la “piena”, e alla fine tutti abbiamo un nonno un parente che da quella piena del boom economico risorse per poi venirne soffocato. Era l’Italia, non era Milano.
Lo fece con la musica migliore e con grande leggerezza. “Solo Jannacci”, scrive Gianni Mura, “avrebbe potuto raccontare la storia di un soldato terrone e chiamarlo Nencini, un cognome toscano”. Ma a Jannacci veniva bene tutto. Alternava momenti di schizofrenia recitata a grande poesia. Basta pensare a Vincenzina e la fabbrica, scritta da lui e Beppe Viola, altro fratello maggiore e minore. Monicelli ne fece Romanzo Popolare, uno delle opere maggiori. E volle Jannacci e Viola a riscrivere i dialoghi in milanese.
Ci furono gli anni della Rai, ma soprattutto quelli del Derby dove crebbe una generazione di artisti e genialoidi. Giovane, ma Jannacci era già considerato il maestro. Faceva il direttore artistico di quel locale in viale Monte Rosa, dove si iniziava a vedere la Milano da bere, fatta da Craxi, Pillitteri, un ancora costruttore Silvio Berlusconi. Due o tre tavoli a fianco sedeva anche Francis Turatello, ammazzato qualche anno dopo nel carcere di Badu ‘e Carros, a Nuoro.
Jannacci una sera si alzò e andò a lavorare con Barnard, il cardiochirurgo. Ma tornò indietro, perché un’ernia al disco gli impediva di stare troppe ore in piedi e operare. Era avviato a una carriera medica di grande livello (lavorò in Sudafrica e Negli Stati Uniti), ma tornò a casa. Prima in ospedale a consumare guardie, poi in ambulatorio a curare le stesse persone di cui la notte raccontava.
Lascia tanti orfani, lascia due maestri, Fo, appunto, e per certi versi Mina che, giovanissima, capì chi era Enzo e incise un indimenticabile “Mina canta Jannacci”. Non basta, non basta assolutamente, perché raccontare Jannacci rischia di farci esagerare per chi lo ha considerato più di un poetastro.
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Un grande in tutte le sue attività. Monicelli si rammaricava volesse fare pochi film, ma con tutte le cose che aveva da fare ...un compagno coerente fino alla fine, tra l'altro.
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