Figuraccia internazionale e, come al solito, nessun responsabile
Lo scorso 17 luglio la nave della Marina Usa Rappahannock, appena al largo dello Stretto di Hormuz, è stata avvicinata da pescherecci indiani.
In una copia esatta dell’incidente che ha portato al tormentato caso dei sottufficiali italiani Latorre e Girone. Dopo avere dato gli stessi segnali di ricognizione dei marò, i militari americani hanno aperto il fuoco uccidendo un pescatore indiano e ferendone gravemente altri tre. Il governo del premier indiano Singh ha espresso «profonda tristezza», il governo americano ha inviato «condoglianze». Nessun graduato americano è stato fermato, interrogato, tratto in arresto o processato in India. L’ambasciatore di Washington non è stato fermato o ha visto negata l’immunità internazionale diplomatica, Washington e Nuova Delhi sanno che le acque dell’Oceano Indiano sono zona ad altissima tensione, tra pirati, terroristi, crescente influenza di Pechino. La vicenda — triste e tragica - è stata chiusa subito, tra due nazioni amiche. Il caso della Rappahannock è, ripetiamo, identico nella meccanica a quello in cui sono rimasti uccisi i pescatori Ajesh Binki e Gelastine: ma tra India e Stati Uniti niente ombre.
Se, davanti al disastro del ritorno dei sottufficiali del San Marco in un’India ora infuriata per il doppio voltafaccia del nostro governo il lettore riflettesse, «Beh l’India tratta l’America con maggiore rispetto dell’Italia, diverso peso nel mondo» sbaglierebbe. Perché nella discussione che da più di un anno divide due Paesi di solito amici, due democrazie, due tra le culture più antiche del pianeta, India e Italia, nessuno ricorda mai che la Marina Militare di Sri Lanka, non certo una flotta da paura, ha ucciso negli ultimi anni 500 (cinquecento) pescatori indiani, ferendone migliaia, sequestrando pescherecci e attrezzature senza che i diplomatici mai venissero presi in ostaggio, i militari di Sri Lanka processati, che i governi montassero la propaganda etnica e populista.
All’Italia gli indiani non hanno concesso quel che concedono agli Usa e a Sri Lanka. Chiunque, gli indiani per primi sulla loro difficile frontiera atomica con Cina e Pakistan, si occupi di zone militari a rischio sa che gli incidenti sono frequenti, dolorosi, inevitabili. E che la diplomazia serve dopo, a non farli degenerare in aggressività. Ma sull’Italia le autorità indiane, con passione militante le locali, riluttanti le nazionali, hanno deciso di puntare i piedi. Volevano una prova di forza che, agli occhi dell’inquieta opinione pubblica della sterminata democrazia e sulla scena mondiale dove la nuova India cerca prestigio, desse loro credibilità. Gliel’abbiamo data con ingenuità, l’hanno stravinta.
Il governo Monti era, nel difficilissimo febbraio del 2012, distratto da mille altri impegni e ha delegato la gestione al ministro Terzi e al suo vice De Mistura: due esperti diplomatici, abituati però dal loro mestiere a cercare sempre la conciliazione, il negoziato, lasciando poi che semmai la rottura, il pugno sul tavolo, sia sbattuto dai politici. Solo che, stavolta, «i politici» erano loro. E dall’incuria con cui i sottufficiali sono stati fatti scendere dalla nave Enrica Lexia, che proteggevano, alla conduzione casual del negoziato, le offerte di fiducia all’India non sono mai state contraccambiate. Nessun processo per gli americani che hanno fatto vittime tra i pescatori a Hormuz, abitudine rassegnata alle vittime quotidiane della Marina di Sri Lanka, inflessibili con gli uomini del San Marco.
L’opinione pubblica italiana ha ignorato Latorre e Girone. Qualcuno, a destra, ha provato a strumentalizzarli in campagna elettorale, altri a sinistra, specie sul web, li hanno considerati «assassini». In generale indifferenza, «abbiamo ben altro a cui pensare». Poi, mentre l’esperienza del governo Monti si avvia al crepuscolo, l’irrigidimento, «i marò non tornano a casa», figuraccia internazionale che almeno avrebbe schermato i militari da un processo umiliante.
Qui l’India ha trasformato una ragione in torto, violando il diritto internazionale da Grozio in avanti, la Convenzione di Vienna e mettendo in pratica agli arresti il nostro ambasciatore Mancini, reo di avere fatto il suo lavoro: garantire il proprio governo. Il premier Singh poteva cacciarlo, non fermarlo. A questo punto pressioni economiche, l’Italia è quarto partner europeo in India, dove operano oltre 400 nostre aziende, e il silenzio europeo, con Lady Ashton, ministro degli Esteri che ha fatto da Ponzio Pilato azzittendo l’Ue, hanno fatto capire a Roma che dall’estrema mollezza si passava a
una grinta assurda. Invece di «vedere» il bluff di New Delhi, trattare, fare altre concessioni, si rimandano i due militari Latorre e Gfrone, da soli, a fronteggiare l’ira indiana e a pagare le colpe della nostra inanità diplomatica.
Storia triste, l’Italia ne esce male, l’India vince la mano ma non riuscirà a ripetere con partner meno fragili il colpo riuscito con l’Italia.
Fedeli alla disciplina militare Latorre e Girone tornano in India. Chi resta, tranquillo, in Italia dovrebbe riflettere sulla disciplina politica, economica, civile, diplomatica che ci servirebbe per essere rispettati nel mondo globale come gli Usa o almeno come Sri Lanka. I due pescatori indiani, i due militari italiani a processo in un tribunale ora ostile, con il presidente della Corte Suprema che anticipa il verdetto annunciando di non fidarsi più degli italiani, sono vittime. Tutti gli altri troveranno
una scusa per pensare ad altro, destra, centro, sinistra, Grillo. Povera Italia.
La Stampa
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