Mattarella Sergio : Presidente della Repubblica Italiana.
Renzi ha vinto, Berlusconi ha perso, Grillo spettatore
Il candidato unico voluto dal premier Matteo Renzi ha ottenuto 665 voti, ben al di sopra di quanto erano previsti e ben più di quanti erano necessari (505).
Matteo Renzi è sicuramente il trionfatore di queste elezioni. Il premier non aveva mai giocato una partita politica e istituzionale di tale livello eppure ha dimostrato grandi capacità strategiche: ha incassato i voti di Forza Italia sulla legge elettorale, ha lasciato che Alfano e Berlusconi facessero il loro gioco attorno alle candidature di Amato e Casini ma alla fine ha serrato i ranghi del Pd, facendo scacco matto con Mattarella.
Berlusconi è sicuramente è il perdente massimo. Aveva creduto nel patto del Nazareno, si è fidato del premier, rimanendo con un pugno di mosche in mano. In più si trova Forza Italia spaccata ancora più di prima, con Fitto sulle barricate e i fedelissimi che non credono più alle sue capacità politiche.
Beppe Grillo è rimasto spettatore col suo Movimento 5 stelle. Prima ha fatto fare le quirinarie sul web vinte da Imposimato, poi ha pensato di inserirsi all’ultimo minuto sul nome di Mattarella per mettere in difficoltà il Pd, ma con il suo gioco non è stato capace di mettere una bastone tra le ruote a Renzi.
Moderato, serio, ragionatore. Perse le staffe solo quando la Dc virò a destra
La passione per i meccanismi elettorali ce l’aveva fin da ragazzo, il nuovo Presidente Sergio Mattarella, e vent’anni fa legò il suo nome alla legge che introdusse in Italia i collegi uninominali e battezzò la Seconda Repubblica. Ironia della sorte, quel sistema studiato a tavolino da uno che a trent’anni costruiva scientificamente, insieme al fratello, strategie e candidature per le elezioni regionali siciliane, invece di garantire il traghettamento di quel po’ ch’era rimasto della classe dirigente, dall’epoca della dannazione al nuovo mondo, aprì la strada a Berlusconi e a un centrodestra imbastito in fretta e furia, arrivato assai acerbo nella stanza dei bottoni. Mite, pacato, serio, ragionatore, alzi la mano chi lo ha mai sentito una volta alzare la voce: così chi lo conosce lo descrive da sempre. Eppure in quell’incredibile ’94 in cui il Cavaliere in soli tre mesi spiccò il balzo da Arcore a Palazzo Chigi, complice il terribile errore politico di Achille Occhetto e Mino Martinazzoli di presentarsi divisi, Sergio Mattarella una volta perse la calma. Sarà stato il 20 di giugno, in un sotterraneo dell’hotel Ergife, un albergone romano sulla via Aurelia usato per celebrare i concorsi pubblici con migliaia e migliaia di candidati. In una saletta dalla luce incerta, non distante da quella in cui qualche mese prima Craxi aveva gettato la spugna, il Partito popolare erede della vecchia Dc rifletteva sulla peggiore sconfitta della sua storia: dieci milioni di voti, raccolti e persi per la maggior parte nei collegi, dove la legge spietata del vince chi ha un voto in più aveva visto cadere decine di candidati, e alla fine solo una novantina di eletti arrivare a Camera e Senato.
Il fondatore, Martinazzoli, s’era dimesso. Tra risentimenti e divisioni interne, era arrivato inaspettatamente a succedergli il professor Rocco Buttiglione, teorico di una inevitabile svolta a destra del partito che aveva nel suo Dna il “centro che guarda a sinistra”. Tensione, proteste, inutili discussioni regolamentari, come succede spesso quando la politica non ha più argomenti, e però i numeri sono numeri e Buttiglione ce la fa. A quel punto, un pezzo di sinistra dc, che fino a quel momento aveva governato il partito, si alza e se ne va. Escono gridando, sotto gli occhi increduli di chi rimane: “Fascisti, fascisti, fascisti!”. A guidare il piccolo corteo dei resistenti ci sono Rosi Bindi e Mattarella. Oggi che sono in pochi a ricordarsi di quell’episodio, nessuno si meraviglia: neppure gli amici siciliani abbottonatissimi sugli aneddoti sul Mattarella giovane, che ripetono che Sergio è sempre stato così: moderato, razionale, disponibile, ma fermo su principi e valori, sui quali non transige.
Come quell’altra volta, che dicono gli sia costata l’ostilità berlusconiana di questi giorni, che si dimise insieme ad altri quattro ministri, manco a dirlo della sinistra democristiana, per non dover votare la fiducia posta da Andreotti sulla legge Mammì, la prima regolamentazione dell’etere televisivo rimasto fino a quel momento selvaggio e occupato in parte da Berlusconi con le sue tv. Fu Mattarella a illustrare le ragioni di quella decisione repentina, il pomeriggio del 26 luglio 1990: «La fiducia per violare una direttiva comunitaria è inaccettabile». Andreotti per tutta risposta in sole ventiquattr’ore nominò cinque nuovi ministri, scegliendoli in parte dalla stessa corrente, e la legge Mammì fu approvata.
Come capita talvolta, i due fratelli Piersanti e Sergio Mattarella, figli di Bernardo, parlamentare e ministro Dc negli anni del Dopoguerra, erano molto diversi tra loro. Si dice che in ogni famiglia siciliana ci sia un figlio arabo e uno normanno: così Piersanti, il maggiore, aveva il piglio di un guerriero saraceno ed era stato l’erede designato della tradizione politica paterna. Mentre Sergio aveva scelto gli studi e l’università, dov’era andato in cattedra presto come costituzionalista. Per molti anni i due fratelli, che avevano sposato due sorelle, Irma e Marisa (scomparsa di recente), figlie del grande romanista Lauro Chiazzese, si erano dedicati a difendere nelle aule di giustizia l’onore del padre dalle accuse, mai dimostrate, di legami con la mafia. Poi Piersanti aveva preso la statura del leader, indeciso tra la dimensione regionale e quella nazionale.
Nel 1979, benché fosse ormai maturo il suo debutto in Parlamento, Benigno Zaccagnini, il segretario della Dc che veniva dalla Resistenza e amava le feste campagnole nella sua Romagna, al canto di “Bella ciao”, lo aveva convinto a restare in Sicilia, puntare alla presidenza della Regione e fare una bella opera di pulizia nell’amministrazione infestata di legami clientelari e criminali. La risposta della mafia, il 6 gennaio del 1980, furono le raffiche di mitra che fermarono per sempre il guerriero di casa Mattarella. Piersanti era stato ammazzato davanti al portone di casa sua. In quello accanto, al pianterreno di via Libertà 135, nel centro elegante della città sventrata dalla speculazione mafiosa, c’era lo studio in cui, accanto al presidente della Regione, si riunivano il fratello Sergio, un altro giovane professore di diritto amministrativo che si chiamava Leoluca Orlando e un economista, Salvatore Butera, che guidava l’ufficio studi del Banco di Sicilia. Era il “think-tank” del giovane presidente che cominciava a sentirsi accerchiato e dedicava le sue serate a ragionare con quel gruppo di giovani professorini che condividevano la sua sfida.
La carriera politica di Sergio Mattarella (e di Leoluca Orlando, di lì a poco, con l’aiuto di Sergio, sindaco eretico di una giunta con i comunisti) cominciò quel giorno di Epifania in cui il fratello fu ammazzato. Se Piersanti non fosse morto in quel modo, forse avrebbe continuato a fare il professore. Invece il suo destino era di proseguire l’opera del fratello: in Parlamento, al governo, alla Corte costituzionale. E adesso al Quirinale.
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