G8 : Blitz della polizia fu tortura
Subito il numero identificativo
Secondo i giudici, è stato violato l’articolo 3 della convenzione europea dei diritti umani sul “divieto di tortura e di trattamenti disumani o degradanti”
La sentenza della Corte Europea che ci condanna per i fatti della Diaz (e Bolzaneto) dimostra senza ombra di dubbio che il governo Berlusconi rappresentava una Destra totalitaria vile e di stile cileno.
Occorrerebbe forse ricordare che in quei giorni a Genova era presente lo stesso Fini, allora, vice-Presidente del Consiglio dell'esecutivo di Centro-Destra del tempo.
La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l’Italia per tortura per il comportamento tenuto dalle forze dell’ordine durante l’irruzione alla scuola Diaz avvenuta nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001, alla fine del summit del G8 a Genova. I giudici hanno dichiarato all’unanimità che è stato violato l’articolo 3 della convenzione europea dei diritti umani sul “divieto di tortura e di trattamenti disumani o degradanti”.
Il ricorso è stato presentato da Arnaldo Cestaro, che all’epoca dei fatti aveva 62 anni e si trovava nella scuola Diaz quando un’unità della polizia ha fatto irruzione nell’edificio per una perquisizione. Cestaro ha denunciato di essere stato picchiato dagli agenti, che gli hanno causato diverse fratture, nonostante fosse contro un muro con le braccia alzate. L’Italia dovrà versare a Cestaro un risarcimento di 45mila euro per danni morali. L'uomo ha riportato danni permanenti a causa del pestaggio subito alla Diaz: "Mi sentirò davvero risarcito quando la tortura diventerà reato"
La Corte ha concluso che l’articolo 3 della convenzione è stato violato anche a causa di una legislazione penale inadeguata, che non prevede il reato di tortura. Nella sentenza si sottolinea che è necessario che “l’ordinamento giuridico italiano si munisca degli strumenti giuridici adatti a sanzionare in modo adeguato i responsabili di atti di tortura o di altri maltrattamenti”.
Secondo i giudici, continua, nei pochi minuti in cui gli uomini del Reparto mobile di Roma e altri agenti (“Una macedonia di divise”, la definì Vincenzo Canterini, allora comandante del Reparto mobile di Roma, poi condannato al processo Diaz) hanno consumato le violenze, si sono creati quelle condizioni di “sofferenza fisica e psicologica” tipici della tortura. La sentenza ricorda in particolare, oltre alle violenze subite dagli ospiti della Diaz colti per lo più nel sonno (il blitz scattò intorno a mezzanotte), “le posizioni umilianti, l’impossibilità di contattare avvocati, assenza di cure adeguate in tempo utile, la presenza di agenti delle forze dell’ordine durante l’esame medico”. L’assenza del reato di tortura in Italia, nonostante gli obblighi internazionali assunti, in particolare con la ratifica della Convenzione di New York del 1984, “è assolutamente deplorevole”.
video
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Il video non ha bisogno di essere commentato, le immagini parlano da sole, è un video inedito della violenta irruzione alla Diaz, la vergognosa notte del 21 luglio 2001. Veramente Vergogna la notte nera della democrazia!
LA NOTTE DELLA DIAZ: 93 ARRESTATI, 60 FERITI. La notte del 21 luglio 2001, quando sia il vertice dei “Grandi della terra” che le manifestazioni di protesta erano terminate, diverse decine di agenti della Polizia di stato fecero irruzione nel complesse scolastico Diaz-Pertini, che era diventato un dormitorio per i cosidetti “no global” radunatisi a Genova per contestare il G8. Su 93 persone arrestate, con l’accusa di appartenere al “black bloc” protagonista degli scontri più duri delle due giornate precedenti, oltre 60 rimasero ferite nel pestaggio seguito all’irruzione, di cui almeno due in modo grave. La posizione dei 93 fu poi archiviata dalla Procura di Genova nel 2003, mentre il processo contro dirigenti e agenti protagonisti dell’irruzione è terminato in Cassazione nel 2012 con 25 condanne. Il processo ha documentato che la polizia costruì prove false per incastrare i manifestanti, a cominciare da due bottiglie molotov portate nella scuola dagli stessi poliziotti e poi esibite alla stampa tra gli oggetti sequestrati, a riprova della pericolosità degli arrestati.
Il sangue, le grida di dolore, la paura che respiravi nell'aria, i ragazzi che uscivano feriti, picchiati, umiliati. Bastava guardare un frammento di realtà per capire che quello che era successo alla Diaz era l'inimmaginabile: la violenza da regime che spodestava la democrazia e se la prendeva con un sacco di ragazzi inermi, pieni di sogni e di speranze. Bastava prendere una delle mille lacrime che scendevano dai loro occhi per capire che quella notte, in quella scuola, era accaduto quello che non sarebbe mai dovuto accadere: la tortura di centinaia di ragazzi inermi.
Tortura. E ciò che era chiaro a tutto il mondo non lo ha stabilito la politica italiana, il governo, una commissione di inchiesta. No. 14 anni dopo, è venuto a dircelo
la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo.
Al processo, infatti, nessun poliziotto è stato condannato per specifici episodi di violenza (la maggior parte degli agenti aveva il volto coperto da caschi e foulard). I responsabili materiali delle percosse subite dai manifestanti non sono mai stati identificati, anche perché “la polizia italiana ha potuto impunemente rifiutare alle autorità competenti la necessaria collaborazione per identificare gli agenti che potevano essere implicati negli atti di tortura”.
300.000 euro all'anno come Presidente di Finmeccanica. Il fortunato si chiama Gianni De Gennaro. "Chissà che curriculum ha per aver guadagnato una simile poltrona" direte voi...un curriculum che più indegno non si può da ex capo della polizia al quale possiamo aggiungere la condanna che il Paese riceve oggi dalla Corte europea dei diritti umani : alla scuola Diaz la polizia praticò torture
E in Italia l'infame è stato assolto pur avendo accertato che in quella scuola avvenne "inqualificabile violenza".
A Genova il gup (giudice dell'udienza preliminare) ha depositato le motivazioni delle recenti assoluzioni di Gianni De Gennaro e Spartaco Mortola, dalle quali risulta che l'ex capo della polizia, oggi coordinatore dei servizi segreti, è stato assolto perché i pm non hanno prodotto prove sufficienti. E' una formula ben più restrittiva dell'assoluzione "per non aver commesso il fatto".
Insomma, il giudice non esclude affatto che le cose siano andate come i pm Zucca e Cardona Albini sostengono - l'ex questore Francesco Colucci avrebbe cambiato versione in aula sotto pressione di De Gennaro - ma ritiene che non vi siano prove sufficienti. Le parole testuali del gup sono queste: ''L'ex capo della polizia Gianni De Gennaro deve essere assolto per non avere commesso il fatto risultando insufficiente la prova che sia stato l'ispiratore del cambio di versione di Colucci su Sgalla o, quanto meno, che l'abbia fatto nella consapevolezza che il teste avrebbe reso dichiarazioni almeno soggettivamente false''.
Le ombre dunque rimangono e appare ancor più inopportuna e indecorosa sotto il profilo istituzionale e democratico la corsa a complimentarsi per l'assoluzione e la "dignità restituita", nella quale si sono cimentati esponenti politici di maggioranza e d'opposizione all'indomani della sentenza. Il caso Genova G8 resituisce, una volta di più, un'immagine tutt'altro che limpida del dottor De Gennaro.
Torturare non è e non sarà un reato penale.
«L’Italia ha bisogno del reato di tortura e la decisione di non introdurlo nel codice penale è un messaggio estremamente negativo», commenta il presidente del comitato europeo per la prevenzione della tortura , Mauro Palma. «La tradizionale posizione dell’Italia secondo cui nel nostro ordinamento non c’è bisogno di questo reato specifico — spiega Palma — non vale più perché nel frattempo ci sono stati casi, come quello del G8 di Genova, per il quale i giudici hanno sottolineato proprio la mancanza del reato di tortura lamentando i rischi elevati di prescrizione per comportamenti simili a tortura ma identificati come reati minori. La non introduzione del reato dunque modifica la percezione di gravità dei comportamenti e non consente la necessaria maggiore trasparenza nei luoghi di detenzione di ogni paese civile».
Istituire un garante nazionale a tutela di tutte le persone private delle libertà non è un’eresia. Esiste, per dire, non solo in Inghilterra e Germania ma anche in paesi come Armenia, Ucraina, Albania, Brasile, Mali .
E’ dal 1989 che il parlamento prova a vietare la tortura per legge. Nel ’91 Domenico Modugno, da radicale, si spese personalmente insieme a Franco Corleone. Ma Pdl e Lega non sono nuovi a figuracce imbarazzanti su una materia così sensibile. Nell’aprile 2005 Carolina Lussana della Lega affondò una proposta quasi unanime chiedendo e ottenendo il divieto solo della «tortura reiterata». Cioè farlo una sola volta era permesso. La legge si insabbiò poi nella vergogna. Anche il centrosinistra però, quando al governo, non ha mai mantenuto le promesse. Nel 2008 il reato fu approvato alla camera e calendarizzato in senato per gennaio, con il governo Prodi di fatto già in crisi. Oggi un no pubblico e quasi orgoglioso di fronte al massimo organismo mondiale per i diritti umani.
“Che tristezza, deve essere una ‘entità esterna’ come la Corte di Strasburgo a spiegarci che a #Diaz e #Bolzaneto ci fu tortura”, ha twittato Daniele Vicari, regista del film ‘Diaz – Don’t Clean Up This Blood’, ricostruzione cruda ma realistica di quei fatti. Alla corte di Strasburgo sono pendenti diversi ricorsi riguardanti le violenze subite dai fermati nel centro di detenzione di Bolzaneto. In quel caso furono gli stessi pm che condussero l’inchiesta a mettere nero su bianco che a Bolzaneto ricorsero gli estremi della tortura, secondo le definizioni del diritto internazionale, ma che in Italia il reato non esisteva.
BASTEREBBE UNA SOLA LEGGE :
Codici identificativi sui caschi degli agenti di polizia.
G8 2001
ITALIA CONDANNATA PER TORTURA
NON CI VERGOGNAMO PIU' DI NIENTE
Gli altri Paesi europei
In diversi Paesi europei esistono già provvedimenti per l’identificazione individuale degli agenti di polizia in servizio. Per quanto variegata, legata a misure in gran parte locali e non priva di contraddizioni, si può in generale constatare una rinnovata attenzione e iniziativa regolamentatrice a livello europeo su un tema tornato sull’agenda politica parallelamente alle contestazioni di piazza e agli abusi di potere da parte degli agenti nella gestione dell’ordine pubblico. Uno sguardo ai nostri vicini europei può darci un’idea delle buone pratiche da prendere ad esempio, così come dei rischi legati all’adozione di regole identificative “di facciata”, senza reali strumenti per assicurarne il pieno rispetto.
Regno Unito
Nel Regno Unito non esiste una regolamentazione unica per l’identificazione degli agenti, ma varia da regione a regione. La “Dress Code Policy” per la polizia metropolitana di Londra stabilisce l’obbligo per tutti gli agenti in servizio di esporre il codice identificativo nella spallina dell’uniforme, in modo che sia “visibile in ogni momento”. Non sono previste esplicite sanzioni per garantire il rispetto del regolamento, ma la sua violazione da parte degli agenti può determinare specifiche misure disciplinari, che restano però a discrezione dei commissariati. Dopo gli scontri tra manifestati e forze dell’ordine per il summit del G20 a Londra nel 2009, nel corso dei quali diversi agenti sono stati accusati dalla stampa e da partiti di entrambi gli schieramenti di non aver esposto il codice identificativo, il rispetto del ‘dress code’ da parte della Metropolitan Police Authority è diventato più stretto.
Francia
Fra le promesse di Hollande in campagna elettorale, il decreto del Ministero degli Interni firmato da Manuel Valls nel dicembre del 2013 ha introdotto in Francia l’obbligo per gli agenti in servizio, sia in uniforme che in borghese, di esporre un codice identificativo individuale di sette cifre, il “référentiel des identités et de l'organisation”. La normativa prevede eccezioni per gli agenti incaricati di presidiare la direzione generale della sicurezza interna, per quelli di servizio presso le sedi diplomatiche francesi all’estero, e quando sia richiesta la divisa ufficiale in occasione di cerimonie o commemorazioni. Sono inoltre esclusi dall’obbligo di identificazione alcune unità della polizia e della gendarmeria di Stato, come quelle di contrasto al terrorismo, i corpi incaricati della sicurezza del presidente della Repubblica e le unità di “ricerca, assistenza, intervento e dissuasione. L’identificazione del poliziotto attraverso un numero portato in maniera trasparente, spiega il ministero degli Interni transalpino, si fonda sull'esigenza di principi di trasparenza e responsabilità individuali. Nonostante il mancato richiamo nel decreto a misure sanzionatorie per gli agenti inadempienti, i sindacati di polizia hanno denunciato il ricorso a sanzioni disciplinari da parte del Ministero degli Interni per assicurare il rispetto dell’obbligo, come dichiarato pubblicamente dallo stesso Valls all’entrata in vigore della nuova normativa nel gennaio 2014.
Germania
In Germania non esiste l’obbligo di identificazione per la polizia federale, ma è invece adottato in diversi Länder per i corpi di polizia regionali, dove nella gran parte dei casi la polizia è libera di scegliere se riportare un’etichetta identificativa o meno. A Berlino, però, dal luglio 2011 la polizia ha l’obbligo di esporre un codice di riconoscimento di quattro cifre. Un provvedimento accolto tra le proteste dei sindacati di polizia, che hanno a lungo dato battaglia per ripristinare la normativa precedente, che obbligava gli agenti a dichiarare il proprio codice identificativo solo se richiesto, lasciando poi ai singoli la possibilità di riportarlo sulla propria uniforme. Sulla scia dell’iniziativa berlinese, anche lo Stato di Brandeburgo ha introdotto nel 2013 l’obbligo di identificazione per le unità di polizia sotto la sua giurisdizione. Nello Schleswing-Holstein resta in sospeso un progetto di legge dal 2010 sull’introduzione di numeri identificativi, fortemente osteggiato dai cristiano-democratici. In Sassonia dal primo aprile 2012 è stato introdotto l’obbligo di matricole di riconoscimento per gli agenti, ma non per quelli che operano “in situazioni pericolose” (tra cui le manifestazioni): un’eccezione questa contro cui continuano a battersi le sinistre e numerosi comitati cittadini.
Spagna
Ad eccezione delle unità incaricate di mantenere l’ordine pubblico, anche in Spagna esiste sulla carta un obbligo di identificazione pubblica per gli agenti, anche se non sono previste misure per garantirne l’effettivo rispetto. Nel Paese è stata approvata proprio in questi giorni una legge definita di “stampo franchista”, con i soli voti del Partito Popolare al governo, ma osteggiata, secondo un sondaggio, da otto spagnoli su dieci. Le nuove norme prevedono sanzioni fino a 30mila euro per una serie di infrazioni, come l’esposizione di cartelli e simboli o il rifiuto ad abbandonare una manifestazione.
Grecia
Nel gennaio del 2010 il governo greco ha emendato il precedente regolamento sull’identificazione pubblica della polizia, introducendo l’obbligo per tutti gli agenti di rendere visibile nelle proprie spalline un codice di riconoscimento individuale. Per gli agenti in tenuta anti-sommossa, un codice relativo alla proprio unità di riferimento e all’identificazione del singolo è riportato in evidenza sul casco protettivo. In un rapporto del 2012 sugli abusi e le violenze perpetrate dalla polizia ellenica nelle proteste contro le politiche di austerità, Amnesty ha però denunciato la pratica adottata dalle unità preposte all’ordine pubblico di riportare il codice identificativo nella parte posteriore del casco, aggirando così di fatto l’obbligo di essere chiaramente identificabili dai manifestanti.
Belgio
Vi è una norma che obbliga gli agenti a portare una targhetta con nome, grado e forza di polizia. Tuttavia, nell’aprile 2013, la Commissione Interni del Senato ha fatto propria una proposta di Gérard Deprez del Mouvement réformateur tesa a mantenere l’identificabilità delle forze di polizia, ma al contempo a garantirne l’anonimato, per il rischio di ritorsioni. In pratica, si pensa a una norma che sostituisca i nomi sulle divise appunto con codici identificativi.
Olanda
Due sono le principali caratteristiche delle divise nel Paese: per gli agenti c’è l'obbligo di portare sull'uniforme una targhetta con il nome, ma contestualmente le forze di polizia che agiscono in situazioni di ordine pubblico portano un numero sul casco. La targhetta fa parte dell'uniforme, anche se vi sono casi in cui viene nascosta. Non vengono comunque previste disposizioni particolari per chi occulta la targhetta.
Turchia
Nel giugno 2013, attraverso il suo blog, il giornalista e attivista per i diritti civili, Lorenzo Guadagnucci, pubblicò una foto di un agente in divisa che in Turchia si stava scagliando contro una manifestante. Nel Paese di Erdogan, che aspira da anni a entrare nell’Ue, esiste l’obbligo di avere dei codici identificativi sui caschi, ma l’agente aveva pensato bene di occultare il proprio con una striscia di scotch colorato. Il caso ha voluto che una folata di vento scollasse per un istante quel nastro dal casco e che un fotografo freelance fosse lì a immortalarlo. Quell’immagine ha fatto il giro del mondo e il poliziotto - in un Paese che non brilla certo in materia di diritti civili - ha rischiato sanzioni. Si tratta di un fatto indubbiamente simbolico, ma che ne evidenzia - scrive Guadagnucci - uno molto più importante: “Il gesto dell'agente ritratto nella nostra fotografia, il suo goffo tentativo di occultamento del codice, dimostra che il timore d'essere identificati è un deterrente per gli agenti mal intenzionati e in generale un freno per gli eccessi preordinati nell'uso della forza”.
In Europa non mancano quindi esempi di cui fare tesoro per una maggiore tutela dei cittadini da eventuali abusi nella gestione dell’ordine pubblico. L’identificabilità degli agenti non basta da sola a risolvere il problema, ma è un passo necessario per rendere più trasparente l’operato della polizia, combattendo l’impunità e prevenendo la formazione di nuclei ideologizzati al suo interno. Anche in Italia si apre adesso la concreta possibilità di recuperare anni di ritardo e chiusura su un tema che tocca direttamente la qualità della democrazia e la libertà di espressione. Un’occasione che non deve andare sprecata.
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Diaz, condanne per i vertici della polizia
PORCO DIAZ !
CHE BELLE CARRIERE HANNO FATTO I POLIZIOTTI DEL G8 DI GENOVA! DAL VIMINALE A FINMECCANICA, SI SONO RICICLATI TUTTI: ALCUNI COME MANAGER ALTRI PROMOSSI QUESTORI, CAPI DIPARTIMENTO O PREFETTI -
ECCO DOVE SONO FINITI…
http://cipiri.blogspot.it/2015/04/g8-2011-la-carriera-dei-poliziotti.html
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