Siamo in recessione, questo è ufficiale.
E, siccome siamo un paese ridicolo,
è subito scattata la corsa a decidere “di chi è la colpa”?
Come se l’economia di un paese fortemente interconnesso fosse una
“variabile indipendente” dal sistema europeo e globale.
Vediamo intanto i dati. L’Istat ieri ha certificato che nel quarto trimestre del 2018 il prodotto interno lordo (Pil) è diminuito dello 0,2% rispetto al trimestre precedente
e aumentato dello 0,1% in termini tendenziali (sull’anno).
Si tratta del secondo calo consecutivo (il terzo trimestre si è chiuso con un -0,1%) e dunque, per consuetudine statistica, si deve parlare di recessione tecnica. Insomma,
è proprio così e non ci si può girare intorno.
Interessante però la prima disaggregazione dei dati fornita dall’Istat: “La variazione congiunturale è la sintesi di una diminuzione del valore aggiunto nel comparto dell’agricoltura, silvicoltura e pesca e in quello dell’industria e di una sostanziale stabilità dei servizi. Dal lato della domanda, vi è un contributo negativo della componente nazionale (al lordo delle scorte) e un apporto positivo della componente estera netta.”
Traduciamo per i non addetti ai lavori: industria e agricoltura sono andati male, hanno tenuto i servizi. Ma soprattutto cala fortemente il mercato interno, al punto da cancellare l’apporto positivo della crescita delle esportazioni.
Cosa significa? Che la grande maggioranza dei nostri concittadini fanno fatica a fare la spesa (in senso generale, dagli alimentari all’automobile alla casa) e quindi le aziende che producono soprattutto per il mercato interno – quelle piccole e medie, che non hanno grandi spazi nell’export – vedono contrarsi ordini e fatturato. Dunque il Pil cala, anche se quelle più grandi che vivono di esportazioni hanno continuato a crescere. Il che comporta un “effetto trascinamento” sulla produzione 2019 già in negativo dello 0,2%.
Su base annua – dal 1 gennaio al 31 dicembre – il Pil 2018 è cresciuto solo dello 0,8%, mentre la media dell’Eurozona è stata dell’1,8. Ma questo risultato, a prima vista molto più positivo di quello italiano, è a sua volta disastroso, perché negli ultimi tre mesi del 2018 il Pil dell’Eurozona ha rallentato la sua crescita come mai era accaduto negli ultimi quattro anni. In pratica il 2018 è stato per la zona euro l’anno con la più bassa espansione dal 2014.
Francia e Germania hanno chiuso l’anno con lo stesso risultato (+1,5%), mentre solo la Spagna sembra andare discretamente (+2,5, con +0,7% nel quarto trimestre). Ma anche lei in forte calo rispetto agli anni precedenti (oltre il +3% per quattro anni consecutivi).
La cosa interessante è che la discreta prestazione spagnola è frutto di una combinazione di fattori opposta rispetto a quella italiana: +2,7% la domanda interna, appena + 0,3 quella estera. Si vede che i salari di Madrid, pur espressi nella stessa moneta, hanno un potere d’acquisto maggiore (sono “relativamente” più alti, insomma, rispetto ai prezzi delle merci).
Prima di tutto due dati. L’indice Pmi manifatturiero tedesco era previsto a 49.9 punti (il livello 50 separa la recessione dalla crescita), ma il dato reale diffuso stamattina è anche peggiore: 49.7. L’industria tedesca è dunque in contrazione.
Anche Jens Weidmann, presidente di Bundesbank, prevede un pessimo futuro prossimo per l’economia del suo paese e per tutta l’Eurozona: “L’inflazione della zona euro nel 2019 potrebbe disattendere di molto le stime dello staff Bce a causa del calo dei prezzi del greggio, mentre il processo di normalizzazione della politica monetaria da parte dell’istituto centrale richiederà probabilmente diversi anni.”
Un tecnico gli farebbe notare che se tutte le attese per un’inflazione “desiderabile” (intorno al 2%) dipendono dal prezzo del petrolio – classificato come una “componente esterna” – allora significa che la dinamica interna core di prezzi e salari è strutturalmente al di sotto di quel livello. Ovvero che i salari sono fermi (eufemismo), e dunque la scarsità di domanda – non “di banane”, come piace dire a Cottarelli – impedisce ai prezzi di salire.
E in effetti nella ricca Germania tormentata dai bassi salari dei minijobs (grazie alle “riforme Hartz IV”) le vendite al dettaglio sono calate del -2.1% rispetto all’anno precedente. Chissà perché…
Il male italiano, insomma, è un male europeo, ma non per questo si può chiamare un “mezzo gaudio”, anche perché notevolmente peggiore della media.
Il “grande malato” – come lo chiama anche Ashoka Mody – è infatti la Germania che ha ridisegnato, dalla caduta del Muro in poi e grazie alle regole previste nei trattati europei, le filiere produttive di tutta Europa in funzione del proprio sistema industriale e secondo un modello neo-mercantilista. Ovvero “orientato alle esportazioni”.
Un modello che ha avuto successo e premiato la Germania, ma che ora ha “esaurito la sua spinta propulsiva” – la cosiddetta globalizzazione si è interrotta, aprendo una stagione di competizione tra aree continentali – scoprendosi incapace di modificare in corsa i propri assetti.
L’austerità non risana i conti pubblici (anzi… come testimoniano Grecia e Italia, tra gli altri) e congela la dinamica economica. Persino, ormai, quella tedesca
che aveva tratto il massimo beneficio da quelle regole.
Ma è inutile chiedere a Berlino di ripensarsi. Non possono, dovrebbero smantellare tutto e subire il rischio dell’esplosione immediata delle contraddizioni fin qui tenute a bada proprio tramite i trattati europei e l’euro, ma che – dialetticamente – ne hanno create altrettante e incontrollabili,
perché impreviste.
Come spiega solo ora Innocenzo Cipolletta, indimenticato ex direttore di Confindustria, “l’Unione Europea a 500 milioni di abitanti non può basarsi sull’export, deve pensare alla domanda interna aumentando i salari”. Autocritica no, ma constatazione del disastro sì…
Un quadro sistemico e storico più serio lo dà Pasquale Cicalese, che ricorda alcune semplici verità: “Immaginate che 26 anni fa vi era un’area economica che aveva un pil pari al Portogallo. Immaginate che quest’area economica in 26 anni abbia raggiunto un pil pari a tutta l’Ue con la prospettiva futura, stante così le cose, che nei prossimi anni la supererà abbondantemente. Bene, sapete quanto esporta l’Italia in quest’area? Il 3% del totale dell’export contro il 48% del totale dell’export verso l’Ue. Un’area economica quanto l’Ue come se non esistesse per l’imprenditoria italiana. Quest’area si chiama Cina e detiene il 32% della produzione industriale mondiale contro l 4,6% della Germania. In 26 anni costoro, in Europa, erano troppo intenti a parlare di costo del lavoro, abbattendo i salari, a chiedere sussidi, a riformare la costituzione, in luogo di fare i capitalisti in un mondo profondamente mutato. Mentre i sindacati si pappavano la torta della formazione professionale e dei patronati.”
Se questa è la situazione attuale, le polemichette italiche su di chi sia “la colpa” per il ritorno della recessione appaiono latrati da cagnolini ciechi.
Luigi Di Maio, per esempio, si copre di ridicolo dicendo, come un bambino alle prese con un gioco più grande di lui, “I dati Istat testimoniano una cosa fondamentale: chi stava al governo prima di noi ci ha mentito, non ci ha mai portato fuori dalla crisi”… Addirittura peggiore risulta il Pier Carlo Padoan che controbatte: “Quelle di Palazzo Chigi sul Pil sono dichiarazioni infami e ignoranti.
I dati parlano chiaro.
L’andamento negativo è cominciato con la nuova maggioranza e con l’impatto dello spread“.
Perché peggiore? Perché un economista vero, un tempo addirittura dirigente del Pci, non può ignorare che questa nuova crisi è sistemica, non “locale”. Coinvolge infatti tutto il pianeta, sia pure in modo differenziale, e investe tutti i meccanismi fondamentali attivi negli ultimi30 anni; per di più, è stata vista arrivare ormai da più di un anno. Soprattutto non può ignorare, al pari dei pochi leghisti che masticano di economia, che la posizione particolarmente debole dell’Italia dipende dal suo essere diventata in buona parte “contoterzista” delle grandi multinazionali tedesche.
Se quelle frenano, l’Italia segue. Punto.
Una trasformazione avvenuta in oltre 20 anni, favorita in tutto e per tutto dai governi berlusconiani e prodiani (e dalemiani, montiani, lettiani, renziani…), addirittura “pretesa” con forza da Confindustria e soprattutto dalla sua componente Nordest. Quella che ha nutrito la bestia leghista e ora si ritrova con una classe politica inetta, senza più una prospettiva di crescita.
di Francesco Piccioni
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