Ad Haiti non cambierà mai nulla?
Simone Sarcia* :: Mariavittoria Ballotta*
Un paese difficile da capire raccontato da due cooperanti, che ad Haiti hanno trascorso tre anni
Il rischio che si corre a vivere ad Haiti è di cominciare a diventare un po’ haitiani. Il paese è estremamente difficile da capire appena arrivati, al punto che molti degli internazionali che arrivano si scoraggiano da subito e non fanno più alcun tentativo di avvicinamento a questa cultura ricchissima. Ricordiamo i nostri primi tre mesi ad Haiti nel 2007, chiusi in casa, con le macchine di servizio che venivano a prenderci per andare in ufficio e che nel pomeriggio ci riaccompagnavano in quella che stava diventando – a livello psicologico ma anche concretamente – una vera e propria prigione.
Il primo grande ostacolo, poi diventato chiave di lettura di questo paese, è il creolo haitiano. Attraverso la padronanza di questa lingua parlato dal 99,9 per cento della popolazione si arriva a diminuire la barriera culturale e lo scetticismo iniziale e si riesce a parlare dritti al cuore della gente, e a capire intenzioni e sensibilità. Il creolo è una sorta di francese semplificato, arricchito da influenze inglesi, spagnole, lingue o dialetti di origine africana e anche da un po’ di tedesco. Ma a rendere rende il creolo una lingua speciale sono i suoni e le espressioni facciali che accompagnano tutte le frasi. Suoni ed espressioni tutti ben strutturati che possono anche cambiare il significato di una stessa frase, e che forniscono un’arma in più allo spirito ironico e goliardico di questa gente.
Gli haitiani, infatti, grandi e piccoli, amano passare serate intere o pomeriggi a raccontare aneddoti di vita quotidiana, attraverso i quali analizzano i limiti della natura umana e le sue goffaggini, cominciando a predersi in giro, punzecchiandosi a vicenda, bambini, anziani, donne, nessuno escluso, con una straordinaria capacità dialettica. Questo spiega anche perché ad alcuni gli haitiani possano risultare poco ospitali; per questa loro ironia pungente, quasi a voler studiare la reazione della persona che hanno di fronte. Se andate in giro per il paese vi capiterà di essere fissati in modo minaccioso da qualcuno, ma se provate a fare un sorriso vedrete che sarà ricambiato con uno ancora più grande o magari con una risata. Si tratta quindi di un paese che ha bisogno di una motivazione particolare, uno sforzo in più per cominciare a conoscere la sua tradizione, la vita e l’energia, ma che una volta che vi ha accolti a fatica uscirà dai vostri cuori.
Ad Haiti ci si innamora dell’intensità delle emozioni e della capacità di trasmetterle, si riscopre un profondo senso dell’amicizia, si rimane stupiti dalla quantità di attenzioni che si scambiano tra loro gli haitiani quotidianamente al telefono, di persona, via sms ed ogni volta che ne hanno l’occasione.
Un altro ostacolo arduo da superare, soprattutto a livello professionale, per chi ad Haiti non è andato solo per conoscere un’altra cultura, è l’enigma della «vera priorità». In un paese che ha così tanti problemi, dove più del 70 per cento della popolazione è terribilmente vulnerabile, si cade facilmente o nella logica cinica del «ad Haiti non cambierà mai nulla» o nella confusione e nella frenesia di voler far tutto allo stesso tempo e, inevitabilmente, di andare vicini ad un esaurimento nervoso.
Di fatti ognuno a turno idossa i panni dell’esperto, e dopo un po’ crea la sua teoria. Ultima in ordine di tempo quella di Bill Clinton, che ha da sempre un rapporto speciale con il paese [vedi le vicessitudini dell’ex presidente Aristide, non si può parlare di Haiti senza pronunciare almeno una volta questo nome]. Clinton, dopo una missione tecnica di tre giorni, ha detto: «Bisogna creare posti di lavoro e per farlo serve attirare capitale straniero». Peccato che dopo pochi mesi da quella missione sia caduto il Preval bis [il primo governo era già caduto con le violente manifestazioni per il caro prezzi dovuto alla crisi economica nell’aprile 2008, anche se con dei retroscena poco chiari su una presunta manipolazione degli insorti fatta ad hoc per spingere alla crisi di governo], non certo un buon segnale per gli investitori che Clinton aveva portato in giro per l’isola mostrandone l’incredibile potenziale [a due ore da Port au Prince c’era anche il «Club Med Magic Haiti», chiuso nel 1997 proprio per l’instabilità politica di cui il paese soffre in modo cronico].
Non dimentichiamoci che Haiti fa parte delle grandi Antille con Cuba, Giamaica e Repubblica Dominicana, e i suoi dodici mesi d’estate sono davvero l’ideale per godere delle sue spiagge vergini, con chilometri di costa deserti senza traccia di turismo di massa, giusto qualche piroga di pescatori dalla vela bianca all’orizzonte e palme da cocco. Scenari fantastici sia a sud che a nord del paese, per chi ama il genere acqua cristallina, sabbia chiara, con un’amaca che ondeggia stesa tra due palme. Altre strategie di cui ci hanno resi partecipi i vari: «expats»/esperti in missione breve/economisti/studenti di Harvard sono di solito: «L’educazione: senza l’educazione non c’è sviluppo»; «La sovranità alimentare: senza cibo non si va avanti»; «L’infrastruttura: senza strade non ce la faranno mai», «La salute pubblica: non c’è», etc. La triste realtà è quella di un paese che non interessa a nessuno geopoliticamente e che non possiede giacimenti petroliferi, relativamente piccolo e francofono, che tutti i grandi della terra tendono a dimenticare.
Altro dato interessante e argomento su cui gli haitiani sono ferratissimi è la storia del paese: Haiti è, a livello mondiale, la prima Repubblica di colore a rendersi indipendente dai colonizzatori [francesi, che poi hanno chiesto un enorme risarcimento in oro al paese per essere riconosciuto indipendente e terminando lo sfruttamento estensivo e iniziando a formare l’enorme debito pubblico odierno, per alcuni vera priorità per rilanciare il paese verso lo sviluppo]. Si parla di bivi storici, di decisioni sbagliate, si litiga su chi è convinto che durante la dittatura di Papa Doc si stava meglio e chi no e nel frattempo si sorseggia una Prestige ghiacciata, la birra locale. Tanto, si sa, prima o poi il discorso cadrà su Aristide e allora si può anche fare l’alba. Tantissimi gli artisti e gli intellettuali haitiani che hanno lasciato il paese, ma tanti ancora quelli presenti sull’isola. Se si ha la fortuna di stare in uno dei loro giri, si possono anche evitare le carissime gallerie d’arte ed andare a casa di un pittore, uno scultore o uno scrittore per comprare quadri, fare due chiacchiere o scoprire di aver ancora tanto da conoscere su questo paese.
Dopo i primi tre mesi di reclusione abbiamo cominciato a sentirci più sicuri, parlando un creolo sufficiente, avendo comprato una macchina e cominciando a memorizzare almeno in parte il labirinto di costruzioni che è Port-au-Prince [in realtà basta memorizzare le quattro arterie che dal centro città portano su in montagna fino a Petion Ville e ancora più su a Kenskoff]. Per lavoro e per interesse abbiamo viaggiato conoscendo altre parti del paese, ma le cose da vedere sono davvero tante e non sempre si ha il tempo e l’energia.
La più bella scoperta è sicuramente la natura rigogliosa in posti come Les Cayes o Jeremie, dove la vegetazione è rigogliosa e si possono vedere dinamiche comunitarie e solidali, insieme ad un’ospitalità straordinaria. La nostra esperienza ad Haiti è stata di un totale di tre anni, in cui ci siamo sentiti a casa nostra, anche a Port-au-Prince, per molti brutta per la confusione, per noi col tempo aveva assunto un fascino particolare, con i nostri angoli preferiti, i suoi chioschetti, i mercati coloratissimi, la gente sempre in strada che non ti fa mai sentire solo.
Una società che ci ha accolti e ci ha dato tante emozioni intense ed energie, che abbiamo usato nei momenti piu duri del nostro lavoro, quando a volte il cinismo prodotto superava la speranza. Ma è questa grande capacità degli haitiani di allontanarsi con ironia da una realtà così dura che ci ha insegnato a non mollare, a relativizzare e soprattutto ad apprezzare quello che siamo e le possibilità che abbiamo. Alcuni punti di riferimento per cominciare a comprendere questo paese e la sua gente sono sicuramente il documentario sulla vita di Jean Dominique, agronomo giornalista di Radio Haiti Inter, il romanzo di Graham Greene Les Comédiens, proprio sull’ironia degli haitiani e Gouverneurs de la rosée di Jacques Roumain.
*Mariavittoria Ballotta ha lavorato ad Haiti nella sezione protezione dell’Infanzia di Unicef
*Simone Sarcia ha lavorato ad Haiti come capo progetto nelle bidonvilles di Cité Soleil e Martissant per Avsi, una Ong italiana
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