mercoledì 13 gennaio 2010
La mafia, la politica e la ribellione di Rosarno ...
La mafia, la politica e la ribellione di Rosarno
Marco Rovelli
Una riflessione di Marco Rovelli, scrittore e cantatutore, che nel suo ultimo libro-inchiesta «Servi» aveva descritto le condizioni estreme in cui erano costretti a vivere i migranti di Rosarno. Come è possibile che nessuno aveva visto niente?
La rivolta dei braccianti, così come il pogrom successivo, non sono stati una sorpresa. Era questione di tempo: il tempo di ciò che è umanamente sopportabile, il tempo per cui chi subisce trova la forza di gridare il suo «Basta». Di come stavano le cose a Rosarno ne avevo scritto qui su Carta quasi tre anni fa, per poi tornarci sopra nel mio libro «Servi»: il reportage si intitolava Caccia al nero. Che lo sport più diffuso tra i giovani di Rosarno fosse la caccia al nero era un dato di fatto, e le fucilate della scorsa settimana sono state la scintilla che ha fatto traboccare la rabbia dei braccianti subsahariani. Non è questione di essere profeti, neppure facili. E’ unicamente questione di non voler chiudere gli occhi di fronte all’evidenza. Ma l’evidenza in (questa) politica è un elemento trascurabile, in piena buona coscienza. Come probabilmente in buona fede è chi tra i rosarnesi ha detto «Ma come, noi gli abbiamo dato accoglienza per tutti questi anni, e adesso questi vengono e ci distruggono il paese».
Come è umanamente possibile chiamare accoglienza quelle condizioni di vita impensabili, in fabbriche dismesse, in baracche di cartone, venti euro al giorno per quattordici ore, e assalti periodici da giovani della zona che irrompevano nel cortile delle fabbriche e sparavano, altri che si appostavano ditero un muro li prendevano a sassate, macchine lungo la strada che aprivano lo sportello e facevano cadere il «negro». E soprattutto, stupisce che i rosarnesi non si chiedono che cosa ci facevano lì, quei «negri». O forse se lo chiedono, ma si rispondono «Non è affar mio».
Salvo magari prendersi l’indennità di disoccupazione come bracciante, pagandosi i contributi per cento giornate di lavoro, senza ovviamente aver messo piede in un campo. Sottraendo dunque un salario al bracciante vero, che sconta il lavoro e la miseria «in vece sua». Il «Non è affar mio», del resto, a Rosarno è un motto che funziona, visto che le cosche della ‘ndrangheta spadroneggiano indisturbate. E della devastazione socio-economica del territorio che è conseguita al loro dominio anche lo sfruttamento schiavistico è uno degli effetti. [E ancora: al parroco che ha redarguito i suoi parrocchiani per il pogrom chiederei se è vero che l’impianto di condizionamento della sua chiesa è stato pagato dalla famiglia Pesce, la cosca più potente del paese].
Ma ancora più responsabile è un Maroni, che giustifica di fatto i pogrom, attaccando la troppa tolleranza per i clandestini. Credo che questo sia un punto di svolta nella campagna di rovesciamento mediatico della realtà: non sono questi lavoratori che si ammazzano per raccogliere le arance italiane ad aver diritto a dignità umana, a un salario decente, a non essere oggetto di aggressioni continue, ma sono loro ad aver abusato della tolleranza della legge che magnanimamente è stato loro concessa. La sanzione dunque di una visione mafiosa della politica: non il diritto, ma il privilegio. E suona ancora più disgustoso che nella stessa giornata Maroni abbia recitato un pistolotto antirazzista per i cori contro Balotelli. Salvarsi anima e faccia non è mai stato così semplice.
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