La crisi globale e la ripresa lentissima
redazione Infoaut
A Torino è stato presentato il Rapporto sull'economia globale coordinato dall'economista Mario Deaglio. Il documento è utile a comprendere lo stato dell'economia dopo il grande crollo, il ruolo di Usa e Cina, la bancarotta dei bilanci pubblici, il crollo del Pil italiano che ha costretto Berlusconi a rinunciare al taglio delle tasse.
La presentazione di un libro – il XIV Rapporto sull’economia globale e l’Italia curato dal gruppo di Mario Deaglio – in un luogo pubblico ma non direttamente mediatico (www.centroeinaudi.it/appuntamenti/alla-scuola-della-crisi.html) e la sobrietà, magari un po’ grigia, del milieu intellettuale sabaudo del centro einaudi: sono gli ingredienti di una riflessione sullo stato attuale della crisi globale – aggiornata nei dati rispetto alla stessa pubblicazione che risale a qualche mese fa – che non lascia nulla, ma proprio nulla agli ottimismi di facciata e ai patinati annunci televisivi.
Il succo della lezione.
«A scuola della crisi» è il titolo, tra il consolatorio e il velleitario, del rapporto. Della attesa, e da molti già decantata, ripresa economica mondiale «a V» non c’è traccia, tanto più se si guarda a quanto necessiterebbe per far fronte alle ferite profonde che la crisi ha inciso nel tessuto economico e sociale. Certo, non c’è stato il collasso paventato nell’autunno 2008. Ma il malato resta assai grave e, soprattutto, il virus della crisi ha subito una mutazione trasferendo il rischio sistemico dai mercati finanziari direttamente agli stati.
Primo. Alle cause profonde della crisi le autorità monetarie degli Stati Uniti hanno risposto con un incredibile immissione di liquidità (il bilancio della Federal Reserve è raddoppiato) e con l’assunzione non neutrale di titoli infetti sulle spalle del contribuente oltre al piano di stimolo che Obama ha ereditato da Bush. Misure, le prime, che hanno tenuto in vita il malato, e ciò nonostante la cura ricostituente dello stimolo si sta rivelando inutile. I timidi segnali di ripresa degli ultimi mesi del 2009 non sono l’annuncio di un recupero rapido e pronunciato dell’economia mondiale (a V, in gergo). Per questo mancano tutte le condizioni nell’epicentro della crisi: le famiglie americane sono indebitate, gli investimenti sono fermi e le imprese hanno bilanci pessimi, l’edilizia non riparte causa l’enorme numero di case invendute, la crescita della disoccupazione non si arresta ma al limite decelera (con un rapporto disoccupati/nuovi occupati di sei a uno mai visto nel secondo dopoguerra). Né la Cina, dove il pacchetto di aiuti statali alla domanda pare funzionare salvo nuove bolle, può risollevare l’Occidente da una sostanziale stagnazione da debiti se è vero che continua a essere orientata sulle esportazioni. Insomma, allo stato, nessuna ripresa rapida ma persistenti segnali di deflazione; e per il dopo crisi presumibilmente nessuna dinamica a elastico (si tira la linea della crescita verso il basso ma poi tutto torna come prima), ma con più probabilità tassi di crescita dello zero virgola per il mondo occidentale (più complesso il discorso per l’Asia) in cerca di una domanda effettiva che non si trova.
Secondo. Ma anche così si fa avanti sempre più pericolosamente il rischio “sovrano”, la bancarotta degli stati, e non solo di attori minori come Islanda e Grecia, ma di big del calibro di Stati Uniti, Gran Bretagna e Giappone. (Anche a prescindere dagli allarmanti scricchiolii del sistema bancario locale statunitense – continui fallimenti causa le speculazioni sull’edilizia commerciale oggi a terra – e dei bilanci pubblici di singoli stati come la California). Qui la precarietà dei bilanci statali – da sindrome italiana – si evidenzia nelle due circostanze per cui già i saldi primari (cioè prima di pagare gli interessi del debito) sono negativi e, se pure al momento i tassi a lungo termine sui titoli statali non sono aumentati, gli acquirenti sono in gran parte le stesse autorità monetarie con, nei fatti, una monetizzazione del debito. Conseguenza possibile: un ritorno della crisi finanziaria, questa volta però senza gli strumenti a disposizione al giro precedente! E c’è già chi inizia a scommettere sul primo della lista (il Giappone, secondo il worst case scenario della Société Générale www.scribd.com/doc/22776263/Societe-Generale-Worst-Case-Debt-Scenario-Fourth-Quarter-Nov-2009, ma anche il sito di Roubini non è ottimista: www.roubini.com/analysis/96548.php).
Terzo. Non è vero che non ci siano già stati effetti politici rilevanti della crisi globale. Secondo Deaglio – e concordiamo – l’elezione di Obama lo è, così come la caduta del partito liberaldemocratico in Giappone dopo più di cinquant’anni di ininterrotta egemonia, la sconfitta della Spd in Germania, i cambi di governo in Europa orientale (tranne che in Polonia) e in Islanda (potremmo aggiungerci la crisi dei laburisti in GB). Inoltre, tutto il quadro geopolitico si sta dislocando segnato dal declino storico degli Stati Uniti e dall’inizio della confrontation globale con Pechino evidente nella prosecuzione da parte della nuova amministrazione del long war statunitense in Asia Centrale. (Ma su questo punto il discorso è un po’ più complesso di quanto appare dalla pur lucida e franca analisi di Giorgio Frankel: sono mutati il contesto internazionale e le condizioni interne della grand strategy statunitense).
Quarto. Veniamo all’Italia. Se anche l’esposizione debitoria di banche e famiglie qui non si è rivelata eccessiva, drammatico è stato il crollo di Pil ed esportazioni. Siamo in piena deflazione. Per tutto il 2009 le conseguenze in termini di disoccupazione sono state in qualche modo congelate con un rapporto di uno a uno tra numeri effettivi di licenziati e posti a rischio. Quest’anno però le decisioni non saranno ulteriormente rinviabili: e cioè chiusure, downsizing, fusioni, ricapitalizzazioni delle imprese che metteranno a rischio, secondo le previsioni dei curatori del report, dai due ai tre milioni di posti! In un quadro di dismissione pressoché definitiva di interi settori industriali strategici che influirà pesantemente anche sul dopo.
Fin qui il report. Si può discutere dei toni catastrofistici. Ma difficilmente si negherà la gravità del quadro diagnostico.
Ad essa non potrà sfuggire ancora per molto anche il governo nostrano. Il Berluska, rientrato al lavoro dopo essersi curato il faccino, ne ha dato un riscontro con l’annuncio che di tagli alle tasse non se ne parla. Per capire che si tratta di un passaggio significativo e anche clamoroso nei confronti della sua base sociale basta scorrere le reazioni dei mastini di Libero. Può essere il segnale, non isolato, dell’inizio della crisi di tutto un programma e, più ancora, dello stesso dream berlusconiano che è servito finora da collante a un’eterogenea base sociale, generazionale ed elettorale. Già la vicenda di piazza Duomo ha evidenziato l’estrema difficoltà, oramai, a mobilitare la piazza mettendo in mostra lo smarrimento e la pochezza dei peones, da un lato, e lo spontaneo entusiasmo antiberlusconiano di strati profondi della società – anche dopo il no B-day – dall’altro. Lo schiaffo di Marchionne a Termini versa altra benzina sul fuoco ed è un messaggio a tutto il Sud. Per il Cavaliere si apre un anno in cui potrebbe risultare sempre meno facile tenere insieme i pezzi.
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