mercoledì 19 maggio 2010
Cosa pensa la società civile afghana
Quel che pensa la società civile afghana
DI : Emanuele Giordana
Le soluzioni contro la guerra di chi non viene ascoltato: idee molto diverse da quelle del generale McChrystal.
Ad aver voglia di ascoltarli gli afgani, molte delle soluzioni alla guerra ci sarebbero già. Ci sarebbe già un percorso possibile in quelle lontane lande dove certe idee sono già ben prefigurate. E sono altro da quel che dice Hillary Clinton, il generale McChrystal o l’italico Palazzo dove il mantra è sempre quello: si deve restare anche se a far cosa non si sa.
Prendete le donne di Afghan Women’s Network, il maggior ombrello di organizzazioni femminili del Paese: rispetto al Piano per la sicurezza nazionale, è necessario che questo funzioni in linea con le risoluzione dell’Onu e, dicono, col Piano nazionale che riguarda i temi di genere. E ancora, rispetto al Programma nazionale di pace e riconciliazione, dice ancora un documento ufficiale di Awn, bisogna essere certi che ne siano parte piena le donne: che i fondi a disposizione costituiscano un incentivo per favorire i loro diritti e la loro autonomia nel lavoro e nella società. Questa, che dovrebbe essere musica per le nostre orecchie occidentali, è però una voce molto flebile, sottoposta agli urti di una guerra che, dopo le dichiarazioni di principio, ha altro per la testa.
Najila Ayubi, che il coordinamento delle donne afgane ha inviato alla Perugia Assisi su invito della Tavola della pace e del network di “Afgana”, si spiega meglio: “C’è un’assoluta mancanza di sintonia tra quello che sta facendo il governo afgano e chi prepara l’imminente lancio di un’offensiva al Sud.” Come si fa, dice, a parlare di pace e impugnare le armi? Di più, le donne afgane hanno chiesto al governo di essere presenti al processo di pace che inizia formalmente a fine maggio a Kabul. Ma anche Najila sa che questa richiesta, se non viene appoggiata, rischia di cadere come tutte quelle che provengono dalla società civile. Che ha le idee molto chiare. Mentre discutiamo con lei e col dottor Khalil Rahman Naramgui, presidente dell’associazione di giornalisti di Baghlan, Najila ci riempie di un’autentica dose di pragmatismo. Ride divertita, e anche sconvolta, del fatto che un membro della delegazione palestinese le ha detto che non credeva fosse afgana…Najila non porta il burqa e sembra dire ai nostri (e loro) stereotipi: “liberatevene, prima di venire a liberare noi”. Le chiediamo delle difficoltà di trattare con i carnefici: “Mio padre e mio fratello sono stati uccisi dai mujaheddin. Io sono stata vessata dai talebani. I signori della guerra ci hanno portato via terra e beni. Certo che vorrei rivendicare le mie proprietà, vedere questa gente in tribunale pagare i crimini commessi, ma so che in Afghanistan tutti hanno le mani sporche di sangue. E che dunque anche con questa gente, talebani compresi, bisogna negoziare, trattare….”.
La discussione fa emergere molti punti comuni tra lo spirito della società civile afgana e quanto dicono molte organizzazioni pacifiste italiane: che la soluzione militare non è la soluzione e che la situazione resta gravata da una totale discrasia tra quanto cerca di fare il governo Karzai con l’esercito che risponde a Kabul e quanto si decide a Washington o a Bruxelles: aggiungono che l’Afghanistan è un Paese che cerca la pace ma che il negoziato, insistono gli ospiti afgani, “non può essere solo simbolico. Deve aprirsi a tutte le forze e contemplare la presenza attiva delle donne, anche per difenderne il ruolo in futuro”. Un ruolo che resta debole anche perché la società civile interessa poco: inascoltata, sottofinanziata, indifesa, abbandonata a se stessa, in un circolo vizioso che, dice Najila, “alla fine ci fa mancare anche il sostegno psicologico che è importante quanto i finanziamenti”. Durante tutta la discussione, non manca mai un riferimento costante alla vittime della guerra: il dottor Khalil ricorda le stragi di Uruzgan, Shindand, Bala Boluk, litania belluina del conflitto. Ma anche le pressioni quotidiane sui giornalisti che non sono sotto i riflettori di Kabul e che lavorano nella provincia profonda: “Io -dice serafico – son stato in prigione già due volte”. Aveva scritto male di Karzai.
Quell’avvitamento del conflitto afgano, sembrano dire i due ospiti della Perugia Assisi, è dunque anche una questione di prospettiva. Se la guerra la guardi solo dalla parte del potere, ti sfuggono i termini reali che sono poi le sofferenze, le necessità primarie e le speranze della gente, del popolo con la “p” minuscola che non ha voce in capitolo. E invece ti accorgi che esiste, che ha un programma in testa, e persino un modo di essere “laico” anche se Najila va alla moschea, se rispetta la tradizione. Se ne vanno augurandosi una Perugia Assisi da Kabul a qualche altra città afgana. “Un desiderio, ma non un fatto impossibile”. Entrambi sono convinti che ci verrebbe un mare di gente in un paese che il mare non ce l’ha.
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