I nostri ragazzi e i loro
Pierluigi Sullo
Quattro novembre, la Vittoria. L’inverno comincia così, con uno spot in tv, dedicato a questa ultima ricorrenza, che può provocare un poco di nausea: vi si vedono militari di tutte le armi, maschi e femmine, belli e giovani e freschi di shampoo, le divise ben stirate, che camminano per le stradine di un paese antico, di quelli toscani o umbri; la gente alle finestre e ai tavolini man mano si alza in piedi, applaude, allunga pacche sulle spalle. Il titolo è: «Grazie ragazzi». Segue logo della presidenza del consiglio, inventato da Berlusconi per le sue famose conferenze stampa ad imitazione della White House. Si deve fare un piccolo sforzo psichico per ricordare che «i nostri ragazzi» sono gente che sta combattendo una guerra – in Afghanistan, per lo meno – in cui si uccide [«si neutralizza», dicono i comunicati ufficiali] e si viene uccisi [«si cade» o «si è vittima», si dice quando a morire sono il caporale sardo o il soldato calabrese]. A essere molto reattivi, si possono anche rievocare nella mente, mentre i «ragazzi» camminano sorridendo nello spot, le scene dei più crudi film statunitensi sulla guerra in Iraq, divise sporche e sabbia, facce tese e improvvisi scoppi di sangue, violenza organizzata e disperata. La guerra, insomma.
Ma ad essere lettori di uno di quei giornali che non dovrebbero esistere magari, guardando lo spot, può venire in mente la sorte dei «loro ragazzi». I giovani afghani che fuggono dalla guerra, fanno viaggi impossibili attraverso l’Iran e la Turchia o la Grecia, si aggrappano alle coste italiane. Non hanno divise, perché appunto ripudiano la guerra [come dice la Costituzione di uno dei paesi che fa la guerra a casa loro] e non sorridono per niente. Soprattutto nessuno li applaude o dà loro pacche sulle spalle. O offre loro cibo, riparo, qualche straccio di futuro, una buona parola. Nessuno o quasi, se non qualche associazione dal nome imbarazzante, ad esempio Medici per i diritti umani, o buffo, come Yo Migro, o appunto qualche giornale improbabile, come Carta.
Perfino quando riescono a sbarcare qui, in genere viaggiando sotto un Tir o in un container, e ad ottenere un pezzo di carta secondo il quale sono rifugiati politici, o in attesa di diventarlo, anche allora i loro ragazzi vengono spinti alla deriva, su un marciapiede o, come accade a Roma, in un buco per terra. Letteralmente: nel gran buco per le fondazioni di un palazzo dalle parti di quel monumento allo spreco che è l’Air Terminal dell’Ostiense, costruito per i mondiali di calcio del ’90 targati dall’imprenditore più amato dai politici, Luca di Montezemolo. A fianco di quei miliardi di lire buttati, nella voragine sopravvive un centinaio di giovani afghani, ora minacciati di sgombero verso un altro nulla. In una città il cui sindaco, Alemanno, un giorno spiega al suo organo di partito, l’orrendo Tg3 regionale del Lazio, come Roma sia la città più adatta a celebrare la caduta del Muro di Berlino, festeggiata da non so quale performance artistico-propagandistica in Piazza di Spagna, e il giorno dopo manda i vigili a minacciare i ragazzi e cioè ad ad alzare nuovi Muri. Per i quali, in ogni caso, non fa proprio nulla, sebbene un centinaio di persone si potrebbero facilmente sistemare in qualunque ricovero o residence o collegio, tra i migliaia che anche il Vaticano possiede [ma sono musulmani, e se poi rifiutano di appendere crocifissi nei dormitori?].
Il ministro Littorio La Russa è così ottuso da non capire che la soluzione ce l’ha sotto gli occhi: fare come gli americani, come sempre. L’esercito Usa arruola giovani migranti latinoamericani promettendo loro, in cambio di un periodo in guerra, la cittadinanza. Dunque basterebbe proporre ai ragazzi afghani di arruolarsi. e di camminare per le strade del paesino tra gli applausi. per risolvere il problema. Due piccioni con un solo colpo di fucile: li togliamo dal buco e li mandiamo al paese loro a morire al posto dei nostri ragazzi, con il vantaggio che almeno conoscono la lingua. E certo bisognerebbe dar loro la cittadinanza, ad un certo punto, e poi chi li sente, quelli che stampano carte d’identità della Padania?
Io non so chi ha confezionato lo spot, chi l’ha commissionato e chi lo paga [anzi lo so, paghiamo noi]. So che per ritorsione bisognerebbe spegnere la tv per sempre. E spegnere il governo, va da sé.
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