Diciotto anni. Fra pochi giorni sarà l’anniversario della strage di via D’Amelio e saranno trascorsi diciotto anni. Tante cose sono successe. Caduti governi, rivoluzionato lo scenario politico nazionale, nati nuovi partiti e emersa la star Berlusconi, arrestati i capi di quella Cosa nostra che ordinò la stagione stragista, arrestati anche molti loro successori come Raccuglia, Falsone e Nicchi. Matteo Messina Denaro no, è ancora libero, latitante, nascosto. E ancora. Sono stati messi sotto processo numerosi politici di allora e di oggi in questi anni. Andreotti è stato prescritto. Mannino assolto. Cuffaro e Dell’Utri condannati fino al secondo grado di giudizio. E poi ancora, più recentemente, emerge la trattativa fra mafia e pezzi dello Stato (fatto storico ormai e sancito da una sentenza a Firenze), si è riaperta l’inchiesta sulla strage di via D’Amelio dopo le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza che autoaccusandosi ha rimesso in discussione un sacco di cose fra cui il coinvolgimento di pezzi dello Stato in quella stagione. La stagione del ‘92/93. E ancora quei tanti smemorati (e quanti sono e quanti se ne aggiungono ogni giorno) guariti improvvisamente dall’amnesia che di quella trattativa qualcosa sentirono dire all’epoca.
E poi Massimo Ciancimino, con le sue verità, con le sue reticenze, con i suoi documenti. Che si inserisce, di peso, in un numero impressionante di indagini e processi in corso, fra cui quello al prefetto Mori, allora ai vertici del Ros. Quei Ros che in questi anni sono stati spesso messi sotto accusa, per le loro strategie “coperte”, per i loro metodi. Secondo il racconto di Ciancimino sarebbero stati Mori e Di Donno, all’epoca ufficiali di peso del reparto speciale dei Carabinieri, a fare da terminale della trattativa prima con il gotha di Cosa nostra e poi, per togliere di mezzo il sanguinario Totò Riina, con Bernardo Provenzano. Mori è sotto processo a Palermo proprio per aver favorito in qualche modo la fuga di Provenzano a Mezzojuso. Ad accusarlo mica Ciancimino, ma un altro Carabiniere. Il colonnello Michele Riccio. Ciancimino arriva dopo, molto dopo.
Scrivevo quasi un anno fa.
La storia racconta di un Bernardo Provenzano, negli anni dello stragismo di Cosa nostra, sempre più defilato e in disaccordo con Totò Riina. Talmente lontano dal padrone di quello che era diventata l’organizzazione mafiosa dopo la “mattanza” degli anni 70 e 80 da cercare in pezzi dello Stato una “relazione” strategica. E non è difficile addirittura ipotizzare una sua “collaborazione” nella cattura di Riina nel ’93. Queste ipotesi di una strategia di Binnu Provenzano in totale rottura con il capo della Cupola mafiosa si nascondono nelle pieghe di uno dei processi più clamorosi e contemporaneamente più invisibili degli ultimi decenni, quello al generale dei Ros (ed ex capo del Sisde) Mario Mori e al capitano Mario Obinu. Ad accusarli per il mancato arresto di Provenzano nel 1995 è stato un altro ufficiale dei carabinieri, il colonnello Michele RiccioL’ingresso di Ciancimino nel processo Mori è solo successivo all’epoca in cui scrivevo questo servizio. Le dichiarazioni di Riccio arrivano molto prima.
Al centro delle dichiarazioni di Riccio la famosa trattativa fra Stato e Cosa nostra, il famigerato “papello”, e il bagno di sangue delle stragi del ’92. E la testimonianza, e la morte, di un collaboratore, Luigi Ilardo, vice del capo mafia di Caltanissetta “Piddu” Madonia. Affidato direttamente a Riccio del quale diventa confidente, Ilardo venne infiltrato nell’ambiente mafioso di provenienza. L’ex boss nisseno riuscì perfino ad avvicinare Bernardo Provenzano, ottenendo un appuntamento il 31 ottobre 1995 in una cascina a Mezzojuso. Nonostante Ilardo avvisasse dell’occasione unica non si presentò nessuno ad arrestare Binnu consentendone la fuga. «Informai il colonnello Mori – ha dichiarato al processo Riccio -. Lo chiamai subito a casa per riferirgli dell’incontro e rimasi sorpreso, perché non me lo dimenticherei mai, non vidi nessun cenno di interesse dall’altra parte». Riccio era sul posto, avrebbe potuto intervenire immediatamente appena avuto il via libera dal capo dei Ros in Sicilia. «Mi disse che preferiva impegnare i propri strumenti, dei quali al momento era sprovvisto – prosegue Riccio nel suo racconto -. Noi eravamo pronti e non ci voleva una grande scienza per intervenire». L’ ufficiale ha parlato anche di un incontro a Roma fra il collaboratore e il colonnello. «Quando lo portai da Mori, Ilardo gli disse: “In certi fatti la mafia non c’entra, la responsabilità è delle istituzioni e voi lo sapete”. Io raggelai». E Binnu, sfuggito alla cattura, sparì per altri 11 anni. Dopo qualche mese Ilardo venne ucciso a Catania pochi giorni prima del suo ingresso “ufficiale” nel programma di protezione speciale per i collaboratori. Qualcuno sospetta grazie a una “spiata”. E Riccio, poi, ricorda come i nomi dei politici fatti da Ilardo venissero in seguito “stralciati” nella stesura del documento “Grande Oriente” proprio su richiesta di Mori. Uno fra tutti, quello di Marcello Dell’Utri. Ilardo aveva parlato esplicitamente di un contatto tra Provenzano e Dell’Utri, «l’uomo dell’entourage di Berlusconi», e di un «progetto politico», la nascita di Forza Italia, che interessava ai vertici della Cupola mafiosa. E motore di quel nuovo progetto politico, non a caso, era proprio l’allora capo di Publitalia. Riccio ha raccontato in aula nel 2002 di un incontro con l’avvocato Taormina e Marcello Dell’Utri: «Nello studio del professor Taormina mi venne detto che sarebbe stato positivo per il senatore Dell’Utri se nella mia deposizione avessi escluso che era emerso il suo nome nel corso della mia indagine siciliana. Io non risposi e rimasi sbalordito».
E poi c’è la vicenda di Giampaolo Ganzer, il generale attuale capo del Ros, sotto processo a Milano. Scrivevo in un altro servizio di pochi mesi dopo.
Il generale Giampaolo Ganzer, attualmente indagato per associazione a delinquere, e, nonostante la gravità dell’accusa, tuttora in carica. Il generale Ganzer e alcuni suoi uomini sono imputati a Milano per traffico di droga. Una vicenda che non sembrava poter avere un riscontro processuale. Istruito all’inizio dal pm di Brescia Fabio Salamone, il fascicolo aveva infatti conosciuto un gioco al rimbalzo durato anni tra procure della Repubblica per approdare in Cassazione ed essere quindi assegnato a Milano. Sono almeno venti i militari, tra ufficiali e sottufficiali, che avrebbero sistematicamente violato le norme che disciplinano le operazioni antidroga sotto copertura, trasformandosi in trafficanti e raffinatori di stupefacenti in proprio. E non solo. Arresti, obbligatori, di latitanti sarebbero stati omessi, falsificando regolarmente i rapporti all’autorità giudiziaria che comunque sembra avere anch’essa le sue belle responsabilità per mancato intervento. E poi i soldi, tanti. Centinaia di milioni di lire di denaro contante frutto di sequestri durante le operazioni sarebbero stati sottratti alle regole della confisca per essere riciclati. Le accuse dei pm milanesi al generale Ganzer sono terribili. Addirittura la Procura di Milano annota: il gruppo aveva connotazioni di «associazione per delinquere armata». Tutta questa vicenda, se non in qualche raro caso, non è arrivata sulle pagine dei giornali. Ma se la inseriamo in quello che sta emergendo oggi, con gli intrecci degli anni 90 fra pezzi dello Stato ed entità esterne, quando guardiamo al processo Mori-Obinu a Palermo, quando constatiamo quante corrispondenze ci siano fra gruppi e persone e funzioni in casi come quelli delle presunte “centrali” di spionaggio in Telecom con Tavaroli e oggi in Wind con Cirafici, la preoccupazione diventa inevitabilmente allarme.Intanto Cosa nostra, la mafia siciliana, non è più egemone nello scenario nazionale e internazionale. In questi diciotto anni sono successe molte cose. La sconfitta dell’ala militare dei Corleonesi ha pesato eccome. Ora a comandare è la ‘ndrangheta calabrese con la coca, gli appalti, il racket, le armi e la “monnezza”. Quella ‘ndrangheta che si è modernizzata e quasi istituzionalizzata trasformandosi nella Santa. Quella ‘ndrangheta da decenni terminale e motore di traffici nazionali e internazionali di armi, rifiuti, droga e denaro che spesso vedono dietro le quinte apparire i fantasmi, le ombre, di uomini dei Servizi. Gli stessi Servizi che tante volte compaiono nelle storie di mafia siciliane. A volte gli stessi nomi vengono sussurrati. Perfino vengono descritti gli stessi volti. Oggi qualche squarcio appare. Dalle dichiarazioni di Massimo Ciancimino a quelle di Gaspare Spatuzza qualcosa emerge. Volti. Ancora, con troppa difficoltà, nomi. Perfino dalle dichiarazioni di uno dei pentiti (uno dei pochissimi) di ‘ndrangheta, Francesco Fonti, qualche spiraglio sulla questione dei Servizi compare. M è difficile, davvero difficile, raccontare questa storia.
Questa storia per cui sono morti in troppi. Questa storia che ha tolto troppo al nostro Paese. Dopo diciotto anni ancora non sappiamo. Ancora navighiamo nell’incertezza. Ancora la parola “fine” non è stata scritta sull’ultima pagina di questa terribile sceneggiatura. Il ricordo si affievolisce, il tempo passa, generazioni sostituiscono le generazioni che le hanno precedute. E la memoria diventa un filo. Forse si conta sul tempo per cancellare dal Dna di questo Paese l’orrore che l’ha attraversato.
di Pietro Orsatti
Fonte : PietroOrsattiBlog
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