La storia entra dalla porta principale dell’aula bunker di Pagliarelli:
alle 16, dopo 4 giorni e mezzo
(e quasi 5 anni di udienze)
di camera di consiglio, la corte d’assise del processo Trattativa esce con una
sentenza che in pochi si aspettavano.
A parte Nicola Mancino, l’unico che non rispondeva degli accordi
inconfessabili nel periodo delle stragi del ‘92-’93 e
che viene assolto dall’accusa di falsa testimonianza,
tutti gli imputati vengono condannati.
Una batosta: 12 anni ai generali dei carabinieri del Ros Mario Mori
e Antonio Subranni, per avere stretto le intese con i boss, 28 anni a Leoluca Bagarella
(la Procura ne aveva chiesti 16),
12 all’altro mafioso Nino Cinà, altrettanti a Marcello Dell’Utri, che garantì - lo dice il
dispositivo, con sufficiente chiarezza, lo rilancia il pm Nino Di Matteo - il necessario tramite tra i
capimafia che ricattavano lo Stato e il governo Berlusconi. E poi 8 anni al colonnello Giuseppe De
Donno e a Massimo Ciancimino, superteste in apparenza smentito su tutta la linea ma - in attesa delle motivazioni - in gran parte creduto dai giudici. Per il pentito Giovanni Brusca scatta la prescrizione.
Difese sotto choc, preannunciato l’appello. La posizione processuale di Mancino era relativamente
marginale, ma aveva pesato tantissimo nella vicenda. Perché c’erano le sue telefonate intercettate con il consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio, morto d’infarto a 62 anni, nell’estate del 2012, col dolore e l’irritazione del Colle. E c’erano le conversazioni (registrate dalla Dia) ancora dell’ex ministro dell’Interno con lo stesso Napolitano, distrutte senza essere depositate
(e dunque pubblicate), ma solo dopo il ricorso del Capo dello Stato
e su ordine della Corte costituzionale.
Decisione dura quella del collegio presieduto da Alfredo Montalto, il magistrato che, da Gip, aveva
arrestato per concorso esterno il decimo imputato di questa vicenda, Calogero Mannino, tenendolo in
carcere (nel 1995) sebbene avesse perso 40 chili e affermando che era una sua scelta, nutrirsi solo di
verdure. Mannino, processato a parte, in abbreviato, per la trattativa, era stato assolto dal Gup Marina Petruzzella, nel 2015. Sentenza che va in controtendenza rispetto ad assoluzioni nei grandi processi di Palermo – Andreotti, salvato in gran parte dalla prescrizione, lo stesso Mannino dall’accusa di mafia, il generale Mori, processato due volte e sempre uscito pulito – e perché dice a chiare lettere che la
strategia mafiosa di attacco allo Stato, iniziata dopo la conferma in Cassazione delle condanne del
maxiprocesso, con l’omicidio di Salvo Lima e con le stragi del ’92, fu vincente. I boss trovarono infatti sponde negli uomini dello Stato, che assecondarono le richieste di attenuazione del carcere duro, di una legislazione restrittiva contro i pentiti e i sequestri di beni. I mafiosi così continuarono: morti Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i grandi nemici di Cosa nostra, catturato, dal Capitano Ultimo e dal Ros di Mori e Subranni, Totò Riina – in circostanze misteriose, seguite da un’inspiegabile perquisizione del covo fatta solo dopo 18 giorni – gli eccidi proseguirono, stavolta in Continente, tra maggio e luglio ’93, a Roma, Firenze e Milano. E a novembre di quello stesso anno il guardasigilli dell’epoca, Giovanni Conso, non aveva rinnovato o prorogato 330 decreti di sottoposizione al 41 bis. La sentenza rimette poi in gioco il ruolo di Forza Italia, partito fondato, con Silvio Berlusconi, proprio da Dell’Utri, che sta già scontando 7 anni per concorso in associazione mafiosa. Dell’Utri “trattò” dal ’93 in poi, al posto del Ros: a gennaio del ’94 fallì l’attentato dello stadio Olimpico contro i carabinieri, a marzo
dello stesso anno il Partito FORZA ITALIA vinse le elezioni.
E tutto si acquietò.
DA : http://www.lastampa.it/
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