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Mundimago

lunedì 15 febbraio 2010

MILANO il sangue in via Padova

Milano, 13 febbraio: per chi brucia il sangue in via Padova?

Daniele Di Stefano Ass. Ya Basta! Milano – Ass. Para Todos Todo


Milano. Sabato 13 febbraio un ragazzo di 19 anni di origine egiziana è stato ucciso, sembra da giovani di origine latinoamericana. L’omicidio pare essere nato da un futilissimo motivo: un piede pestato sull’autobus. Si scatena la guerriglia urbana in via Padova, zona più multietnica della metropoli. La mobilitazione del primo marzo assume oggi ancora più senso, più urgenza. [da meltingpot.org]

Sabato 13 febbraio 2010. Alcuni di noi fanno appena in tempo a tornare in Lombardia dal seminario organizzato da Uninomade e Melting Pot, tenutosi al Tpo di Bologna, sul tema delle migrazioni. Ad accoglierli trovano una notizia terribile: a Milano, un 19enne di origine egiziana è stato ucciso, pare da giovani di origine latinoamericana, con conseguente guerriglia urbana scatenata dai nordafricani nella zona più multietnica della metropoli.

L’omicidio pare essere nato da un futilissimo motivo: un piede pestato sull’autobus, come riferiscono i due amici scampati all’aggressione, o forse del solito inopportuno apprezzamento a una donna. Ciò nonostante, un «investigatore» subito interpellato dall’Ansa sciorina le sue conoscenze sulla suddivisione per «materie» della malavita straniera [a te il racket, a me la droga, a lui la prostituzione], e sugli sgarri che portano a vendette. Viene da chiedersi a quale etnia competa il controllo dei piedi schiacciati.
Conosciamo la situazione dei giovani latinoamericani a Milano, specie di quelli che appartengono alle bande. Sappiamo quanti sforzi facciano per togliersi dalla strada, e quanto sia difficile perché la strada ti segue ovunque. Sappiamo anche che il rischio di commettere o subire violenza faccia parte della loro vita, e di come i conflitti tra bande siano generati più da semplici questioni di «prestigio» e onore, o dal machismo adolescenziale, che non da chissà quali oscure lotte di potere criminale. Sappiamo quante altre volte ciò sia accaduto all’interno delle relazioni tra bande latinoamericane: il 7 giugno 2009, a Milano, morì così David “Boricua”, che non era affatto un criminale: stava compiendo un percorso di emersione con i Latin Kings, da banda di strada ad associazione culturale.
Chi pensa che i fatti di via Padova siano generati dallo scontro per il controllo delle attività criminali, dunque, o non conosce l’oggetto delle sue investigazioni, o parla in malafede. Una malafede subito emersa dal fitto campionario della stupidità meneghina e nazionale, esemplificato dalle dichiarazioni vomitate a raffica dai politici. Ma per adesso lasciamole dal parte.

E’ sempre rischioso trarre ammaestramenti assoluti dagli episodi di cronaca, tuttavia urgono alcune considerazioni sulla situazione di profondo disagio sociale al tempo della crisi economica e della governance impossibile.
Un disagio che nella dimensione metropolitana si acuisce con il progressivo deteriorarsi della vita pubblica, generato dalle campagne d’odio in cui si profonde la cultura di destra e dalle quali si lascia tentare un vasto settore di popolazione, in maniera proporzionale al proprio smarrimento di fronte a una realtà incomprensibile, precaria.
Su come sia facile passare dallo status di disagiato a quello di violento, esiste una vasta letteratura sociologica. I giovani latinoamericani vivono in molte città europee una condizione comune, fatta di sradicamento culturale e di marginalità sociale, cui rispondono con l’attaccamento identitario ai propri simili. Non si sentono italiani, anche perché non sono trattati come tali dagli indigeni d’Esperia, ma perdono i legami con i paesi d’origine. Da questo meccanismo di adesione identitaria, di aggregazione spontanea, nasce una linea di demarcazione tra chi è con te, è tuo amico, è della tua banda, e chi non lo è. Se chi non lo è ha la tua età, vive in condizioni simili alle tue, ma non ha la tua origine o appartiene a un’altra banda, ebbene, allora può facilmente diventare un tuo nemico. Se lo vedi come un tuo nemico, il solo fatto che ti pesti un piede, o ti guardi la fidanzata, può bastare a scatenare l’aggressione.

Ma la cronaca di queste ore non si concentra sulle motivazioni dell’omicidio, bensì sulla rivolta rabbiosa dei nordafricani di via Padova, protagonisti di danneggiamenti di automezzi, scontri e devastazione di negozi. Anche per loro, la reazione è di tipo identitario: hanno ucciso uno come me, uno della mia comunità, dunque voglio vendetta. La loro logica non è forse migliore, ma nessuno può dire che non stia nelle cose.
Chi difende i nordafricani, chi difende gli stranieri? La polizia schierata a «proteggere» il corpo dell’assassino, cioè ad acuire la rabbia? Gli italiani che, si perita di annotare l’inviato Ansa, continuano indifferenti l’happy hour davanti alla scena del delitto? Le istituzioni milanesi, il cui unico vanto, frutto del machismo poliziesco del vicesindaco De Corato, è sbandierare il numero di sgomberi come fossero i centimetri di un membro priapesco? No, i nordafricani sanno di essere soli, e reagiscono perché si sentono toccati nel vivo della propria comunità: i suoi giovani. La rabbia esplode con dinamiche già viste al sud, e si accanisce sulle cose. In più, occorre notare l’incapacità delle forze di polizia nel contenere tale rabbia: cosa già vista a Milano, quando a morire fu Abba Guiebre, e gli africani ruppero i cordoni di polizia per giungere in corteo sul luogo dell’omicidio razzista. Lugubre la simbologia del sangue del cadavere, fatto bruciare in segno di vendetta. Lugubre ma efficace: la nostra metropoli brucia di rabbia per le sue ferite.

La condizione indispensabile di questo scontro, infine, è l’identitarismo razzista di buona parte della società italiana, per la quale la morte del giovane milanese non sarà quella di un cittadino ucciso da concittadini, bensì semplicemente quella di un egiziano ucciso da altri stranieri. Una società che forse invocherà gli inutili rimedi di sempre: più sbirri, più controlli, più ronde, più espulsioni, continuando così a spingere i vicini di casa [in via Padova i cittadini di origine straniera sono la maggioranza] a chiudersi nell’identitarismo.
A Bologna, c’era chi parlava di “conflittualità orizzontale”, corollario della crisi. In altre parole, stiamo parlando di una guerra tra poveri, nella quale è inutile cercare dove stia il torto. Nelle guerre tra poveri, non esistono vincitori, ma solo perdenti. Non ci sono vincitori nemmeno nell’episodio di Anagni, la rissa tra albanesi e romeni che suggella la tristezza di questo 13 febbraio.

Se proprio vogliamo cercare le responsabilità profonde, cerchiamole. Ora sì che ci tornano d’aiuto le dichiarazioni dei politici. Partiamo dalle punte di diamante della stupidità razzista: i leghisti.
Borghezio, fisso come un’icona nel suo ruolo di grasso sciacallo, parla di espulsioni di massa. Il suo collega, il milanese Salvini, torna all’idea del White Christmas: controlli ed espulsioni casa per casa. Calderoli, forse per far dimenticare di avere carnagione palesemente mulatta, attacca la politica dell’«integrazione facile». Non si capisce di cosa blaterino personaggi che comandano da anni la politica migratoria con la Legge Bossi-Fini, che governano la città, la provincia e la regione, e che hanno regalato all’Italia l’ultimo dei problemi che le mancavano, la ciliegina sulla torta: il razzismo istituzionale. La realtà è che questi sono i frutti della loro politica sull’immigrazione, come dice il buon Bersani, che però dimentica il lavoro di utile idiota svolto dal suo partito di ieri e di oggi, dalla legge Turco-Napolitano ai manifestini di Pianura.

Cicchitto scarica le responsabilità della destra, affermando che questi episodi accadono anche in Francia. Come se i cugini d’oltralpe fossero governati da un oltranzista dell’intercultura, e non da uno che, in campagna elettorale, definì «feccia» i banlieuesards trattati come bestie dalla polizia francese. Il suo virgineo collega di partito, il governatore Formigoni, ci ricorda che le nostre leggi vanno rispettate da tutti, soprattutto da chi è «ospite». Allora, dovrebbe sapere che, a trattare l’ospite come un animale, si mette a rischio, se non l’argenteria, almeno la cristalleria. No, decisamente non è possibile associare la figura di Formigoni alla tradizionale ospitalità mediterranea.
Eccoli, per chi li vuole cercare, i corresponsabili di questo e altri episodi. Altro che integrazione facile. Sono loro, le prime galline che hanno cantato, quelle che hanno deposto l’uovo dell’intolleranza. Invocano classi ponte, tetti del 30 per cento, ronde di onesti picchiatori, respingimenti in mare, in nome di un concetto di cittadinanza che assomiglia paurosamente a quello di identità tribale. Finché gente così avrà in mano le leve del potere, non ci sarà nulla di facile. E il fatto che ciò sia controproducente anche nell’ottica della politica securitaria, è ben magra consolazione per noi che la avversiamo.

Qualcuno potrebbe pensare che questo episodio affosserà le intenzioni di tutti quelli che si stanno impegnando nella costruzione della giornata del 1 marzo, la prima mobilitazione migrante in termini di sciopero sociale. Ma sarebbe un errore frutto di emotività. La mobilitazione, anzi, assume oggi ancora più senso, più urgenza. Occorre dimostrare quanto l’economia italiana dipenda dal lavoro migrante, quanto sia impossibile trasferire su cinque milioni di migranti la responsabilità di singoli momenti di degenerazione sociale, quanto sia necessario scacciare la paura che ronza nella testa degli italiani.
Non ci si nasconda dietro il «protagonismo migrante» o dietro le logiche sindacali, per sottrarsi alla responsabilità di costruire tutti una giornata senza di noi, cioè anzitutto una giornata con noi, vecchi e nuovi italiani, chiamati a vivere in una società meticcia. Una società nella quale se il migrante non ha diritti ne avrà meno anche l’indigeno italiano, nella quale il controllo dei corpi e della vita, la subordinazione della società agli interessi economici e la perdita del senso della realtà minacciano tutti, e dunque esigono una risposta ben al di là dell’appartenenza etnica e della normale prassi sindacale di astensione dal lavoro.

Milano inizierà questo percorso di emersione delle istanze meticcie già sabato 20 febbraio con il corteo del Samedi Gras, attraverso una festa condivisa che oltrepassi le appartenenze culturali. Un percorso che ci porterà al 1 marzo, al quale chiamiamo a raccolta tutti, compresi i cittadini nordafricani di via Padova.
Così, secondo noi, vanno incanalate la rabbia e la frustrazione: in un momento di rivendicazione moltitudinaria che ampli il concetto di cittadinanza nella maniera discussa da Uninomade a Bologna. Il terreno della cittadinanza, d’ora in poi, sarà quello nel quale si dispiegheranno le giuste rivendicazioni di chi è consapevole dei propri diritti. Un terreno che ci permetta di affermare [nordafricani, latinoamericani, europei dell’est e dell’ovest, asiatici e mediterranei], così come da anni rivendichiamo di essere tutti clandestini, che siamo tutti milanesi, siamo tutti italiani.

Daniele Di Stefano Ass. Ya Basta! Milano – Ass. Para Todos Todo

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