La "fuga perfetta" di Dell’Utri per evitare l'arresto
C’è un piano che, per quanto gli avvocati si sgolino nel definirlo «assolutamente casuale», rivela invece lucidità, sangue freddo, determinazione. E racconta quella che a tutti gli effetti si sta svelando come essere una fuga perfetta.
Se fosse un giallo dovremmo mettere in fila i fatti e lasciare a chi legge il gusto di trovare gli indizi. E il colpevole. Per dovere di cronaca riveliamo subito i possibili esiti. Se gli dovesse andare male, se il 9 maggio dovesse cioè essere condannato come mafioso dopo vent’anni di processi, Marcello Dell’Utri ha comunque forti possibilità di restare libero in Libano. O altrove in Medio oriente. Con i suoi libri antichi e ricercati che piano piano stanno già viaggiando verso Beirut.
Se gli dovesse andare bene (la Cassazione annulla con un nuovo rinvio in Appello oppure annulla e basta) decadono nel giro di poche ore tutte le richieste di arresto, nazionali ed internazionali. E ci tocca pure fargli tante scuse. Una cosa è certa: l’estradizione di Marcello Dell’Utri dal distretto giudiziario di Beirut, capitale del Libano, è faccenda assai complicata. Al limite dell’impossibile. Comunque lunghissima. Vi ricordate Felicino Riva, bello, ricco, sciupafemmine e bancarottiere? Ecco, scappato a Beirut nel 1969 dopo la condanna, è tornato in Italia nel 1982 dopo che i suoi legali erano riusciti a ridurre la pena a pochi mesi.
E il trattato di collaborazione giudiziaria tra Italia e Libano, comprensivo quindi di estradizione, era già in vigore dal 1970.
Il cuore di tutta la faccenda è ben sintetizzato in una battuta che sta girando in questi giorni negli uffici di via Arenula. «Come si traduce punciutu ( il soldato affiliato al clan, ndr)?». E ancora: «Come si traduce mandamento (il territorio controllato dalla famiglia, ndr)?». Come rendere la seguente affermazione del pentito Francesco Di Carlo: «Teresi mi disse che Bontade voleva combinare Dell’Utri». Spiega chi è Teresi. Poi Bontade. E come si fa con «combinare»? Sono le domande, molto preoccupate, che impegnano da una settimana una squadra di interpreti chiusi nelle stanze del ministero della Giustizia per tradurre e poi trasmettere al ministero gemello libanese gli atti che dimostrano perché Marcello Dell’Utri, parlamentare della Repubblica per 19 lunghi anni, debba essere arrestato. Il fatto è che se il trattato giudiziario Italia-Libano lascia intendere che la lingua di collaborazione sia il francese, l’avvocato Nasser al-Khalil (nipote del potente leader della coalizione di governo) ha dichiarato: «È normale che gli atti del processo necessari per valutare l’accusa nei confronti del mio assistito siano redatti in arabo dato che l’arabo è la lingua ufficiale del paese». Punciutu e combinato sono già difficili in francese. Figuriamoci in arabo.
La domanda successiva è quali e quanti atti siano necessari alla Corte di Cassazione di Beirut per valutare la posizione del cittadino italiano. Non si tratta solo della richiesta di arresto firmata l’8 aprile scorso dalla procura generale di Palermo. I giudici libanesi devono anche poter capire come si arriva a quella richiesta. E quindi devono avere a disposizione le quattro sentenze sin qui emesse sul caso. Un veloce conteggio dice che si tratta di 1.800 pagine per la condanna in primo grado (9 anni) del 2004; 641 della condanna di Appello del 2010; 146 della Cassazione che nel 2012 ha annullato con rinvio in Appello; 477 del secondo Appello che nel 2013 ha confermato i sette anni di condanna. In tutto sono oltre tremila pagine. E non è finita qua. Poiché l’accusa nei confronti di Dell’Utri è concorso esterno in associazione mafiosa, un reato non previsto dal nostro codice penale ma tipizzato da numerose sentenze della Cassazione, ecco che le autorità libanesi potrebbero fare richiesta anche di quelle sentenze. Oltre al fatto che vagli a spiegare, ai libanesi, com’è che in Italia si condannano persone per un reato che esiste ma non è previsto nel codice penale.
Marcello Dell’Utri è agli arresti da sabato scorso e da mercoledì è stato trasferito in un ospedale. Chi l’ha visto lo descrive «provato, con barba lunga, una polo di lana» ma «sereno, non ha mai cercato di sottrarsi alle autorità». È arrivato a Beirut con un volo da Parigi il 24 marzo. Ha viaggiato con il suo passaporto (i magistrati sono convinti che ne abbia anche uno diplomatico della Guinea Bissau) e la sua carta di credito. Aveva con sé 30 mila euro in contanti, alloggiava all’hotel Phoenicia (700 euro a notte) e gode di forti appoggi politici in loco.
Il reato si prescrive intorno al 20 luglio. Il 9 maggio ci sarà il verdetto della Cassazione. Il 12 maggio scadono i termini per far arrivare in Libano la documentazione processuale tradotta. Se non c’è una condanna definitiva, l’articolo 21 del trattato Italia-Libano non prevede l’obbligo di estradizione. Nel caso di condanna, resta sempre la carta - più difficile ma possibile - di contestare la natura politica del processo. Perla finale: se Dell’Utri torna libero in attesa che i giudici libanesi si chiariscano le idee sulle sue colpe, avrà un obbligo di domicilio all’ultimo indirizzo conosciuto. L’hotel a cinque stelle con vista sul porto di Beirut.
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