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martedì 12 novembre 2019

La Vera Storia della Villa in Sardegna

Nel processo che si è chiuso con la condanna definitiva di Marcello Dell’Utri viene ricostruita anche la storia di un maxi-investimento mafioso in Sardegna, che nasconde un impressionante incrocio di storie criminali. Ne parlano decine di pentiti di comprovata attendibilità,   a cominciare da Tommaso Buscetta

Nel processo che si è chiuso con la condanna definitiva di Marcello Dell’Utri viene ricostruita anche la storia di un maxi-investimento mafioso in Sardegna, che nasconde un impressionante incrocio di storie criminali. Ne parlano decine di pentiti di comprovata attendibilità,
 a cominciare da Tommaso Buscetta

DI PAOLO BIONDANI

Il boss Pippo Calò, che tra gli anni Settanta e Ottanta vive a Roma sotto falso nome, investe somme enormi in speculazioni edilizie in Sardegna, realizzate attraverso costruttori-prestanome, riciclando così anche i riscatti dei sequestri. All’affare partecipano altri boss di Cosa nostra, che ripuliscono i profitti del narcotraffico, e due tesorieri-usurai della Banda della Magliana, Ernesto Diotallevi e Domenico Balducci. A gestire l’investimento in Sardegna, con il compito di comprare terreni vista mare e renderli edificabili con l’aiuto di politici e massoni, è Flavio Carboni, il faccendiere poi condannato come complice della colossale bancarotta del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Dello stesso investimento parlano anche i collaboratori di giustizia della Banda della Magliana. Questo permette agli inquirenti di trovare riscontri sia dal versante di Cosa nostra, sia dal lato della criminalità romana: capitali, società, prestanome.

(…) Nel giugno 1993 Carboni crolla e ammette che, almeno per un gruppo di società, «i finanziamenti li ha procurati Balducci ottenendo un prestito da Calò». Mentre la sua storica segretaria testimonia che «il signor Mario», cioè Pippo Calò, «era solito frequentare il nostro ufficio per consegnare grosse somme di denaro a Carboni».

Nel processo che si è chiuso con la condanna definitiva di Marcello Dell’Utri viene ricostruita anche la storia di un maxi-investimento mafioso in Sardegna, che nasconde un impressionante incrocio di storie criminali. Ne parlano decine di pentiti di comprovata attendibilità,   a cominciare da Tommaso Buscetta


Le indagini accertano che le prime ville costruite in Sardegna funzionano anche come covi. Una si trova a Punta Lada, a Porto Rotondo, e diventa il rifugio di Danilo Abbruciati: un killer della banda della Magliana, morto a Milano in un conflitto a fuoco nel 1982, mentre tenta di assassinare il vicepresidente dell’Ambrosiano e braccio destro di Calvi, Roberto Rosone.

Gli atti di compravendita di quella casa-covo rappresentano un «formidabile riscontro» alle rivelazioni dei pentiti: uno dei tre proprietari della villa trifamiliare è Domenico Balducci in persona, il tesoriere-usuraio della Magliana, che prima di essere ucciso il 16 ottobre 1981 in un agguato cede la sua quota al braccio destro di Calò a Roma, Guido Cercola. Calò e Cercola sono stati poi condannati all’ergastolo, con sentenza definitiva, come organizzatori della strage del rapido 904, il «treno di Natale» fatto esplodere in una galleria il 23 dicembre 1984: il primo atto di «terrorismo mafioso», con 17 morti e 267 feriti.

In questo quadro si inserisce anche Berlusconi. Nello stesso punto della costa sarda, Carboni possiede una villa meravigliosa, la stessa dove ha ospitato, oltre ai boss della Magliana, anche Roberto Calvi, prima di accompagnarlo a Londra, la città dove il banchiere, nel 1982, viene ucciso da ignoti killer che inscenano un finto suicidio. (…)

Pressato dai suoi finanziatori e incalzato dai debiti, Carboni deve vendere la sua villa di Punta Lada. E trova subito due compratori: un certo Lo Prete e il signor Attilio Capra De Carrè, che è già finito agli atti del processo, perché era uno degli ospiti della cena di Arcore nella notte del sequestro D’Angerio. Ma si tratta solo di un brevissimo passaggio intermedio. Perché i due compratori non tengono la proprietà: la rivendono a Silvio Berlusconi, che la ribattezza Villa Certosa.

Nella pericolosa partita con il faccendiere Carboni entra anche un altro affare, molto più ambizioso: il maxiprogetto «Olbia 2». Nel 1980 è proprio Carboni a contattare un grande amico sardo del Cavaliere, Romano Comincioli, per vendere ben mille ettari di terreni non ancora edificabili. Berlusconi partecipa all’affare sborsando 21 miliardi di lire. Sentito come testimone dopo il fallimento del Banco Ambrosiano, Berlusconi conferma di «aver acquistato tramite Carboni i terreni» per «il progetto di creare una città satellite a Olbia». Il Cavaliere riconosce anche di aver utilizzato come schermo l’amico Comincioli, «che ha ricevuto da noi mano a mano i finanziamenti necessari per l’acquisto dei terreni, intestati a due società fiduciarie acquistate dal gruppo Fininvest».

I giudici concludono che «dunque, dalla viva voce di Berlusconi si è avuta la conferma dei suoi rapporti con Flavio Carboni e del ruolo di prestanome di Comincioli». Ma il Cavaliere non ha commesso reati: non c’è nessuna prova, riconoscono i giudici, che Berlusconi sapesse che dietro Carboni c’erano i capitali sporchi della mafia siciliana e della criminalità romana. Mentre Comincioli ammette di aver comprato i terreni «nell’interesse di Berlusconi» e conferma di aver «conosciuto Balducci, ma non Diotallevi e Abbruciati». E giura di «ignorare che Carboni
 fosse in mano a quegli usurai romani».

Comunque, questa volta, Dell’Utri non c’entra: dal 1979 si è dimesso dal gruppo Berlusconi per diventare manager, con il fratello gemello Alberto, di un chiacchieratissimo immobiliarista siciliano, Filippo Alberto Rapisarda.

Testo tratto dal libro “Il Cavaliere Nero, la vera storia di Silvio Berlusconi”, di Paolo Biondani e Carlo Porcedda, ed. Chiarelettere.



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