Copenhagen. A Christiania la polizia perde la calma
Alberto Zoratti Fair
Delegati e manifestanti oltre ogni previsione mettono a dura prova i nervi dei poliziotti danesi, che nella notte tra lunedì e martedì hanno assalito la comune di Christiania e arrestato quasi duecento persone. Nella conferenza intanto la situazione non si sblocca.
Metti che sei una famosa scrittrice, nonché giornalista della rivista statunitense The Nation. Metti che per lavoro e per diletto decidi di andare a Copenhagen per seguire i lavori della Conferenza Onu sui cambiamenti climatici. Metti che per lavoro e per diletto finisci a fare un incontro pubblico a Christiania, la comune più famosa del mondo, e la polizia danese pensa bene di circondare la zona, inondarla con i gas lacrimogeni ed arrestare 194 persone.
E metti che, solo per pura fortuna, la tua testimonianza è l’unica in controcanto rispetto ai media mondiali. Se non ci fossi stata, sarebbe stato una sinfonia di un’unica nota.
Benvenuti nella civile Danimarca. In cui la polizia sta cominciando a perdere le staffe per le giornate di straordinario a cui sono sottoposti gli agenti, per stare dietro, seguire, controllare decine di migliaia di persone che hanno scelto di dire la loro sul cambiamento climatico.
Come se non bastasse, il sistema degli accrediti ufficiali è letteralmente crollato sotto il peso di oltre 35mila persone. Neanche i badge aggiuntivi ordinati in tutta fretta servono a coprire la domanda. Avranno pur diminuito gli accessi, ma per entrare alla mattina è necessario un calvario di mezz’ora nel freddo danese, con la polizia che cerca di gestire le masse umane e Greenpeace che offrendo caffè gratis ha scelto di proteggere un’altra specie, il delegato, da estinzione certa.
Tutto questo accade mentre i negoziati sono in un punto di stallo, con le posizioni del G77 e degli Stati uniti lontane anni luce. E con i Paesi industrializzati che non vogliono cedere su taglio delle emissioni e finanziamenti. Unico caso a parte, il Canada, che ha scelto una posizione di lanciare un piano ambizioso di tagli [40 per cento nel 2020]. Ma che parte da una posizione a dir poco discutibile, basti considerare la classifica dei grandi inquinatori nel quinto rapporto annuale presentato da Climate Action Network e Germanwatch al vertice di Copenhagen: se le emissioni vengono considerate in proporzione agli abitanti, la Cina, con il record di emissioni globali, è al 52mo posto, gli Stati Uniti sono al 53mo. Agli ultimi quattro posti l’Arabia Saudita, maglia nera, seguita da Canada, Kazakhstan e Australia.
L’Italia? Non sfigura tra i meno impegnati, con un’ottima 44 ma posizione su 57. Vediamo la ministra per l’ambiente Stefania Prestigiacomo e il governo italiano, aldilà delle briciole, cosa saranno disposti a fare.
Intanto tra i negoziatori europei serpeggia un certo fastidio per l’atteggiamento poco politicamente corretto dei Paesi del sud del mondo. Il rischio, a loro modo di vedere, è di non raggiungere un accordo da poter firmare il 18 dicembre, quando i Capi di stato faranno la loro sfilata nella fredda Copenhagen.
A Cancun, in Messico, durante la ministeriale della Wto nel 2003, si sottolineava che piuttosto che un pessimo accordo, meglio nessun accordo. Dopo le green room per le trattative ristrette, l’atteggiamento dei Paesi industrializzati ed i blocchi contrapposti, anche questa analogia con la Wto fa, sinceramente, preoccupare.
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