Emergenza umanitaria a Rosarno
Antonello Mangano www.terrelibere.org
Sono più di mille gli africani giunti nella Piana per la raccolta delle arance. Come ogni inverno, da vent’anni, è emergenza umanitaria. In centinaia vivono vicino all’inceneritore, in un ex stabilimento destinato alla raffinazione dell’olio di oliva e poi abbandonato. Ora nei silos di metallo ci dormono i ghanesi. Gli africani sono vittime dell’economia mafiosa e delle leggi razziste. Fiumi di denaro accanto alla povertà più estrema, promesse senza seguito vicino a una violenza senza interruzioni
«Cosa facciamo con una tonnellata di marijuana?», si chiedono i carabinieri della compagnia di Vibo Valentia, dopo aver passato molte ore a raccogliere l’erba messa ad essiccare tra i capannoni e i magazzini. Siamo nell’azienda agricola di proprietà del direttore dell’«Istituto vendite giudiziarie» del tribunale. La soluzione che segna la fine del più grande sequestro della zona, avvenuto quindici giorni fa, è semplice e pittoresca: i tre camion strapieni di droga partono dalle campagne di Francica e si fermano di fronte all’inceneritore di Gioia Tauro, gestito dalla multinazionale francese Veolia e obiettivo di una lunga campagna dei movimenti ambientalisti. Sei milioni di euro letteralmente in fumo. Gli africani sono lì, a due passi, di fronte a questo strano ed enorme incastro di parallelepipedi grigi e azzurri che brucia i rifiuti della Calabria e delle regioni circostanti.
Ormai sono in 700 nella città africana che dall’estate in poi si è popolata in seguito allo sgombero della ex Cartiera, la fabbrica abbandonata che da una ventina d’anni dava l’illusione di un tetto ai raccoglitori africani impegnati a duellare con l’inverno rosarnese. Sono ghanesi, ivoriani, sudanesi, maliani, togolesi, burkinabé. Non tutti sono irregolari: molti hanno il permesso per motivi umanitari, e tanti ne possiedono uno in scadenza, perché erano al Nord ed hanno perso il lavoro. Un licenziamento che li ha proiettati direttamente qui, in questo limbo a metà tra Africa ed Europa.
Quest’area si chiama Opera Sila, Arssa o Esac. Sono agli acronimi degli enti per l’agricoltura, agenzie per lo sviluppo che avevano impiantato qui uno stabilimento per la raffinazione dell’olio. Uffici e capannoni, binari e grandi contenitori. Tutto abbandonato, come la vicina area industriale, una sequenza di strisce d’asfalto ortogonali, lampioni ed erbacce che rappresenta il più grande monumento italiano allo spreco di denaro pubblico. Gli africani hanno questo brutto vizio, in Campania come in Calabria: si concentrano in questi edifici diroccati, che le erbacce ed il tempo lentamente consegnerebbero alla dimenticanza, e senza volerlo ci sbattono in faccia la tendenza nazionale al latrocinio. Ci costringono a riflettere sulle carriere costruite incolonnando promesse, ci fanno immaginare solenni inaugurazioni, stanziamenti cospicui, tagli di nastri, discorsi a base di volani di sviluppo che si tramutano in auto di lusso, mogli in pelliccia, e lacrime amare di lavoratori ingannati e costretti a partire su una cuccetta a sei posti di un Espresso diretto a Milano o a Torino.
«Io dormo qui», dice Stephan, indicando l’oblò del silos che dovrebbe essere pieno di ottimo olio calabrese frutto di ulivi secolari e che invece è diventato la sua stanza. Ha sistemato le sue coperte all’interno del cilindro di metallo, e sta preparando la cena con un cucinino smaltato bianco ed una bombola a gas. «Lamb soup», precisa. Pomodoro e agnello, cottura a fuoco lento accompagnata da spezie tritate col barattolo di vetro della conserva. Se questo è un uomo, viene da pensare. Costretto a dormire in un cilindro di metallo alto venti metri. Con un documento in tasca e qualche euro in più potrebbe affittarsi un posto letto, ma la legge prevede il sequestro dell’immobile per una locazione ad un irregolare. Il sistema economico della Piana è scientificamente organizzato per assicurare profitti a molti zeri a pochi e la miseria per tutti gli altri, compresi i piccoli produttori che negli anni passati conobbero l’orgoglio della rivolta e che oggi sembrano rassegnati alla sopraffazione. I decreti da Reich imposti da tristi politici delle province padane da un lato, l’economia malata di mafia e ignoranza dall’altro. Gli africani lì in mezzo.
Italia Uno.
«Italia Uno!», ride Mohamed, anche lui ghanese, dopo avermi concesso il permesso di fotografarlo. Alcuni non ne possono più di essere ripresi e poi dimenticati, nuovamente oggetti, ancora merce, questa volta nel mercato della comunicazione. Altri contrattano: «Ok, ma stampi le foto e ce le fai avere». Mohamed, invece, ha ancora voglia di scherzare in questo delirio di capannoni dal tetto sfondato, cucine con la bombola, tende da camping, silos vuoti, binari interrotti, sveglie all’alba, inceneritori francesi, chilometri sulla nazionale, giornate di lavoro durissimo, fango e stivali, promesse di politicanti perennemente in campagna elettorale e solo due motivi per distrarsi e sperare: Dio e la televisione, che condividono un salone attrezzato con sedie di plastica, un pulpito, uno schermo ed una parabolica. I volontari della chiesa pentecostale non sono conviti di questa commistione tra sacra scrittura e ballerine scosciate, ed hanno deciso di porvi rimedio con una scatola gialla di chiodi provenienti dalla Romania, un martello e alcune assi di legno. Stanno costruendo la nuova chiesa, aperta a tutti, precisano: cattolici, evangelici, musulmani. Una decina di persone si danno da fare per inchiodare i legni della base ed innalzare i pilastri. La tv vince, quindi, il salone sarà destinato allo svago, Dio deve farsi più in là. Pino, il volontario che ha dato il via ai lavori, mi contraddice: «Gli africani non salveranno nessuno, solo Dio può». «Ma Dio ha bisogno di strumenti». Sembra convincersi, e batte con più forza col suo martello.
I sudanesi, invece, hanno fatto da soli, costruendo con teli blu di plastica una tenda che resisterebbe benissimo anche nel Sahara. All’interno, grazie ad una parabola, si vedono i canali di Kartoum. In fondo un piccolo spaccio con generi alimentari, e a ferro di cavallo tappeti e divani per bere insieme il tè verde. I sudanesi hanno esperienza: ormai sono dei professionisti del lavoro stagionale. Molti fanno base a Palermo e girano in automobile le campagne del Sud inseguendo il lavoro. Hanno il permesso di soggiorno come rifugiati politici e per questo stanno meglio degli altri, per esempio possono spostarsi più facilmente, senza temere controlli, senza tremare di fronte ad ogni divisa.
Arriva un furgoncino, pieno di cassette gialle. Due galline cinque euro. Finiranno arrostite qualche metro più in là. Nello spiazzo alcuni giocano a calcio, altri sono intenti a riparare automobili dalle targhe più varie, da Matera a Pistoia. All’ingresso c’è uno spaccio messo sù dai due ghanesi che sono arrivati qui da più tempo, sulla destra lo stabile messo meglio [ha le finestre sfondate, ma il tetto c’è e ci sono le stanze]. Un’agghiacciante «X Mas» ed una svastica meriterebbe subito una mano di vernice, per fortuna la scritta precede l’arrivo degli africani, serve solo a ricordare che qui oltre alla corruzione, all’inquinamento, alla mafia ed all’umidità ci sono pure i fascisti. Quando si dice non farsi mancare nulla.
Inerzia grigia. Per loro non sarà una novità: in gran parte dell’Africa le piccole élite al potere vivono nel lusso sfrenato condannando alla fame più estrema la maggioranza del popolo. Potrà essere una sorpresa scoprire che in questo lembo meridionale dell’Europa le cose funzionano allo stesso mondo. I rivoli dei bilanci, gli interstizi dei fondi, le provvidenze europee e tutto quello che si riesce a raccattare dallo Stato sono l’ossessione dei politici locali, perennemente col cappello in mano quando sono rivolti verso Roma o Bruxelles, arroganti e chiusi quando le risorse vanno trasformate prima in clientele, quindi in voti, infine in lussi senza felicità. Si sapeva da mesi che l’emergenza sarebbe arrivata, puntuale come l’inverno. E nessuno ha fatto nulla. La scorsa stagione era trascorsa con bagni chimici installati e poi tolti, cisterne inviate e ritirate, fiumi di denaro spediti, non rendicontati, non spediti. Tanti piccoli interventi non risolutori, circondati dai progetti a cinque zeri che seguono costanti il loro iter, incuranti dei tempi stringenti dell’emergenza umanitaria.
Il progetto Assi [Azioni di sviluppo sociale per immigrati], partito un anno fa grazie ai soldi del «Fondo Lire Unrra», prevede interventi in tutta la provincia che oggi si concretizzano in otto infopoint distribuiti sul territorio [«mediazione linguistica e culturale; consulenza legale e sanitaria; orientamento al lavoro»]. «Ci sono 200 mila euro disponibili e non sono ancora stati spesi. Maroni è venuto a Reggio ed ha fatto la sua bella figura, ha promesso i soldi, li ha mandati e ora questi soldi non si possono spendere?», denuncia l’Osservatorio migranti, riferendosi ai fondi del «Pon sicurezza» gestiti dal ministro leghista.
Nel frattempo, gli africani stanno facendo da soli. L’area si basa sull’autorganizzazione e una semplice regola. Si entra solo con una tenda, per evitare i cubi di cartone che alla Cartiera portarono all’incendio. Ma i posti si stanno esaurendo, qua e là ci sono cumuli di eternit, tutti gli immobili hanno il tetto o le finestre sfondate e sta per arrivare il freddo. Sono forti gli africani, sia moralmente che fisicamente. Ma non è facile resistere cinque mesi al fumo dei rami bruciati per riscaldarsi, all’umidità delle cinque di mattina, agli antiparassitari irrorati nelle campagne o alle notti passate in casolari diroccati. I volontari diffondono la notizia della circolare del ministero, che annulla [o chiarisce] le disposizioni precedenti sui «medici-spia» che avrebbero dovuto denunciare gli irregolari. Non si fidano, i ragazzi. Sanno che è facile farsi mare in campagna, o tornando dal lavoro. Ma chi non ha i documenti in regola ha paura lo stesso. Forse si farà medicare da un compagno, forse si farà accompagnare al pronto soccorso. Non tutti vivono qui. Molti africani sono alla «Rognetta», il rudere di un ex stabilimento di trasformazione del succo d’arancia, nel centro di Rosarno. Altri alla «Collina», due casolari con il tetto sfondato in mezzo a campi di ulivi nei pressi di Rizziconi. Ovunque la società civile, fin dall’estate, porta generi di prima necessità.
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Film d’azione.
Una Panda nera fa un primo giro dell’isolato. Poi un secondo. I quattro giovani a bordo rallentano e guardano dentro un locale, «Accademia Texas Hold’em» dice l’insegna. Siamo a Gioia Tauro, sono le 21 di un sabato sera di fine novembre. I carabinieri notano le manovre e pensano: è un sopralluogo. Tra poco ci sarà una rapina. Arrivano i rinforzi, da entrambe le parti: una seconda Panda nera ed altre gazzelle della compagnia di Taurianova. I rapinatori vengono arrestati, sono rosarnesi, due di loro braccianti agricoli. In macchina numerosi armi e quattro passamontagna modello «Mephisto», cioè neri e con tre piccoli fori. I carabinieri sequestrano anche un cd-rom masterizzato, col pennarello avevano scritto «Misto ‘ndrangheta», intitolando così la compilation di mp3 contenente «’A vinditta veni i luntanu», «A mugghieri du capubastuni», «Pi nu sgarbu all’onorata», «Cu sgarra paga». I giovani ascoltavano quindi le lugubri cantilene mai mutate nel tempo che celebrano coltellate, omertà e vendette implacabili. I loro «colleghi» napoletani, almeno, preferiscono melodie a base di destini infami e amori travagliati. La rapina non avrà luogo. Sarebbe stata una scena alla Tarantino, quattro invasati col passamontagna che urlano e puntano le «Herstal» calibro 7.65 d una piccola folla di giocatori terrorizzati. Un normale sabato sera della Piana.
Biagio Vecchio sta per uscire dalla sua officina, per oggi la giornata è finita. Siamo all’inizio di novembre. Meccanico, 67 anni, soprattutto nonno ed omonimo del giovane che due mesi prima fa uccise Antonio Marano, venti anni, al termine di un litigio concluso a colpi di pistola automatica. Dopo qualche giorno Marano si presenta ai carabinieri di Vibo Valentia per ammettere le sue responsabilità. Ma non è bastato. Il killer aspetta il nonno di fronte all’officina, pochi colpi, poi sale nell’auto dove un complice aspetta col motore acceso. Vendetta trasversale, niente da capire. Tutto consueto.
Deve essere emozionante entrare in uno stadio che si chiama «Giovanni Paolo II». Il presidente del Rosarno, per qualche tempo, non potrà farlo, perché è stato colpito da Daspo, la misura «irrogata» – secondo il burocratese della polizia – dalla Questura di Reggio Calabria al termine di una rissa scoppiata per una partita del campionato di serie D, disputato a metà ottobre al campo di Bocale, periferia reggina. «Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio», commenta il massimo dirigente. E ricorda le attività di valenza sociale svolte, «per esempio, quando ci recammo dalle suore, vittime di alcuni atti intimidatori, per mostrare la nostra vicinanza».
Insomma, non siamo in paradiso. Eppure è così che lo definisce un quotidiano locale. «Gli africani hanno trovato qui il loro eldorado». Dopo lo sgombero estivo della Cartiera, lo stesso giornale scrisse: da oggi, «la strada tra San Ferdinando e Rosarno non farà più paura ai viaggiatori assidui che percorrevano quel breve tratto di carreggiata con l’ansia di incontrare un ‘nero’».
QUELLO KE NN DICE NESSUNO E ' KE UN LAVORATORE ISCRITTO ALLE LISTE DELL'AGRICOLTURA HA DIRITTO AD UN ASSEGNO KE PERCEPIRA' L'ANNO SUCESSIVO , IN BASE ALLE GIORNATE LAVORATE L'ANNO PRECEDENTE , SICURAMENTE I RAGAZZI STRANIERI NON LO SANNO ED OVVIAMENTE GLI ISCRITTI ALLE LISTE SARANNO GLI ABITANTI DEL LUOGO , KE FACENDO ESEGUIRE IL LAVORO AGLI IMMIGRATI PAGATI POKI EURI , L'ASSEGNO LO PRENDONO GLI ABITANTI SENZA SFORZO ,,,,,,,,,,,,, ECCO PERKE GLI IMMIGRATI VENGONO TENUTI ILLEGALI ,,,,,,,,,,,,,,,,,,
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Se volete comprendere bene cosa vuol dire essere Neri in Calabria, se volete comprendere bene i fatti di Rosarno dovreste vedere il documentario “Nìguri”.
RispondiEliminaIl trailer lo trovate qui:
http://www.youtube.com/watch?v=iOTxvI7oIIE
La trama:
Cosa succede agli immigrati richiedenti asilo tra l’arrivo a Lampedusa e l’ottenimento dello status di rifugiato? Siamo davvero pronti ad accogliere queste persone nel nostro paese? E ancora, come abbiamo fatto, noi italiani, a dimenticare il nostro non cosi lontano passato di emigranti? Il microcosmo di un piccolo villaggio calabrese, dove ha sede uno dei più grandi campi d’ accoglienza d’ Europa, riflette quello che succede nel macrocosmo dItalia: paura delle diversità, diffidenza e il dubbio se e come accogliere tutta questa gente disperata che raggiunge le nostre coste.
Al seguente link potete vedere il servizio realizzato da UniromaTV dal titolo "Emergenze e Crisi Umanitarie"
RispondiEliminahttp://www.uniroma.tv/?id_video=15187
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