Elezioni 2018:
Salvini e Di Maio
vincono promettendo sogni
Le parole amare di Gianni Letta:
"C’è chi voleva spartirsi i voti di Silvio"
Mattarella non fa sconti
È già finito il tempo dei festeggiamenti per Di Maio e Salvini: il giorno dopo il voto, il capo del Movimento 5 Stelle e il segretario del Carroccio toccano con mano quale sia la differenza tra vincere le elezioni e arrivare primi. E quale sia il rischio che da questo momento corrono. Ecco perché, all’unisono, si trincerano dietro le prerogative del capo dello Stato come a prender tempo, quasi evitando di rivendicare il mandato per formare il prossimo governo: non subito comunque, di certo non a tutti i costi. Entrambi temono di trovarsi esposti troppo presto ai giochi di Palazzo, di diventare le vittime degli avversari interni ed esterni e di pregiudicare così la loro ambizione, quella di assumere — ognuno per la propria parte — la leadership del nuovo bipolarismo ancora in incubazione. Fiutano la trappola, la scorgono sotto un’eventuale offerta di un incarico esplorativo. Infatti, se questo fosse il tragitto per arrivare a Palazzo Chigi, è certo che Di Maio non lo percorrerebbe: «O mandato pieno o niente», ha detto durante la prima analisi sul dopo-voto. E come Di Maio anche Salvini osserva con circospezione quanti — tra compagni di partito e alleati — gli portano doni, sostenendo che adesso tocca a lui il mandato.
«Stampella» dei populisti
È tutto troppo semplice per non essere un agguato. E i due sanno che non possono macchiare la vittoria con un’iniziale passo falso: sarebbe un personale fallimento. Allo stesso tempo il capo dei Cinque Stelle e quello della Lega temono che in assenza di una soluzione di governo si torni presto al voto, e un simile epilogo farebbe saltare i loro piani. Di Maio perché costretto dal limite del «doppio mandato», che è una delle regole costitutive del Movimento. Salvini perché — attraverso «una rivoluzione gentile» — punta a costruire il centrodestra de-berlusconizzato. Per entrambi Palazzo Chigi è «a un passo» ma entrambi sanno di aver bisogno di voti altrui per arrivarci. E questi voti possono arrivare solo dagli scranni del centrosinistra. La visita di ieri ad Arcore compiuta dal capo del Carroccio non è stata solo un gesto di cortesia verso l’alleato, se è vero che Salvini ha chiesto al Cavaliere di assumere un ruolo nell’operazione che mira a conquistare alla causa di governo una parte di quell’area. Il vincolo di mandato, cavallo di battaglia elettorale, è già alle spalle. Come Salvini, anche Di Maio l’ha dimenticato. Come Salvini, anche il capo dei grillini ha preso a dialogare con una costola del Pd, al punto da aver avviato dei contatti con Orlando in attesa che Renzi ieri rassegnasse le dimissioni. Peccato che Renzi si sia messo di traverso e abbia annunciato di voler gestire la fase iniziale della legislatura per impedire che il Pd si trasformi nella «stampella» dei populisti: ha parlato al partito perché lo ascoltasse Mattarella, verso cui nutre i soliti sospetti e con cui i rapporti si sono interrotti.
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