Milano, in fila per mangiare
Nella città della moda, capitale del business, sbanca la mensa dei poveri...Alle 8.30 in viale Monza 335 a Milano, davanti ai cancelli dell'associazione laica Pane quotidiano, la fila occupa già tutto il marciapiede sino all'incrocio con via Doberdò. Nella città della moda, capitale italiana dell'economia, la crisi non fa sconti a nessuno. Presi d'assalto non sono più solo i negozi di via Montenapoleone, ma le mense per i poveri e i banchi di distribuzione alimentare.
IN FILA PER MANGIARE. Sono per lo più uomini quelli che arrivano di buon mattino, giovani ma anche anziani, soprattutto stranieri aspettano in piedi sino alle 9 quando il cancello finalmente si apre.
Molti si guardano intorno spaesati, ma la maggior parte aspetta come se quell'attesa fosse ormai un rito quotidiano, una routine. In fila persone di tutti i tipi: lavoratori precari, badanti, giovani mamme con bambini, pensionati e delinquenti. Pure un ex tenore della Scala caduto in disgrazia. E un mix di nazionalità: arabi, ucraini, italiani e latinos.
In fila pensionati, sedicenti poliziotti e lavoratori precari
Ermelinda viene ogni mattina a prendere da mangiare. Settantacinque anni, peruviana, quattro figli: «Tre vivono qui, uno a Barcellona ed è laureato», racconta a Lettera43.it orgogliosa, «ora sta facendo un master in Oftamologia, ma quando finisce torna in Perù e mi porta con lui».È stanca Ermelinda: vive in Italia da cinque anni, ad Arequipa era rimasta sola, così i figli più grandi l'hanno portata a Milano. «Loro però vivono a Baggio (quartiere a Ovest di Milano, ndr), vado a trovarli ogni tanto, ma è lontano». Per lei non c'era posto in casa, tanti nipotini e poco lavoro.
ALLA RICERCA DI CIBO E COMPAGNIA. Così la donna vive sola in una piccola casa in zona Pasteur. E l'associazione Pane quotidiano è diventata per lei un punto di riferimento, anche solo per scambiare due chiacchiere con qualcuno che parli spagnolo.
Ogni giorno viene in viale Monza e aspetta il suo turno: «Tieni», ci dice dopo aver tolto dalla borsa un sacchetto di plastica, «prendilo così quando entriamo anche tu ti fai dare le cose e poi me le dai».
IN CODA ANCHE UN INFILTRATO. Davanti a Ermelinda un uomo sulla quarantina ascolta incuriosito la conversazione mentre continua ad accarezzare il suo piccolo cane. Alla domanda: «Come funziona qui?», sorride. E poi chiede: «Non è qui per bisogno vero?». Quindi, insospettito risponde: «Anche io non sono mica qui per mangiare».
Aria distinta, pantaloni blu, t-shirt azzurra, gillet, zaino in spalla, Marco spiega di essere in fila per lavoro. Racconta di essere un poliziotto: «Vengo per fare alcuni controlli, ci sono dei soggetti poco raccomandabili». Dice di conoscere tutti. «Non ci sono solo bisognosi, ma un sacco di gente ingorda che preferisce non fare la spesa al supermercato e così risparmia e si fa i soldi».
CIOCCOLATO, PANE, BANANE E PISELLI. Intanto la fila diventa sempre più lunga. Alle 9 aprono i cancelli. Ognuno passa davanti ai vari banchetti e apre la busta: i volontari mettono dentro una manciata di cioccolato, uno yogurt con i cereali, una confezione di stracchino, una busta di pane, quattro banane e una scatola di piselli che, come è scritto nel cartello sotto le confezioni, sono scaduti il 28 maggio. «Sì ma sono buoni lo stesso», dice Ermelinda.
La ressa al banco dei vestiti
Dopo aver preso le cose da mangiare si può passare al banco dei vestiti, che c'è solo il martedì, il giovedì e il sabato.Davanti ci sono tante donne, soprattutto dell'Est. Julia non parla bene l'italiano, è ucraina e fa la badante. «Non sono qui per il cibo, mangio dalla vecchia», racconta, «ma vengo solo per i vestiti».
Come lei anche altre signore sulla quarantina, rossetto rosa, orecchini e capelli biondi frugano in mezzo al mucchio di vestiti. Poi escono sorridenti con le borse piene.
Tutti cercano di accaparrarsi i capi migliori: «Hai pantaloni taglia 50?», «ci sono mutande?», «sandali misura 38?».
Massimo cinque minuti per trovare qualcosa davanti a una montagna di indumenti, poi il signore dietro il banco inizia a urlare: «Tu basta, vai via, vedi la fila che c'è, fai passare anche gli altri», dice a un ragazzo slavo che ha appena preso un giubbino di jeans.
I VOLONTARI SONO RUDI. I volontari, quasi tutti uomini ultracinquantenni, hanno modi un po' rudi: «Sono sempre così», dice Maximiliana, ecuadoriana di 65 anni, «non sembrano persone di cuore, ci urlano contro come se noi fossimo qui per divertirci, è umiliante».
Ma a difendere lo staff di Pane quotidiano c'è Tittina, milanese, 53 anni: «È vero sono un po' sgarbati, ma spesso hanno a che fare con gentaglia, e alla fine se non fanno così tutti ne approfittano».
Neanche dopo cinque minuti una scena sembra dar ragione a Tittina: un ragazzo magrebino protesta per il cibo con un volontario, che subito alza la voce e lo invita ad andare via. Prima di uscire il ragazzo si gira e lancia la busta per terra contro l'anziano. Gli animi si accendono, un altro ragazzo entra in difesa del suo amico. Il rischio di una rissa è scongiurato dall'intervento di un giovane che con qualche pacca sulla spalla risolve tutto.
Fuori il caporalato del cibo: sigarette in cambio degli alimenti
Intanto fuori un traffico parallelo attira l'attenzione di Tittina: «Quei due vicino alla macchina grigia», dice, «ogni giorno ne hanno una diversa, loro non hanno certo bisogno, arrivano aspettano che esci, guardano cosa hai dentro le buste e se gli dai i prodotti migliori in cambio ti danno qualche sigaretta. Sono i peggiori».Una sorta di caporalato del cibo, tabacco e sacchetti di plastica in cambio degli alimenti migliori come le mozzarelle, lo stracchino, i biscotti.
SI DEVE AVERE UN SACCHETTO. Ma non tutti si accorgono del giro losco. Alle 10 la gente continua ad arrivare. Per Dorina, una trentina d'anni, è la prima volta. Indossa un completo nero con una camicetta rosa, ha una cartella sotto il braccio e sembra spaesata. Con le poche parole in italiano che conosce chiede come funziona. Ermelinda apre la borsa e le dà un sacchetto: «Qua devi sempre portartene uno, altrimenti non ti danno le cose», le spiega. Dorina, capelli biondi e sguardo dolce, sorride con i pochi denti che ha in bocca, ringrazia e va via.
In pochi hanno voglia di raccontarsi e quando lo fanno non sempre dicono tutta la verità. «Mi sono sposato a Porto Cervo», continua Marco, il 'poliziotto', mentre prende il cellulare per mostrare una foto del suo matrimonio: «Questa è mia moglie: vedi che bella e che in bel ristorante abbiamo festeggiato? Mica ho bisogno di mangiare qui». Ma poi appena esce dal cancello, si ferma nello spiazzo all'angolo e sbuccia una banana.
POCHI PARLANO, ALTRI MENTONO. Anche Tittina dice di non avere nessuna necessità: «Vengo a prendere qualcosa per il mio vicino, è solo ed è agli arresti domiciliari, così io gli porto da mangiare».
Maria invece è pensionata, messa in piega appena fatta, ballerine gialle, pantaloni blu e camicetta bianca. Con aria distinta apre anche lei il sacchetto davanti al banco delle banane e poi esce veloce: «Ho 600 euro di pensione e almeno per il cibo cerco di risparmiare», dice mentre attraversa la strada e smette di rispondere.
Ugo, anche lui pensionato, arriva in bici, occhiali da sole in testa, tuta da ginnastica e sacchetto in mano. «Qui vengono tutti», racconta, «sembrano poveri, ma in realtà c'è molta gente con i soldi, tanti milanesi. È normale, è come al supermercato, solo che qui non si paga».
NESSUN CONTROLLO, SI ACCOLGONO TUTTI. All'ingresso non c'è nessun controllo. «Per questo la gente si trova bene», osserva Tittina, «quel signore era un tenore della Scala, ora da due anni fa il barbone, ma non vuole mai parlare con nessuno, viene e poi scappa via subito».
La discrezione è apprezzata da tutti. «Qui non ti chiedono né documenti né cosa fai nella vita», dice Maximiliana, «non è come quando vai in chiesa, dove ti fanno sempre un sacco di domande».
Mensa Opera San Francesco: sino a 3 mila pasti al giorno
In effetti al centro Sant'Antonio di via Maroncelli per entrare in mensa all'ora di pranzo serve il tesserino. E per averlo si deve passare per il centro di ascolto: in base ai bisogni lo danno per potere accedere al guardaroba, che va rinnovato ogni tre mesi o alla mensa (rinnovo ogni due mesi). «A tavola abbiamo 108 posti, ma circa 216 tesserati, che però non vengono tutti i giorni, così riusciamo ad aiutare tutti», racconta il francescano all'ingresso.«Gli italiani sono il 50%», dice.
UOMINI SONO LA MAGGIORANZA. Alla mensa dell’associazione dei frati cappuccini di corso Concordia Opera San Francesco (Osf), invece, in fila davanti all'ingresso ci sono per la maggior parte uomini tra i 30 e i 40 anni, stranieri, di colore.
«Ma ora iniziano a venire anche tante donne, e poi c'è sempre uno zoccolo duro del 10% di italiani, soprattutto pensionati», spiega Andrea Rossetto, responsabile del servizio mensa.
OLTRE 600 VOLONTARI AL LAVORO. A gestire la grande macchina di Osf ci sono 43 dipendenti laici e ben 600 volontari che garantiscono il servizio di mensa a pranzo e a cena: sino a 3 mila pasti al giorno.
«C'è stato un grande aumento delle richieste a partire dal 29 agosto 2011», spiega Rossetto, «la media è di 2.600 pasti, di cui 1.800 a pranzo». Il responsabile del servizio racconta come molte persone che avevano smesso di andare perché avevano trovato un lavoro, siano invece tornate a frequentare di nuovo la mensa.
MOLTE PRETESE E MALESSERE. Sempre più numerosi, quindi, e soprattutto più esigenti. Mentre Rossetto parla, un signore si avvicina con il vassoio in mano e dice: «Il pane fa schifo».
Il responsabile del servizio gli dice qualcosa, poi torna con la faccia rassegnata: «C'è sempre più rabbia, riscontriamo un malessere crescente che le persone scaricano qua dentro lamentandosi per il cibo o litigando tra loro».
Osf ha anche un poliambulatorio, ma non un dormitorio. Per ora con il Comune offrono un servizio di social housing e in collaborazione con l'agenzia Idea lavoro raccolgono i curricula per cercare di aiutare i tesserati «ma è sempre più difficile, ci sono tante richieste e il mercato è fermo».
AL SERVIZIO DI ACCOGLIENZA. A non fermarsi mai invece è la porta girevole per entrare in mensa. Ognuno ha la tessera che dura due mesi e permette di mangiare, usufruire delle docce e del guardaroba. Per averla basta andare al servizio di accoglienza.
«Ti chiedono solo di compilare un modulo e un documento per fare una fotocopia», racconta Maria mentre è in fila allo sportello. Fa le pulizie in alcune case, ma il marito è disoccupato: «Veniamo qui solo per mangiare», dice. Se infatti l'affitto e le bollette non si possono evitare, almeno sui pasti si cerca di risparmiare.
In fila c'è anche Sara, clochard dal viso dolce e minuto. «Ho 70 anni», dice, ma ne dimostra almeno 10 in più. La vita di strada non è facile, ma il suo sorriso, seppure privo di denti, per un attimo sembra cancellare tutto: «Ho rinnovato la tessera per la mensa, adesso sono a posto, mi dura sino ad agosto», dice mentre va via trascinandosi dietro le buste con tutto quello che possiede.
di Antonietta Demurtas
http://www.lettera43.it/attualita/milano-in-fila-per-mangiare_4367553751.htm
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