Accade oggi : Il 27 dicembre Il 27 dicembre 2008
l'operazione "Piombo Fuso", strage compiuta dall’aviazione israeliana
con il lancio di bombe al fosforo bianco e bombe DIME, uranio
impoverito, sul popolo Palestinese .Nei primi giorni i morti si contano a
centinaia , tante donne e bambini Il 3 gennaio 2009 segue l’invasione
di terra che continua a seminare morte e distruzione.
Alla Fine si conteranno 1546 morti e 5200 feriti di cui tanti rimarranno invalidi per il resto dei loro giorni....
Per Non Dimenticare....
Palestina Libre...
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Gli abusi di Piombo fuso raccontati dai soldati
L'associazione
israeliana Breaking the silence ha pubblicato un rapporto con le
testimonianze dei soldati impegnati nell'operazione Piombo fuso. I
militari tornano sugli abusi commessi nel corso della guerra del gennaio
2008.
«Prima sparare e poi preoccuparsi»: ecco il
principio sul quale si è retta l’operazione israeliana Piombo fuso, la
guerra lampo che nella Striscia di Gaza tra dicembre e gennaio 2008 ha
provocato la morte di 1400 palestinesi e 13 israeliani. Ora a dirlo sono
gli stessi soldati dell’esercito israeliano. Le loro testimonianze sono
state raccolte da un’organizzazione creata dai soldati, Shovrim Shtika
[Rompere il silenzio], che ha pubblicato un rapporto con il racconto di
ventisei soldati che questa guerra l’hanno fatta. E’ l’ennesimo colpo
alla Israeli defense force dopo le accuse di violazioni avanzate da
organizzazioni come Amnesty International e Human rights watch:
l’esercito ha subito negato le accuse. Il quotidiano Haaretz ha
pubblicato oggi alcuni stralci del rapporto messo a punto
dall’organizzazione ‘Rompere il silenzio’ che ha raccolto le
testimonianze dei soldati impegnati nell’offensiva del gennaio 2008.
Secondo
il racconto ripetuto da un sergente israeliano al reporter di Haaretz,
che ha anche pubblicato ampi stralci del rapporto, i palestinesi
venivano spesso mandati dentro le abitazioni per verificare se ci fosse
qualcuno prima dell’irruzione dei militari. Una pratica – chiamata
‘procedura del vicino’ – già impiegata durante la seconda Intifada e
bocciata come inumana dalla Corte suprema israeliana nel 2005. In un
episodio riferito dal sergente, gli israeliani avevano localizzato tre
miliziani palestinesi asserragliati in un casa. Era stato chiesto
l’intervento degli elicotteri che avevano bombardato l’abitazione. Per
verificare che i miliziani fossero morti, un civile era stato costretto a
entrare nell’edificio pericolante. Ne era uscito dicendo che i tre
erano ancora vivi e così l’esercito aveva ordinato un nuovo raid aereo.
Il palestinese era stato costretto a entrare di nuovo nell’edificio e ne
era uscito dicendo che due erano morti ma il terzo era ancora vivo. Era
stato allora chiesto l’intervento di un bulldozer che aveva iniziato a
demolire la casa. Solo allora il miliziano si era deciso ad arrendersi e
a consegnarsi ai soldati.
Le testimonianze dei soldati
concordano: l’ordine del Comando era di minimizzare le perdite tra i
militari per non perdere il sostegno dell’opinione pubblica. «Meglio
colpire un civile che esitare a sparare su un nemico – era la direttiva –
nell’incertezza, uccidete. Nella guerriglia urbana chiunque è tuo
nemico e non ci sono innocenti».
A marzo, altre
testimonianze di soldati su abusi contro i civili palestinesi erano
state rese pubbliche ma la loro affidabilità era stata contestata dai
vertici dell’esercito. Anche questa volta, il commento dell’esercito non
si è fatto aspettare. «Dalle testimonianze pubblicate e dalle indagini
condotte dall’Idf, appare chiaro che i soldati hanno operato nel
rispetto del diritto internazionale», dicono. Secondo fonti palestinesi,
tra le 1.417 vittime dell’operazione Piombo fuso ci furono 926 civili,
secondo l’esercito israeliano il bilancio fu di 1.166 morti tra cui 295
civili.esercito. Per l’esercito israeliano, «anche ora gran parte di
quanto detto si basa su voci e testimonianze indirette, senza che sia
possibile verificare i dettagli in modo da confermare o smentire
l’accaduto». Per Asa Kasher, autore del codice etico dell’esercito,
«l’organizzazione Shovrim Shtika intende difendere i valori morali
mentre ne fa un’agenda politica: andare nel verso delle accuse
palestinesi. Quando i soldati
dicono che potevano sparare a
volontà: o hanno agito seguendo la propria volontà e sono da condannare,
o non hanno rifiutato gli ordini dei loro superiori, e sono ugualmente
da condannare. I soldati hanno l’obbligo legale di rifiutare ordini
illegali, di sparare su innocenti. […] E’ molto facile, mesi dopo i
fatti, scagliare la pietra all’esercito prendendo i media a testimonio».
«Ci sono abusi in ogni guerra, ma quello che ci turba è di
vedere come, nella sua operazione a Gaza, l’esercito israeliano sembra
aver cambiato i suoi concetti etici senza dircelo. L’uso di tattiche di
guerra contro i civili palestinesi è ingiustificabile», commenta Yehuda
Shaul, direttore di Shovrim Shtika.
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Israele dice No a una commissione d'indagine indipendente su Piombo fuso
Israele
non creerà nessuna commissione di inchiesta indipendente per verificare
le accuse, contenute nel rapporto della commissione dell’Onu presieduta
dal giudice sudafricano Richard Goldstone, sui crimini commessi durante
l’offensiva militare ‘Piombo fuso’ contro la Striscia di Gaza, tra il
dicembre 2008 e il gennaio 2009, nella quale persero la vita oltre 1400
palestinesi. Lo ha riferito il ministro per l’Informazione Yuli
Edelstein in un’intervista da New York dopo aver incontrato il
segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon per informarlo della decisione
presa dal governo di Tel Aviv. Il ministro ha aggiunto che Israele
consegnerà giovedì prossimo all’Onu un documento con i risultati di
un’inchiesta condotta internamente dalle forze armate sul comportamento
delle truppe durante ‘Piombo Fuso’. Aspramente criticato dai vertici
israeliani, il rapporto Goldstone invita l’Onu a consegnare alla Corte
penale internazionale [Cpi] dell’Aja il dossier su ‘Piombo fuso’ a meno
che Israele e Hamas – entro i prossimi sei mesi – non autorizzino
indagini indipendenti sugli episodi relativi a presunti «crimini di
guerra» contenuti nel rapporto.
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Comprare la propria acqua: il paradosso palestinese
DA,,,, www.misna.org
Dal
sito dell'agenzia dei Missionari comboniani, Misna, ecco un illuminante
articolo su come Israele toglie l'acqua ai palestinesi.
Una
sete indotta e paradossale colpisce i due Territori Palestinesi
Occupati, Striscia di Gaza e Cisgiordania, al punto da aver suscitato la
denuncia di grandi organizzazioni umanitarie ma anche di molti altri
operatori del settore radicati soprattutto in quelle zone.
«Immaginate
ville aggrappate a una dolce collina, immerse in verdi giardini curati
con moderni sistemi di irrigazione, dotate di piscine e collegate tra
loro da una rete stradale ricca di fontanelle; poi, abbassate lo
sguardo, troverete un povero villaggio palestinese con serbatoi in
plastica di colore nero sui tetti in cui viene immagazzinata l’acqua che
di tanto in tanto arriva da Israele; forse sentirete anche il ronzio di
motorini e autoclave che pompano l’acqua fin sopra il tetto e donne
indaffarate a sfruttare quel momento in cui l’acqua viene erogata per
pulizie straordinarie che non compromettano le riserve necessarie alla
famiglia»: è Ettore Acocella, operatore italiano, responsabile di un
progetto sociale per l’organizzazione Crocevia, che parla alla Misna da
Ramallah, in Cisgiordania, il più «fortunato» dei due Territori
Palestinesi Occupati.
«Il paradosso – continua Acocella – è che i
palestinesi sono costretti a comprare dagli israeliani la loro stessa
acqua: non hanno infatti diritto al bacino della valle del Giordano, non
possono scavare pozzi, a volte gli stessi serbatoi sui tetti delle loro
case vengono presi di mira ‘per gioco’ dai coloni con colpi d’arma da
fuoco». Secondo un rapporto diffuso lo scorso ottobre
dall’organizzazione non governativa Amnesty International quella
israeliana è una vera e propria appropriazione indebita che insieme a
una serie di assurde limitazioni rende di fatto impossibile per un
palestinese approvvigionarsi di acqua se non passando attraverso le
autorità israeliane che la razionano in base a criteri e modalità
proprie e non secondo gli interessi della popolazione che vive a Gaza e
in Cisgiordania.
Il documento denuncia che Israele estende
progressivamente e al di là di qualunque accordo il suo controllo sulle
risorse idriche dei Territori Occupati e riesce a esacerbare in questo
modo le già precarie condizioni in cui sono costretti a vivere i
palestinesi. «Israele consente ai palestinesi solo una frazione delle
risorse idriche in comune – sottolinea Donatella Rovera, autrice del
rapporto – che si trovano concentrate in gran parte in Cisgiordania» con
il risultato che mentre un palestinese dispone in media di 70 litri
d’acqua al giorno, un israeliano ne ha circa 300 grazie alle forniture
che arrivano proprio dalla Cisgiordania. In alcune aree rurali i
palestinesi sopravvivono con solamente 20 litri al giorno, la quantità
minima raccomandata per uso domestico in situazioni di emergenza. Da
180.000 a 200.000 palestinesi che vivono in comunità rurali non hanno
accesso all’acqua corrente e l’esercito israeliano spesso impedisce loro
anche di raccogliere quella piovana. I 450.000 coloni israeliani, che
vivono in Cisgiordania in violazione del diritto internazionale,
utilizzano la stessa, se non una maggiore quantità d’acqua, rispetto a
2.300.000 palestinesi. Altro paradosso sottolineato dalla Rovera
riguarda la differenza di trattamento riservata ai coloni che hanno
costantemente acqua corrente e pagano molto meno rispetto ai
palestinesi. «E la situazione – conclude la ricercatrice – è perfino
peggiore nella Striscia di Gaza a causa del blocco dei confini attuato
da Israele» e delle distruzioni causate dall’offensiva militare conclusa
a gennaio 2009. «Qui – dice alla Misna Tamir Bahari, operatore sociale
palestinese – possiamo scavare pozzi, ma l’acqua è inquinata perché le
falde sono contaminate a monte, in territorio israeliano, e perché
l’ultima operazione militare israeliana [Piombo fuso, oltre 1400 vittime
palestinesi, ndr] ha distrutto in molte parti il sistema fognario. Per
risolvere questo problema servirebbero mezzi e materiale che devono
arrivare necessariamente da fuori, ma la chiusura dei confini rende di
fatto impossibile qualunque ricostruzione».
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